MINIATURA
Lo sentite
il rombo? Trema la terra, arrivano al galoppo i cavalli mongoli, arriva
la polvere, arriva la velocità e arriva l’arte. Sotto forma di nuvole
ricciute, occhi malandrini a forma di seme d’anguria, animali aggraziati
e maliziosi. È la miniatura, arabesco in punta di pennello, pittura
raffinata, cugina colorata e festosa della calligrafia. Ed è
dono mongolo. Sia resa grazie a
Gengis Khan. E a suo nipote Hulagu,
che dilaga per l’Asia centrale, sbriciola la Persia, il Caucaso e
l’Anatolia, schianta le vecchie capitali Rey e Baghdad e dà vita a una
dinastia vigorosa e una civiltà splendida.
È il
regno Ilkhanide, cari, cento anni
(dal 1256 al 1353) di storia travolgente, prosperità e grande
creatività artistica. Dovuta anche alle linee morbide e ai colori
smaglianti della miniatura. Felicemente accasati a
Tabriz, la loro capitale, i mongoli ilkhanidi si
convertono all’Islam. E per cantare le loro gesta illustrano libri
meravigliosi, in cui la rigida arte islamica acquista uno slancio e una
profondità inusitate. Linee curve, cirri paffuti, animali aggraziati
fanno da contorno a inconsueti Maometto dagli occhi a mandorla e angeli
dalle lunghe trecce. Ornati da aureole di fuoco intorno alla testa. Ma
questa è arte orientale, è pittura buddhista,
sono colori e visi e scene che arrivano dal Gobi, dalle Montagne del
Cielo, da Karakorum e da Khanbalik, le vivaci capitali mongole. Proprio
così. La pittura asiatica avvolge nel suo abbraccio quella persiana. La
trasforma, la rende viva e fremente: la inzuppa in colori smaglianti, la
illumina di chiaroscuri, la taglia e la angola usando la prospettiva.
Prima della conquista mongola, la miniatura persiana è bella ma statica.
Arriva l’orda, e le immagini si svegliano: è rivoluzione, è come saltare
dalla fotografia al cinema. Hollywood Mongolia.
Gli
Ilkhanidi ci prendono gusto, a queste miniature deliziose. Le usano per
tessere le lodi del Profeta, certo. Ma anche per narrare gesta belliche,
ed eccoti lo Shahnama, il libro dei
Re, tanto fantastico che il Metropolitan Museum di New York gli ha
dedicato nel 2002 una mostra memorabile. E, siccome il mongolo è
guerriero ma ha anche cuore raffinato, con le miniature si adornano le
grande storie d’amore persiane, quelle di
Cosroe e Shirin, Leila e Macnum, vicende tanto dense di
passione e avventure che Giulietta e Romeo sono verdi d’invidia. E
miniature sciamano festose su trattati di botanica, alchimia, medicina e
cosmologia.
Gli anni
corrono rapidi, gli Ilkhanidi lasciano il passo ai
Jalayiridi, ma è un sof fio, perché è già il XV secolo ed
impazza Timur lo Zoppo, sangue
mongolo che ribolle persino nella sua gamba lesa. Intanto, la miniatura
è fiorita a Shiraz, a
Tabriz, infine a
Herat. Ha avuto il suo Giotto, il maestro
Ahmad Mousa.
E il suo Leonardo, il grande Kamal-od-Din
Behzad. La fine arriva con i Turchi. Nel XVI secolo, il sire
Selim agguanta Tabriz e la Persia tutta, la scuola di miniatura si
disperde, i maestri vanno di corte in corte e le loro opere si aprono a
nuovi influssi. Il ricordo della grande scuola persiana però rimane.
Persino oggi. Correte a leggere "Il mio nome è rosso", del premio Nobel Orhan Pamuk. In questo giallo,
ambientato tra i calligrafi e i miniaturisti del Gran Serraglio, la
chiave dei delitti sta proprio in una miniatura eseguita secondo i
precetti dell’antica scuola. Con tanto di cavallo mongolo dalla narice
mozzata…
di Rita Ferrauto
da "Mongolia - L'ultimo paradiso
dei nomadi guerrieri"
di Federico Pistone - Polaris 2008) |