
«Porto gli stessi cenci e mangio
lo stesso cibo dei bovari e degli stallieri. Considero il popolo
come un fanciullo e tratto i soldati come fossero miei fratelli.
I miei progetti sempre concordano [con la ragione]. Quando
faccio il bene, ho sempre cura [degli uomini]. Quando mi servo
delle miriadi di miei soldati, mi pongo sempre alla loro testa.
Mi sono trovato in cento battaglie e non ho mai pensato se c'era
qualcuno dietro me. Ho affidato il comando delle truppe a quelli
in cui l'intelligenza era pari al coraggio. A chi era attivo e
capace ho affidato la cura degli accampamenti. Agli zotici ho
fatto mettere in mano la frusta e li ho mandati a sorvegliare le
bestie». (citazione di Gengis Khan, da una stele taoista del
1219)
La Storia Segreta dei
Mongoli
(pagine scelte)
Il lupo azzurro che sottomise il Cielo (di Pietro Citati)
SIAMO
TUTTI FIGLI DI TEMUJIN
di
Federico Pistone (da "Mongolia -
L'ultimo paradiso dei nomadi guerrieri" - Polaris)
Se fino a quindici anni fa
evocare il nome di Gengis Khan poteva portare di fornte a un plotone di
esecuzione del governo filosovietico, oggi parlare male o a vanvera del grande
condottiero viene considerata una bestemmia e insieme un vilipendio. Gengis Khan
(la pronuncia corretta assomiglia a Cinghis Haan, con l’acca molto aspirata), il
più grande conquistatore di tutti i tempi, riposa in pace, probabilmente in un
luogo del Khentii, nel nord della Mongolia, dov’è nato intorno 1162, incoronato
imperatore nel 1206 e morto nel 1227. Aveva conquistato il mondo a cavallo e
l’unica volta che ne è sceso, per una caduta, è morto. Eppure Gengis Khan è
stato riesumato e torna a vivere nell’orgoglio dei mongoli: è diventato perfino
un’ossessione, soprattutto dopo la celebrazione degli 800 anni dell’impero
festeggiati nel 2006. Si comincia già allo sbarco a Ulaanbaatar: l’aeroporto,
dal maggio 2006, si chiama Chinggis Khaan, e non più col nome storico Buyant
Ukhaa. Dal marzo 2008 dagli aerei in atterraggio è possibile scorgere un
gigantesco ritratto del condottiero formato da 430.000 tessere di cristallo,
dono del Rotary club di Taipei. In qualsiasi bar si può bere l’ottima birra
Genghis Khan e sugli scaffali dei supermercati sono infilate centinaia di
bottiglia dell’omonima vodka, tra l’altro eccellente grazie all’acqua purissima
che viene utilizzata. Uno degli alberghi più prestigiosi della capitale si
chiama Chinggis Hotel, una bizzarra struttura rosa e nera che assomiglia a un
castello di carte in riva al fiume Selbe. Uno dei pub-ristoranti più frequentati
è il Chinggis Club, a nord della città, con cucina tedesca e birra dedicata a
Temujin. Ma c’è un concorrente proprio davanti allo State Department Store che
offre esclusivamente cucina mongola, soprattutto i buuz, i tradizionali ravioli
al vapore ripieni di carne di montone: si chiama Khaan Buuz. Anche una delle
principale banche di Ulaanbaatar non si è fatta sfuggire l’occasione di
garantire i risparmi sotto il nome più rassicurante: Khaan bank, un grande
edificio immacolato a est di Ub. Uno dei gruppi musicali rock più popolari si è
assicurato il battesimo dell’imperatore. Infinita la teoria di negozi e locali
con il nome del condottiero. Che, a scanso di equivoci, campeggia anche su
manifesti giganti, come quelli che pubblicizzano la compagnia telefonica mongola
e sulle banconote più diffuse, da 500 a 10.000 tugrig, cioè da 30 centesimi a
6,5 euro. Per accontentare i sovietici, non solo i mongoli hanno eretto statue
ad eroi forestieri (la Mongolia è stato l’ultimo Paese al mondo, Russia
compresa, a tenere in piedi le statue di Stalin) ma hanno dedicato la piazza
principale e il nome della capitale (Ulaanbaatar: eroe rosso) a Sukhbaatar (eroe
con l’ascia, sempre lui), colui che nel 1921 capeggiò la rivolta mongola contro
i cinesi per consegnare la patria direttamente nelle mani dei sovietici. C’è da
scommettere che nei prossimi anni la piazza cambierà nome: nel frattempo è stata
eretta una sontuosa statua di Gengis Khan al centro di un colonnato di fronte al
Parlamento che fa quasi impallidire Sukhbaatar a cavallo.
I mongoli, anche i più
giovani, sono orgogliosi di essere discendenti di Gengis Khan. La bibbia qui è
La Storia segreta dei mongoli che viene letta e studiata già nelle scuole
elementari. Ma forse non sanno che anche noi siamo un po’ figli di Gengis Khan.
Una ricerca genetica condotta da Chris Tyler-Smith e pubblicata dall’American
Journal of Human genetics ha accertato che lo 0,5% dell’intera popolazione
mondiale e l’8% di quella asiatica discende da un uomo solo che ha trasmesso il
cromosoma battezzato super Y
e che ha vissuto tra il XII e il XIII secolo. Allo stesso risultato era giunta
un’altra ricerca condotta da Bryan Sykes dell’Università di Oxford che aveva
ricondotto senza incertezza il gene a Temujin per “la consuetudine
dell’imperatore mongolo di uccidere i nemici e violentare le donne quando i suoi
eserciti conquistavano un nuovo territorio. “Non c’è dubbio – ha ribadito David
Morgan, docente di storia mongola all’Università del Wisconsin – che Gengis Khan
lasciò una progenie sterminata”. Insomma, siamo un po’ tutti figli di Gengis
Khan. E chi ha la cosiddetta macchia mongolica
stampata sul corpo può vantare una vera e propria certificazione genetica di
garanzia.
GENGIS
KHAN, IL NOMADE CHE CONQUISTO’ IL MONDO
di
Federico Pistone (da "Mongolia - L'ultimo paradiso dei nomadi guerrieri"
- Polaris)
La sua tomba resta un segreto.
Se l’è portato con sé e con le centinaia di cavalli e cavalieri uccisi per non
rivelare al mondo il luogo della sua sacra sepoltura. Inutili finora gli scavi,
inutile il dispiego di satelliti e altre diavolerie tecnologiche importate da
Stati Uniti e Giappone. Gengis Khan, il più grande conquistatore di tutti i
tempi,
riposa in pace probabilmente in un luogo del Khentii, nel nord della Mongolia,
dov’è nato intorno 1162, incoronato imperatore nel 1206 e morto nel 1227. Aveva
conquistato il mondo a cavallo e l’unica volta che ne è sceso, per una caduta, è
morto. “La Storia segreta dei mongoli”, scritta
da anonimo nel settimo mese dell’anno del Topo 1240, quindi diciassette anni
dopo la morte di Gengis Khan, ci aiuta a capire molti aspetti della vita e della
leggenda del grande condottiero, ancora oggi oggetto di vivacissime diatribe
storiche. Colui che diventerà Gengis nasce sulle rive del fiume Onon, alla
confluenza con l’Hur, tenendo in mano un grumo di sangue rappreso. Viene
battezzato Temujin perché questo è il nome del capo dei tartari appena catturato
dall’esercito mongolo guidato dal padre Yesugai. Quando Temujin ha nove anni
viene dato in sposa a Boorte,
che ha un anno in più. Al
ritorno verso l’accampamento, Yesugai è avvelenato dai tartari. Temujin cresce
con la sete di vendetta, dimostrando subito uno straordinario coraggio ma anche
una saggezza stupefacente. In poco tempo riunisce tutte le popolazione nomadi e
guerriere dell’Asia centrale. Così nel 1206 viene incoronato Gengis Khan, che
significa “signore degli oceani”. Si circonda dei migliori strateghi della
guerra e comincia a espandere come un’immensa onda il proprio dominio prima di
morire combattendo. Lascia ai mongoli un impero quasi senza limiti, dal mar
della Cina al Mediterraneo. Come per gli Unni di Attila, la morte del
condottiero coincide con il declino di un’epopea. Dopo Gengis Khan l’impero
mongolo raggiungerà dimensioni ancora superiori, ma andrà sfaldandosi fino alla
dissoluzione. Bat Erdene Batbayar, storico mongolo e attivista politico, ha una
motivazione che sconfina nella psicologia: “Il nostro è un popolo nomade,
guerriero ed equestre. Abbiamo facilità di conquista, ma un’estrema fragilità
nel controllare territori immensi e lontani. Il rischio di dissidi e di attacchi
di nostalgia era sempre in agguato”. Insomma, la malinconia avrebbe annientato
l’impero dei mongoli.
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sezione I KHAN
UNA
STORIA SEGRETA FRA PASSIONE E CRUDELTA’
di
Federico Pistone (da "Mongolia - L'ultimo paradiso dei nomadi guerrieri"
- Polaris)
Fu Gengis Khan a imporre
l’istruzione al popolo dell’impero mongolo. Nel 1204 fece pubblicare, in
linguaggio uiguro, il codice delle leggi, chiamate yasak, termine che ha quattro
significati: ordine, divieto, danno, peccato. Scelse l’inchiostro azzurro che
richiama il sacro cielo, a sottolineare l’origine divina di questi editti. Ma la
scrittura restò solo legata a documenti ufficiali o religiosi.
La tradizione scritta è molto scarsa, come per tutte le popolazioni nomadi. C’è
però un’eccezione straordinaria: “La Storia segreta dei Mongoli”, scritta nel
XIII secolo da una sorta di Omero mongolo, solo diciassette anni dopo la morte
di Gengis Khan. È una saga sconcertante per la nostra sensibilità occidentale,
ma permette di affondare lo sguardo in una realtà tanto lontana nel tempo e
nello spazio,
densa di coraggio e crudeltà, di orgoglio e passione. Ogni mongolo ha letto la
“Storia segreta” almeno una volta, molti la sanno a memoria, a scuola è studiata
con assiduità e ha la stessa valenza per noi della “Divina commedia”. In calce,
l’autore (o forse gli autori) ha voluto ricordare che l’opera è stata scritta
sotto il regno di Ogodei, figlio di Gengis Khan, nel settimo mese dell’anno del
Topo (1240). La “Storia segreta”, composta nell’antico alfabeto uiguro, era
andata perduta ma a metà dell’Ottocento ne fu miracolosamente rinvenuta una
copia trascritta in cinese. Racconta della vita di Gengis Khan, dalle origini
alla morte, attraverso le sue impressionanti gesta. Questo testo, lungo quanto
un romanzo, è diventato l’unica vera “sceneggiatura” di mille film, libri,
documentari e speculazioni su Gengis Khan e sull’impero mongolo, come la saga
editoriale “Il figlio della steppa” di Conn Iggulden, il romanzo più venduto in
Inghilterra nel 2007.
La Storia
segreta si apre con la nascita e del battesimo del più grande conquistatore
della storia, partendo dai successi in battaglia del padre: “Proprio mentre
Yesugai sconfigge i Tatari che hanno come capo Temujin-Uge, la moglie Hoelun
partorisce presso il fiume Onon: allora nasce Gengis Khan. Stringe in mano un
grumo di sangue rappreso. Dicono: è nato mentre veniva catturato il nemico
tataro Temujin-Uge, lo chiameremo Temujin”. Quando ha nove anni, il padre decide
di trovargli una moglie dagli zii materni. “Ha dieci anni, uno in più di Temujin.
Si chiama Borte e ha il viso come l’alba e gli occhi di fuoco”. La narrazione
passa attraverso il dramma della morte del padre: “Yesugai ha molta sete e
decide di fermarsi a chiedere da bere a un gruppo di Tatari. Ma loro lo
riconoscono e di nascosto gli versano del veleno nella coppa. Tre giorni dopo
Yesugai sta male e chiama a sé il fratello Munglig e chiede di portargli Temujin”.
E qui, ereditato il potere del padre, comincia la vera saga di Gengis Khan,
fitta di battaglie, conquiste, razzie, atrocità, amore, amicizia e tradimenti.
Fino all’incoronazione, nel 1206: “Dopo essersi consultati fra di loro, Altan,
Qucar, Saca-Beki e tutti gli altri dicono a Temujin: Ti eleviamo a Khan.
Inseguiremo il nemico, ti porteremo le vergini e le mogli più belle, tende,
palazzi, schiavi e i cavalli migliori. Cacceremo le belve di montagne e te ne
faremo dono, senza sventrarle. Per ogni animale che cattureremo, te ne daremo
metà, dopo avergli tolto le zampe. Se dovessi mancare a un tuo comando,
allontanaci dall’accampamento, dalle nostre donne, tagliaci le teste e buttale
in terra. Struggente l’episodio del ferimento di Gengis Khan, accudito con
amorevole cura dal luogotenente Jelme: “Gengis Khan è ferito all’arteria del
collo. Impossibile fermare il sangue. Jelme succhia continuamente il sangue che
si rapprende. Quando ha la bocca piena, o sputa il sangue o lo inghiotte”.
Infine la morte del condottiero, solo accennata, come se il narratore avesse
paura di profanarne la memoria, di scoperchiare la tomba che lo stesso Gengis
Khan ha ordinato rimanesse per sempre segreta. Non dimentichiamo che
l’amatissimo imperatore è scomparso da pochi anni e il dolore popolare è ancora
incredibilmente vivo. “Prima di presentarsi a Gengis Khan, Burqan sceglie i doni
per il suo imperatore: nove pezzi d’oro, nove d’argento, nove vasi preziosi,
nove fanciulle, nove dei migliori cavalli e nove cammelli e, come regalo
principale, una tenda d’oro. Durante l’udienza Gengis Khan si sente male”. La
“Storia segreta” finisce dove comincia la leggenda e l’orgoglio di un popolo.
LA
TOMBA DI TEMUJIN Dove
sia sepolto Gengis Khan è ancora un mistero. Nel luglio del 2001 una spedizione
mongolo-americana, guidata da studiosi della Chicago University, ha annunciato
di avere individuato la tomba di Temujin. Sarebbe in prossimità del monte
Burkhan Khaldun nel Khentii, l'aimag d'origine del condottiero. Nella zona di
Iksain Gazar è stato rinvenuto un gigantesco muro di oltre 3 chilometri e alto
fino a 4 metri in cui sarebbero stati sepolti re e regine del medioevo mongolo.
In occasione dell'800° anno della fondazione
dell'Impero di Gengis Khan (1206-2006) la redazione di
www.mongolia.it
ha cercato i luoghi fondamentali della vita del grande condottiero: dove è nato,
dove è stato incoronato e dove, forse, è stato sepolto. Nelle foto (di Federico
Pistone), dall'alto in basso: la congiunzione dei fiumi Onon e Hurhin,
nei pressi di Binder, dove Temujin nacque intorno al 1160; al centro, le
sponde del lago Khokh dove fu proclamato imperatore nel 1206 e, a destra,
il luogo più accreditato per la sua sepoltura segreta, nelle foreste del
Khentii (una pietra levigata fa da accesso a un enorme ovoo di pietre
dietro gli alberi, probabilmente la tomba di un grande condottiero, forse
proprio Gengis Khan). Le ricerche per individuare la sua vera tomba purtroppo
continuano senza sosta, nonostante la volontà espressa da Temujin di
celarne per sempre l'ubicazione.
ECCO I
TRE LUOGHI SACRI (foto Federico
Pistone)
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La nascita
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L'incoronazione
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La sepoltura?
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Gengis, il lupo azzurro che sottomise il Cielo
di Pietro Citati (dal Corriere della Sera del 30 giugno 2011)
Sullo sfondo del bellissimo libro, che René Grousset ha dedicato a Gengis-khan (Il conquistatore del mondo, Adelphi, traduzione di Elena Sacchini, pp. 340, e 24,50), bisogna immaginare tutta l’Asia nordorientale, dai massicci dell’Altai ai confini con la Cina a nord e a occidente massicci nevosi dove appaiono, sulle pendici settentrionali, i «larici pazienti al freddo» ; e verso sud, cedri, pioppi tremuli, betulle, abeti, ontani, salici, e un intricato sottobosco di muschi e di rododendri. È la «foresta sacra» dei Mongoli. Ai piedi dei monti, pascoli rigogliosissimi, erbe alte che arrivano al petto. Poi la steppa, la steppa senza limiti, dove a giugno l’erba fitta è punteggiata di fiori — il giallo acceso delle crocifere e dei bottoni d’oro, il violetto del timo e degli iris, il bianco purissimo delle stellarie, il tenue velluto degli edelweiss. Ma «il sorriso della steppa non dura a lungo» . A metà luglio, sopraggiunge il caldo feroce, spazzato, a mezzogiorno, da violentissimi temporali. A ottobre, le tormente di neve. A novembre, il ghiaccio imprigiona i corsi d’acqua, che si libereranno soltanto ad aprile. Questo paesaggio di ghiacci, alberi e fiori era dominato da una coppia di animali sacri: il Lupo blu-grigio e la Cerbiatta fulva. Tutti i Mongoli si sentivano lupi blu-grigi e cerbiatte fulve. In primo luogo, erano lupi: gli animali inviati dal Cielo, gli archetipi della stirpe, i possenti antenati. Il lupo, colore del cielo, si incontrava con la cerbiatta, fulva come la steppa. Si amavano furiosamente: il loro connubio era l’incontro della fiera e della selvaggina, del divoratore e del divorato, dell’assassino e della vittima; connubio così spesso raffigurato negli ori della Scizia. Attraverso il lupo e la cerbiatta, i Mongoli diventavano animali. Erano come i cavalli, dai quali suggevano il sangue: come «falconi affamati» : come «cani dalla fronte di bronzo» : come «corvi notturni» : come gru «dalle zampe azzurre e dalle penne color cenere» ; come marmotte, talpe, pesci. Persino le frecce di legno e di penne, su cui scrivevano i nomi, erano una parte di loro: vibravano, attraversavano velocemente il cielo, colpivano da lontano e con innaturale precisione i cervi e i falconi, stabilendo con le vittime un legame strettissimo, che solo i Mongoli comprendevano. Sapevano che gli animali erano figure superiori agli uomini: volavano, nuotavano, odoravano, vedevano di notte, conoscevano il futuro e le lingue segrete. Così, per colpire la preda, essi non dovevano scendere verso gli animali, ma salire a un livello più alto dell’uomo, nel punto in cui l’uomo-animale si trasformava in Dio. Gengis-khan nacque nel 1167. Oltre che il Lupo e la Cerbiatta, contava tra i suoi antenati Dobun l’ «accorto» . Dopo la sua morte, la moglie, Alan «la bella» , ebbe tre figli. Un giorno, rivelò loro: «Ogni notte, un essere di abbacinante splendore, circonfuso di luce dorata, penetrava nella mia tenda, e si lasciava scivolare al mio fianco. È lui che, per tre volte, ha fecondato il mio ventre. Poi scompariva, portato da un raggio di sole o di luna. Sono certa che i tre fratelli sono figli di Tengri, il Cielo» . Il prozio, Qutula, era il pontefice degli sciamani: i bardi celebravano la sua voce possente, che rimbombava come il tuono nelle gole della montagna, e le sue mani vigorose, simili alle zampe di un orso, con cui spezzava un uomo in due, come una freccia. Il padre, Yisugei «il coraggioso» , ebbe poteri da khan, sebbene non ne portasse il titolo. Vinse i Tatari in battaglia: diede al figlio il nome di uno dei vinti, Temüjin, in modo che possedesse le qualità del nemico; ma fu avvelenato dai Tatari con una bevanda. In punto di morte, raccomandò il figlio alla protezione di uno sciamano. Appena il padre fu morto, Temüjin, i fratelli e la madre, Höelun, vennero brutalmente cacciati dal loro clan. Il piccolo gruppo conobbe il gelo, la privazione, la fame. Con in capo il nero berretto da vedova, la madre, che aleggiò come una potente presenza femminile sulla vita di Temüjin, raccoglieva mele, ciliegie selvatiche, sorbi, corbezzoli, mirtilli: frugava il suolo, strappando radici, cipolle ed aglio; mentre i bambini catturavano pesci simili al salmone, con gli ami e le canne infantili. Erano soli, «senza altri amici che la loro ombra» . A nove anni, Temüjin uccise un fratello; e la madre lo accusò con durezza. «Sei come la tigre che balza addosso dall’alto di una rupe, come il falcone che piomba ferocemente sugli uccelli, come il luccio che divora silenziosamente gli altri pesci» . Presto la solitudine di Temüjin finì. Conobbe Jamuqa, di qualche anno maggiore di lui, al quale promise «eterna fratellanza» . Jamuqa regalò a Temüjin un astragalo di cervo: l’altro gli diede un aliosso iniettato di piombo. Giocavano insieme sul ghiaccio dei fiumi. Danzavano insieme sotto le fronde di un albero sacro. Mangiavano insieme, dormivano insieme sotto una sola coperta; e «si parlavano a cuore a cuore dicendo parole che non si dimenticano» . Nella giovinezza Temüjin ebbe, forse, esperienze sciamaniche: immaginò di diventare uccello o serpente, imitò il linguaggio degli animali, suonò il tamburo, salì con la fantasia lungo i rami dell’Albero Cosmico. Aveva il viso acceso da un bagliore misterioso, e occhi grigioverdi da gatto o da girifalco. Il suocero lo sognò nella forma di un falcone bianco, che stringeva fra gli artigli il sole e la luna. Come disse Jamuqa, «il suo corpo era temprato nel bronzo. Non lo trapasseresti con una lesina. Era forgiato di ferro. Non lo pungeresti con un ago» . Come Achille, aveva il dono di suscitare nei giovani Mongoli il fascino dell’amicizia virile. Nel 1206, Temüjin venne eletto gran khan, con il nome di Gengis, che, forse, significa «oceanico» o «incrollabile» . Era appoggiato dal più potente sciamano mongolo: poco tempo dopo, si liberò di lui, facendogli spezzare la colonna vertebrale, ma «senza versarne il sangue» . Ora l’orfano miserabile, che si cibava di bacche selvatiche e di radici, dormiva in una grande tenda, protetto da centinaia di guardie, che avrebbero inteso nella notte perfino il suono lontanissimo di un arco di betulla. Dio lo proteggeva. Gli aveva detto: «Ti ho messo alla testa dei popoli e dei regni affinché tu strappi e atterri, dissipi e annulli, pianti e costruisca» ; ed egli non dimenticò mai di essere un riflesso del Cielo. Saliva sulle montagne sacre: si levava il berretto, gettava la cintura sulle spalle, batteva nove volte la fronte sul suolo; e libava, pregava, invocava Tengri, l’Eterno Cielo Azzurro. Così nacque quella figura quasi incomprensibile, che per decenni fu adorata e odiata da milioni di uomini. Da un lato Gengis-khan era insaziabile: voleva conquistare tutto il mondo e diventare immortale; e se una freccia colpiva uno dei suoi cavalli, il suo odio non si saziava fino a quando dieci città non fossero state distrutte, e milioni di uomini massacrati. Ma era leale, generoso, nobile, gentile, fedele: se uno dei suoi guerrieri era ferito, scoppiava in lacrime, si inteneriva. Prima del suo avvento, i Mongoli erano disprezzati dalle tribù vicine. Quando salì sul trono, venne adorato come nessun potente della terra. Possedeva questo dono unico: la maestà. Come il sole allo zenit, lasciava cadere sui sudditi e sui nemici un sorriso stranamente amoroso. Nessun sorriso era così dolce, come questo sorriso nutrito di sangue. Mentre Gengis-khan guardava dal suo alto trono, l’amico della giovinezza, Jamuqa, viveva un’esistenza inquieta e incerta. Quando era alleato di Gengis, cospirava contro di lui: quando stava dalla parte dei suoi nemici, li tradiva. Infine fu preso prigioniero e portato davanti al gran khan. Come racconta mirabilmente la Storia segreta dei Mongoli (Guanda), Gengis offrì a Jamuqa il perdono dei suoi tradimenti. Voleva ricordare soltanto la loro giovinezza comune, e non riusciva a trattenere l’emozione. «Una volta la nostra amicizia era inscindibile, disse, eravamo inseparabili come le stanghe di uno stesso carro. Ora che siamo di nuovo riuniti, facciamo tornare la memoria a chi è smemorato, risvegliamo chi si è addormentato» . Anche Jamuqa ricordava con nostalgia la giovinezza, quando lui e Gengis «si dicevano parole che non si dimenticano» . «Oggi — aggiungeva — hai davanti il mondo intero. A che potrebbe servirti un compagno come me? La mia amicizia non ti serve. Sarei come una pulce nel colletto del tuo vestito, come una spina nel lembo della tua giubba. A causa mia non dormiresti sonni tranquilli... Adesso, perché il tuo cuore sia in pace, occorre che tu ti sbarazzi di me. Fammi uccidere. Solo così, se mi farai seppellire su qualche altura qui intorno, il mio spirito veglierà da lontano sui nipoti dei tuoi nipoti» . Sia pure con malinconia e rimpianto, Gengis khan obbedì alle parole di Jamuqa. «Che si faccia come lui vuole— disse ai suoi generali—. Mettetelo a morte. Ma non abbandonatelo, seppellitelo solennemente» . Così Gengis realizzò l’archetipo della sua vita. Il lupo azzurro aveva ucciso la cerbiatta fulva; e la cerbiatta sacrificata pregava, proteggeva, dava forza allo sguardo abbagliante del suo uccisore. ***Ormai Gengis-khan si sentiva allo stretto tra le vicine tribù mongole o turco-mongole, che aveva sconfitto e asservito l’una dopo l’altra. Voleva conquistare la Cina: o almeno i due regni del Nord, dominati da popolazioni «barbare» , i Tangut e gli Jurcet, i «re d’oro» dei quali era stato, anni prima, vassallo e alleato. Varcò la Grande Muraglia, dilagando verso sud, uccidendo, distruggendo, bruciando. Conobbe per la prima volta le grandi città: la capitale dei Tangut, irrigata da una rete di canali artificiali: Jinan, con il lago punteggiato da enormi fiori di loto: Taiyuan, amata da Marco Polo; e Pechino, dove entrò nel maggio 1215, incendiando il palazzo imperiale, che arse per oltre un mese. Nella Grande Pianura, scorse i campi bruno-giallastri, dove da millenni i contadini cinesi coltivavano con meticolosa dedizione ogni centimetro di terreno, e i villaggi si susseguivano ininterrottamente. Né lui né i suoi generali comprendevano il senso di quella scrupolosa attività di formiche. Meglio massacrare le popolazioni, che non sapevano allevare e governare una mandria, bruciare i raccolti e i villaggi, restituendo alla terra la dignità della steppa. Nell’Asia centrale e meridionale si estendeva l’impero islamico di Corasmia: era il mondo arabo persiano, che toccava uno splendore che non avrebbe mai più raggiunto. C’erano città meravigliose: Bukhara, Samarcanda, Herat, Ray, Balkh, Merv, Nishapur; canali e canali, giardini e giardini, vasche, fontane, filari d’olmi e di pioppi, bazar opulenti, tappeti, finimenti di cuoio, tessuti laminati d’argento, sete, cotonate, famosi meloni. Come dicevano i poeti, era l’Eden in terra. Questa volta— forse l’unica— Gengis-khan non fu l’aggressore. Aveva mandato al sultano della Corasmia doni ricchissimi, accompagnati da un messaggio amichevole: «Tutto ciò che desidero è che i nostri regni vivano in pace» . Poco dopo, nel 1218, inviò in Corasmia una grande carovana commerciale, con cinquecento cammelli, accompagnata da un centinaio di suoi sudditi, tutti di religione musulmana, tra cui un messo personale. Quando varcò la frontiera, a Otrar, il governatore della città massacrò l’intera carovana, compreso il messo di Gengis khan. Gengis-khan pianse lacrime di dolore, di furore, di umiliazione, di vendetta; e scatenò sull’Asia centrale e meridionale una spaventosa tempesta di crudeltà e di ferocia. Circa duecentomila mongoli a cavallo superarono i confini della Corasmia. Alcuni percorsero milleottocento chilometri, inseguendo il sultano in fuga, che morì di sfinimento: altri catturarono il governatore di Otrar e gli fecero «colare argento fuso negli occhi e nelle orecchie» . A tutti gli abitanti, Gengis rivolse un messaggio: «Comandanti, popoli e signori, sappiate che per volere di Dio il mondo intero, dall’Oriente all’Occidente, si trova nelle mie mani. Chi piegherà il capo sarà risparmiato, ma guai a coloro che opporranno resistenza: verranno sgozzati insieme alle loro mogli, ai loro figli e alla loro clientela» . Le città vennero assalite, saccheggiate, arse, distrutte: una di esse rimase completamente disabitata, e venne chiamata «la città maledetta» . Qualcuno disse che Gengis «aveva ucciso la terra» , cancellando i filari d’alberi e i canali di irrigazione, e lasciando la campagna in balia delle tempeste di sabbia che, come i Mongoli, venivano dall’Oriente. Quanto agli abitanti, Gengis-khan seguì diversi sistemi. Il primo era il più radicale: ucciderli tutti, persino i cani e i gatti, decapitare i cadaveri, spegnere i bambini nel ventre delle madri. Altri sistemi erano più moderati: massacrare i maschi, stuprare le donne, vendere i bambini come schiavi, portare gli artigiani in Mongolia, dove avrebbero lavorato cuoi e argenti. A Bukhara, nel 1220, Gengis entrò a cavallo nella moschea principale. Le casse, che custodivano le copie del Corano, fecero da abbeveratoi ai cavalli, che calpestarono con gli zoccoli il libro sacro. Quando vide lo scempio, l’imam della moschea disse che «Il vento della collera divina soffiava sopra di loro» . Gengis-khan sapeva, con piena coscienza, di essere il flagello divino: era, in modo paradossale, sia Dio sia il Male che egli nasconde in sé stesso, o che suscita negli uomini e negli eventi. ***Negli ultimi tempi della vita, l’antico cacciatore mongolo si avvicinò a quella che noi chiamiamo civiltà, e la comprese o cercò di comprenderla con la buona volontà che metteva nelle cose. Anni prima aveva ereditato uno scrivano uiguro, munito di un sigillo d’oro, che lavorava presso i Naiman; e da quel giorno gli atti ufficiali dell’impero mongolo vennero redatti in turco-uiguro. Se rimase sempre analfabeta, volle che i suoi quattro figli imparassero la scrittura uigura. Quando fu a Bukhara, desiderò conoscere l’Islam. In generale approvò, ma non gli piacque il pellegrinaggio alla Mecca, che gli sembrò qualcosa di parziale e di limitato, «visto che il Cielo è dappertutto» . Più tardi affidò il compito di amministrare le città del Turkestan orientale e occidentale a due funzionari musulmani. Amò un saggio cinese, Yelu Chucai, che apparteneva a un’antica famiglia regale. Era un abile astrologo; e, prima di ogni spedizione militare, Gengis gli chiedeva quali fossero le sorti. Yelu Chucai gli dimostrò che, invece di distruggere le coltivazioni e massacrare i contadini, sarebbe stato molto più vantaggioso ricevere imposte; e disse che «se l’impero era stato conquistato a cavallo, non poteva essere governato a cavallo» . Nel 1219, Gengis fece incidere una stele, dove risuona profondamente il linguaggio taoista. «Il Cielo è stanco dell’arroganza e dell’amore per il lusso che in Cina sono giunti a livelli intollerabili. Io, al contrario, abito nella regione selvaggia del Nord, dove non può attecchire brama di sorta. Mi volgo alla semplicità, ritorno alla purezza, mi conformo alla moderazione. Gli stracci che porto, il cibo che mangio sono gli stessi dei bovari e dei palafrenieri» . Due anni dopo conobbe un religioso filosofo taoista, Changchun, che lo raggiunse a Samarcanda dopo un viaggio lungo migliaia di chilometri. Gli chiese cosa fosse «l’elisir dell’immortalità» , del quale aveva sentito parlare: voleva varcare i limiti del tempo, prolungarsi nel Cielo, essere illimitato come il Dio che pregava nelle montagne. Con sua grandissima delusione, Changchun gli rispose che l’elisir non c’era, e non poteva esserci. Come tutti, anche Gengis doveva accettare i limiti imposti dal Cielo agli esseri umani. Col tempo, nelle regioni dell’Asia si diffuse «la pax mongola» . Gengis-khan creò un impero universale, che raccoglieva centinaia di razze e di religioni. Impose la fedeltà. Preparò un sistema di leggi, portando l’ordine e la concordia dove aveva dominato la furia e la lacerazione. «I Mongoli — scrisse Giovanni dal Pian del Carpine — sono i popoli del mondo più obbedienti verso i loro capi. Li venerano infinitamente, e non dicono mai menzogne. Non ci sono tra loro contestazioni, litigi e assassinii» . I mercanti portavano a Gengis una quantità smisurata di mercanzie, ed egli ne fissava equamente il prezzo. Godevano piena immunità: non correvano rischi. «Chiunque — disse un testimone — avrebbe potuto andare dal Levante all’Occidente con un piatto d’oro in testa, senza subire la minima violenza» . Venne stabilito un sistema di posta. Dalla capitale, partivano i messaggeri a cavallo con la lettera dell’imperatore: avevano la cintura circondata da sonagli, e andavano suonando e scampanellando fino alla prossima stazione di posta, dove altri messaggeri si precipitavano verso di loro, strappando la lettera dalle loro mani; e questa musica di sonagli attraversava lo spazio in tutte le direzioni. La morte si avvicinò. Gengis-khan comprese che, come gli aveva assicurato il filosofo taoista, non esisteva nessuna possibilità di diventare immortale. Ebbe un grave incidente di caccia, dal quale non si rimise; e diede ai figli le ultime raccomandazioni. Morì il 29 agosto 1227. Negli ultimi istanti forse immaginò che i suoi discendenti, vestiti di stoffe ricamate d’oro, si sarebbero dimenticati di lui, e della povera e austera Mongolia. Nella giovinezza era andato a caccia nelle boscaglie del Burqan-Qaldun, il monte sacro; e si stese sotto il fogliame di un grande albero isolato. Vi sostò qualche tempo, come perso in un sogno a occhi aperti, e alzandosi dichiarò che voleva essere sepolto sotto quelle fronde. Lì venne sepolto. Dopo il funerale il luogo diventò tabù, e la foresta crebbe, si dilatò e nascose tutte le figure che Gengis-khan era stato.
Pietro Citati
L'UOMO DEL
MILLENNIO
Aveva "conquistato
il mondo senza scendere mai da cavallo", un uomo la cui
storia
straordinaria affascina ancora, tanto che un'indagine promossa a
livello internazionale dal Washington Post ha designato Gengis Khan come
uomo del millennio. Ecco lo stralcio dell'articolo che motiva
la clamorosa scelta: "Erano molti i candidati a "Uomo del
millennio", da Martin Lutero a Martin Luther King, Prendere
Leonardo Da Vinci, quale apoteosi dello spirito del Rinascimento?
Scegliere Giovanna d'Arco, la fanciulla che unì la Francia ed
innescò l'emergenza del nazionalismo? Thomas Jefferson, autore del
più elettrizzante proclama del millennio? Abbiamo preso in
considerazione Vittoria, guida carismatica del più importante impero
del millennio, Newton, Darwin, Mendel. Petrarca, il poeta italiano
degli inizi del XIV secolo, è considerato il primo umanista. Ma
sembrava un poco esangue, troppo delicato, scegliere uno scienziato o
un pensatore come simbolo di un millennio nel quale il mondo è
cambiato così drasticamente, violentemente e irreversibilmente.
Abbiamo invece cercato l'uomo del millennio tra quelli che hanno reso
il mondo più piccolo, che hanno mosso genti e tecnologie attraverso
il mondo, che hanno fatto progredire il dominio dell'uomo sul pianeta.
Cristoforo Colombo sarebbe stata una scelta giustificabile anche se
piuttosto noiosa. Perché Colombo aveva pensato di trovare la Cina al
di là dell'Oceano? Perché, oltre ad aver compiuto un grossolano
errore nel
computo delle misure della Terra, egli aveva letto dei
viaggi di Marco Polo di due secoli prima. Se Polo non avesse fatto il
suo viaggio, le tecnologie cinesi come il compasso, la polvere da
sparo o la stampa non sarebbero filtrate in Europa (...).
Ciò che rimescolò
ogni cosa fu il sorgere di un impero totalmente nuovo. la sua
apparizione fu breve - qualcuno potrebbe dire - ma cambiò ogni cosa.
Fu l'impero dei Mongoli, l'impero di Gengis khan. Gengis Khan fu
l'uomo di azione. Gengis Khan ebbe contatti con innumerevoli esseri
umani e molti ne uccise. La sua efficienza nel massacrare non ha avuto
pari a quei tempi e prefigurò gli orrori del XX secolo. Riguardo al
suo genio militare non esistono dubbi. Egli unificò le tribù
mongole, creò un'armata usando un sistema decimale con unità di 10,
100, 1000 e 10.000 uomini. Quando le città persiane si arresero,
lasciò piramidi di teschi (...). I Mongoli pionierizzarono le
comunicazioni globali sette secoli prima dell'invenzione di Internet.
Come apostolo degli estremi degli ultimi mille anni, non esiste
miglior candidato di Gengis khan, che incarnò la mezzo civilizzata e
mezzo selvaggia dualità della razza umana".
I
mille volti di Gengis Khan
di Giuseppe Brillante (Newton)
Trasformò
un popolo di nomadi e cacciatori in un esercito di guerrieri. Spietato con
i nemici, sapeva premiare la lealtà. Rimase analfabeta per tutta la vita
ma si circondò di uomini saggi e costruì la prima capitale multietnica
È
uno dei grandi misteri della storia. Un giallo del passato di cui
non si riesce a venire a capo. Da decenni gli archeologi cercano la
tomba di Gengis Khan, il leggendario re mongolo che nel 1200 mise a
ferro e fuoco l' Asia, creando il più vasto impero mai conosciuto,
esteso dal Mar Nero alle sponde dell' Oceano Pacifico. Ma fino a
oggi nessuno è riuscito a trovarla. Il suo segreto è custodito con
il sangue. Le cronache dell' epoca raccontano che quando nel 1227,
durante una campagna militare, Gengis Khan morì a causa di una
caduta da cavallo, il suo corpo fu messo su un carro per essere
trasportato in patria. Prima, però, i suoi fedelissimi diedero
ordine di eliminare i testimoni. Mille cavalieri parati a lutto
scortarono il corteo funebre per uccidere ogni essere vivente, uomo
o animale, incontrato lungo la strada. E una brutta fine fecero
anche i soldati che scavarono la tomba. Furono tutti assassinati
perché tacessero per sempre. Da allora nessuno seppe più nulla e
le spoglie del condottiero vennero inghiottite dalle pieghe del
tempo. "Sono passati quasi otto secoli, ma forse siamo a una
svolta", dice ora a Newton John Woods, professore di storia e
direttore del Center for Middle Eastern Studies dell' Università di
Chicago che si sente a un passo dalla risoluzione dell' enigma. Lui
e i suoi collaboratori sono convinti di aver trovato la tomba di
Gengis Khan in una località vicina alla città di Batshireet, a
poco più di trecento chilometri da Ulan Bator, la capitale della
Mongolia. "Il luogo si chiama Oglogchiin Kherem ed è un sito
straordinario", assicura lo studioso. "La sua vicinanza al
posto in cui Gengis Khan nacque e a quello in cui nel 1206 fu
nominato Khan, cioè capo dei clan mongoli, ci fanno credere che
abbia a che fare con lui o con la sua famiglia". Il segreto del
muro di pietra Il team guidato da Woods ha già individuato un muro
di pietra, lungo tre chilometri! , che ne i pressi della cima di una
collina racchiude venti tombe mai aperte, mentre altre quaranta
dovrebbero trovarsi più in basso. Ma le cose non sono filate per il
verso giusto. La spedizione ha dovuto interrompere le indagini a
causa del malumore della popolazione, che non vede con favore gli
scavi archeologici. Infatti per i mongoli disturbare le ossa degli
antenati è un tabù, anche perché è credenza diffusa che le anime
dei morti potrebbero essere distrutte se i loro corpi venissero
disseppelliti. Ad alzare la voce è stato l' ex premier della
Mongolia Dashiin Byambasuren, che ha accusato gli archeologi
americani di profanare le tombe degli avi. Ora quindi tutto si è
fermato in attesa di tempi migliori. "I lavori dovrebbero
riprendere in estate", continua Woods. "Non sapremo cosa
si trova lì sotto fino a quando non avremo il permesso di
scavare". Quello di Woods è solo l' ultimo tentativo di
scovare la tomba del leggendario capo dei mongoli. Ci hanno provato
in molti. Tra il 1991 e il 1993 un team di giapponesi ha percorso
centinaia di chilometri scandagliando il terreno con l' aiuto di
sonde elettromagnetiche e dati satellitari, alla ricerca di grandi
strutture sotterranee. Sono state individuate circa 1400 sepolture
di periodi differenti, ma nessuna che potesse essere ricondotta a
Gengis Khan. Nel settembre del 2000, invece, gli archeologi cinesi
hanno annunciato di essere certi che la tomba si trovi nello
Xinjiang, una regione nel Nordovest della Cina, vicino al confine
con la Mongolia e alle montagne dell' Altaj. Ma finora nessun
risultato concreto è stato ottenuto. Il team giapponese ha già
perlustrato buona parte della zona oggi interessata dalle ricerche
di Woods, ma è passato oltre sicuro che là sotto non ci fosse
niente. "Loro cercavano grandi strutture sotterranee e quando
si sono accorti che non ce n' er! ano si s ono mossi altrove",
spiega Woods e poi aggiunge: "Comunque andranno le cose, sono
sicuro che recupereremo reperti importanti. Se non sarà la tomba di
Gengis Khan avremo portato alla luce testimonianze utili a
comprendere la storia della Mongolia. E questa è già una
ricompensa al nostro lavoro". Ma se fosse davvero la sua i
ricercatori cosa si aspettano di trovarvi ? "Oggetti di valore,
utensili, armi, il suo corpo e forse quello di persone sacrificate
per seguirlo e servirlo nell' aldilà", azzarda Woods. "Ma
non possiamo dirlo con sicurezza. Fino a oggi infatti nessuna tomba
mongola di capi di epoca imperiale è mai stata trovata". Un
regno costato 10 milioni di morti A distanza di secoli Gengis Khan
ha ancora una forza di attrazione che sbalordisce. Quando qualche
anno fa il Washington Post chiese agli storici americani quale fosse
l' uomo del millennio, il risultato fu sorprendente. Due terzi degli
studiosi interpellati indicò proprio il capo mongolo. Eppure tra
gli occidentali la sua figura non gode certo di buona fama, visto
che è passato alla storia come massacratore e distruttore di civiltà
fiorenti. Si è calcolato che le sue conquiste costarono al mondo più
di 10 milioni di morti. "È un personaggio affascinante",
assicura Franco Adravanti, che gli ha dedicato un intero libro (Gengiz
Khan, primo imperatore del Mirabile Dominium, Bompiani). "Egli
riuscì a trasformare cacciatori e allevatori nomadi in un' orda di
guerrieri invincibili, capaci di creare il più vasto impero della
storia". Tutto cominciò nel 1167, anno in cui nacque il futuro
imperatore. A quel tempo cinque tribù si dividevano i pascoli nei
territori tra il lago Bajkal e il deserto del Gobi: i Merkiti a
Nord, i Tatari a Est, i Keraiti a Sud, i Naimani a Ovest e i Mongoli
al centro, che però erano frammentati in una miriade di clan sempre
in guerra. Temucin, questo era il nome di Gengis Khan, apparteneva a
uno di questi clan. Suo p adre era il capo dei Borjigin, ma morì
assassinato dai Tatari quando il figlio aveva solo nove anni. Un
avvenimento che lasciò la sua famiglia in balia del destino. La
gente del clan abbandonò la vedova che rimase con i figli e pochi
altri fedelissimi, cercando di sopravvivere alla dura legge della
steppa, fatta di razzie e violenze. Per i nomadi, che risiedevano
nelle yurte (le tende fatte di pelli) e si spostavano alla ricerca
dei pascoli migliori, vivendo di caccia e allevamento, assalire
accampamenti rivali, fare schiavi donne e bambini e impossessarsi
del bestiame era la norma. Durante una di queste incursioni Temucin
fu persino imprigionato, ma riuscì a fuggire e a riconquistare la
libertà. Con il tempo diventò un uomo abile e coraggioso. La sua
fama di guerriero cominciò a precederlo: di lui si diceva che fosse
spietato con i nemici, ma generoso con chi gli era leale e che
dividesse il bottino tra la sua gente in modo equo, senza
preferenze. Grazie a un astuto gioco di alleanze sconfisse una alla
volta le tribù nemiche. Gli arcieri più abili del mondo Per
questo, nel 1206, la quriltaj, l' assemblea dei clan, lo elesse capo
supremo di tutti i mongoli con il nome di Gengis Khan, il sovrano
oceanico. Tatari, Merkiti, Keraiti e Naimani erano ormai uniti sotto
il suo comando. Da quel momento, in poco più di 15 anni, il suo
regno si estese dal Mar Nero alla Cina settentrionale, passando per
la Persia, l' Afghanistan, il Kazakistan e la Mongolia intera. Quale
fu il segreto dell' uomo che mise in ginocchio i potenti imperi
dell' Asia e fece tremare dallo spavento persino l' Europa ?
Probabilmente nell' incredibile ascesa di Gengis Khan giocarono un
ruolo importante diversi fattori. "Uno di questi fu di tipo
climatico", spiega Giorgio Vercellin, docente di Storia e
Istituzioni del Vicino e Medio Oriente all' Università Ca' Foscari
di Venezia. "L' inizio del XIII secolo fu per le terre mongole
un' epoc! a favore vole. A causa di una prolungata fase di relativa
umidità nei pascoli c' era nutrimento a sufficienza per allevare
greggi immense ed enormi branchi di cavalli che permisero di
costituire una forte cavalleria". "Un contributo, poi, lo
diedero anche le divisioni tra gli avversari", prosegue
Vercellin. "Lotte intestine per il potere, contrasti sociali e
religiosi indebolirono la Cina e anche il regno musulmano di
Corasmia, che egli conquisterà nella sua avanzata". Ma l' arma
segreta di Gengis Khan fu il suo esercito. Organizzò i soldati su
base decimale. L' unità minima era l' arban, composta da dieci
uomini. Chiunque scappasse abbandonando anche uno solo dei suoi
compagni veniva ucciso per punizione. Poi c' erano le centurie, che
riunivano dieci arban, e le kurene, schiere di mille persone che
costituivano i battaglioni da assalto. "Nell' esercito di
Gengis Khan chiunque poteva fare carriera. Le posizioni di comando
venivano assegnate ai più valorosi, anche se non erano di nobili
origini", aggiunge Franco Adravanti. "Inoltre egli riuscì
a sfruttare le caratteristiche tipiche del guerriero mongolo. Era
gente abituata a cavalcare per giorni, capace di resistere agli
stenti. Sopportavano bene il freddo e la fame. Erano abili
cacciatori e quindi sempre in esercizio con l' uso delle armi",
continua lo studioso. "Il loro arco era il più potente dell'
epoca e consentiva di trafiggere un uomo dalla distanza di trecento
piedi (poco più di 90 metri). Senza dimenticare che tiravano con
facilità anche stando a cavallo". Uno stratega sanguinario
Gengis Khan era uno stratega straordinario. La sua tattica più
efficace era la fuga simulata: mentre la cavalleria fingeva una
ritirata per farsi inseguire, le ali dell' esercito accerchiavano il
nemico e lo annientavano senza pietà. Sono decine gli episodi di
crudeltà riportati dalle cronache del tempo. Fossati difensivi
intorno alle città ricolmi di corpi umani, che servivano da ponte
per i suoi soldati; enormi piramidi di teschi lasciati a perenne ri!
cordo de l suo passaggio; atrocità e violenze contro i prigionieri.
Si racconta, per esempio, che durante l' assedio della città di
Bamian, nel regno di Corasmia, per vendicare l' uccisione di suo
nipote, Gengis Khan ordinò che nessun essere vivente fosse
risparmiato: così uomini e animali furono trucidati. La regola era
sempre la stessa: chi opponeva resistenza veniva sterminato, gli
altri diventavano schiavi o erano costretti a prestare servizio
nell' esercito, mentre le città venivano saccheggiate o addirittura
rase al suolo. All' epoca il solo sospetto che l' esercito mongolo
si stesse dirigendo verso una località era sufficiente a seminare
il panico per chilometri. Inventò il pony express Eppure tutto ciò
non basta a spiegare il suo successo. "Era un uomo di grande
carisma ed era straordinariamente intelligente", racconta
Adravanti. "Non sapeva leggere né scrivere, ma aveva capito l'
importanza della cultura e si circondò di uomini saggi che lo
aiutarono a governare. Non esitò a utilizzare le competenze
tecnologiche dei popoli conquistati, prendendo al suo servizio
architetti, inventori e artisti. Volle che i suoi figli imparassero
la scrittura mutuata dai Naimani, che aveva sottomesso. La utilizzò
per le leggi e per far giungere il suo volere anche nelle contrade
più remote del suo impero, grazie a un servizio di posta a cavallo
capace di coprire quasi quattromila chilometri alla settimana".
"Come conseguenza delle sue conquiste", continua Adravanti,
"i vasti territori dell' Asia ebbero un periodo di stabilità,
che permise un flusso di genti, merci e idee senza precedenti. Si
diceva che all' epoca una donna potesse attraversare l' intera
Mongolia, da sola e con un vassoio d' oro in testa, senza che le
torcessero un capello". Il "Sovrano oceanico" per
tutta l' esistenza continuò a vivere come la sua gente aveva fatto
per secoli. Nella yurta, con greggi e bestiame al seguito.
"Indosso gli stessi ! vestiti e mangio lo stesso cibo dei
pastori e dei guardiani di cavalli", disse una volta al monaco
taoista Chang Chun, che gli era diventato amico. Pensava che la
sedentarietà portasse al lusso sfrenato, che corrompeva gli animi e
rendeva deboli le persone. Ma fece ugualmente uno strappo alla
regola: nel 1220 fondò Karakorum, la capitale dell' impero. In
questa zona da qualche anno un gruppo di archeologi tedeschi lavora
per riportare alla luce ciò che resta degli antichi edifici,
sommersi sotto un metro e mezzo di terra. "Si sa che la città
occupava un' area di dieci ettari e fu abitata quasi costantemente
da circa 10mila persone", racconta il direttore degli scavi
Helmut Roth dell' Università di Bonn. Finisce il nomadismo, crolla
l' impero Alla corte del sovrano arrivavano mercanti e ambasciatori,
che il Khan riceveva nel Palazzo delle Diecimila Paci, un enorme
edificio dalla forma quasi quadrata diviso in sette navate da file
di 64 colonne. L' esistenza di Karakorum fu però effimera. Nel
1260, trentatré anni dopo la morte di Gengis Khan, suo nipote
Kubilai trasferì la residenza reale a Pechino. Nel 1380 la dinastia
cinese dei Ming, cacciati i mongoli, la rase al suolo. A quel punto
il vasto impero si era ormai frammentato in una miriade di
principati, autonomi e in guerra tra loro. Cos' era successo ?
"Già prima della morte di Gengis Khan il regno era stato
diviso tra i quattro figli che aveva avuto dalla prima moglie. Dopo
la sua scomparsa, per alcuni decenni le conquiste continuarono e i
mongoli arrivarono a specchiarsi nel Danubio", sostiene
Adravanti. "Era però già iniziata la parabola discendente. I
suoi successori avevano rinunciato allo stile di vita nomade ed
erano diventati sedentari, perdendo la loro cultura e la loro
identità". L' epoca del sovrano oceanico era finita per
sempre. "Quanto alla tomba, spero che non la trovino mai",
conclude Adravanti. "Per l' archeologia sarebbe la scoperta del
secolo, ma per me, in un mondo che vuole conoscere tutto, il segreto
di Gengis Khan! vale mo lto di più". Karakorum, la capitale
sepolta Una città ricca, multietnica e tollerante, come rivelano
gli scavi che la stanno riportando alla luce Dal 2000 una spedizione
tedesca sta lavorando per riportare alla luce le rovine di Karakorum,
la capitale dell' impero mongolo fondata ai margini Nordoccidentali
del Gobi da Gengis Khan e cinta di mura durante il regno di suo
figlio Ogodai. Alla sua costruzione lavorarono architetti e operai
provenienti dalla Cina, perché i mongoli non avevano alcuna
esperienza in fatto di architettura (vivevano nelle yurte, le tende
di pelli, e Karakorum fu la loro prima città). Grazie a rilevamenti
geomagnetici e a fotografie aeree, i ricercatori dell' Università
di Bonn e dell' Istituto archeologico tedesco, con la partecipazione
di quelli dell' Accademia mongola, hanno individuato il sito in cui
sorgeva, oggi sepolto da un metro e mezzo di terra. Vi si trovavano
quartieri abitati da differenti etnie, edifici religiosi (dovevano
esserci almeno dodici templi buddhisti, due moschee e una chiesa
cristiana a testimonianza della grande tolleranza religiosa dei
mongoli) e le residenze reali. Finora sono stati recuperati circa
3000 reperti, tra questi monete cinesi, un braccialetto d' oro del
XIV secolo e oggetti in ceramica, soprattutto della dinastia Yuan.
L'ULTIMO
EREDE DI GENGIS KHAN E' IL RE DEI RAGIONIERI DI MIAMI
di
Silvia Kramar
(Il Giornale)
Tom
Robinson insegna contabilità. Ha scoperto, grazie a un esame del
Dna, di essere il parente più stretto del signore mongolo della
guerra.
L'
ultimo erede di Genghis Khan è il re dei ragionieri di Miami Tom
Robinson insegna contabilità. Ha scoperto, grazie a un esame del
Dna, di essere il parente più stretto del signore mongolo della
guerra Silvia Kramar da New York Tom Robinson si era sempre
domandato chi fossero i suoi antenati. Se li immaginava a vivere
nelle piovose campagne di Windmere, nel nord ovest della Gran
Bretagna, da dove un suo trisnonno era partito per cercare fortuna
negli Stati Uniti. A 48 anni Robinson, un tranquillo professore di
contabilità all' Università di Miami, ha invece scoperto di
possedere lo stesso cromosomo di Genghis Khan. Di essere cioè l'
ultimo discendente del signore della guerra mongolo il quale, a
cavallo tra il 1162 e il 1227, anno della sua morte, aveva
conquistato il più vasto impero della storia. Ma a guardarlo, Tom
Robinson non ha nulla del feroce guerriero che aveva fatto della
guerra un' arte e della crudeltà la sua arma migliore. Se Genghis
Khan amava trucidare e torturare i suoi nemici, ed era famoso per
divertirsi a vederli morire tra sofferenze inimmaginabili, ordinando
ai suoi sol dati di versare argento bollente nelle orecchie dei
malcapitati e facendoli squartare lentamente, Robinson invece è un
tranquillo professore di mezza età sposato con un' altrettanto
pacifica casalinga di nome Linda. Anche se si dichiara repubblicano
convinto, non ha certo una tendenza guerrafondaia come quella che
aveva portato il suo leggendario antenato ad unire le tribù delle
steppe e a unificare il suo impero: da allora quell' uomo che si
chiamava Temüjin aveva assunto il titolo di « comandante
universale » cioè di Genghis Khan. « Qualche volta vado a cavallo
» , ha sorriso Robinson, « Ma le occasioni qui in Florida sono
rare. Ho comandato un' arma ta di contabili, quella s«, ma non mi
sarei mai immaginato di avere nel sangue il Dna dell' uomo più
potente dell' Asia antica » . Robinson non ha figli ai quali
lasciare questa straordinaria eredità, eppure qu! attro an ni fa la
sua curiosità l' aveva spinto a credere nella bio archeologia e ad
inviare un campione del suo Dna ad un labora torio inglese: l'
Oxford Ancestors. Lo stesso che aveva fatto storia, nel 1994, quando
era riuscito a collegare una tranquilla signora inglese al Dna dell'
uomo delle nevi ritrovato nei ghiacci delle Alpi tirolesi. Il
professor Bryan Sykes, fondatore del laboratorio inglese, nel 2003
aveva portato a termine uno studio col quale aveva dimostrato che
almeno sedici milioni di uomini, quasi tutti in Asia centrale,
probabilmente possedevano lo stesso cromosomo Y appartenuto a
Genghis Khan. Dopo aver ricevuto il Dna di Tom Robinson, Sykes l'
aveva paragonato insieme ai campioni di altri 25.000 clienti con
quello posseduto dal grande conquistatore, giocando sul calcolo
della probabilità: la tomba del signore della guerra mongolo non è
mai stata ritrovata, ma si sa che ovunque andasse Khan era solito
far trucidare i mariti e violentarne le moglie, mettendo al mondo
migliaia di figli. « Quando ricevetti la telefonata » ha spiegato
Robinson « Mi dissi Oh no, chi sarà mai questo antenato
violentissi mo? Adolf Hitler?. Cos« quando seppi che si trattava di
Genghis Khan tirai un sospiro di sollievo » . Andando a ricercare
la storia della Mongolia, il professore ha scoperto che oggi, in
quel paese di 2 milioni e mezzo di abitanti quasi nascosto tra la
Russia e la Cina e famoso per i suoi cavalli e le sue popolazioni
nomadi, Genghis Khan è considerato il padre della patria: un vero e
proprio eroe. Quest' anno, nel celebrare l' ottocentesimo
anniversario della nascita del Paese, I mongoli festeggeranno a
lungo la leggenda del loro comandante. « L' anno prossimo andrò a
visitare la Mongolia » ha promesso Robinson che tra qualche giorno
sarà festeggiato a Washington dall' ambasciatore della Mongolia
negli Stati Uniti, Ravdan Bold. « Certo, Genghis Khan era un
barbaro, un violento, ma il suo sistema di governo era assai
sofisticato. E poi ha emanato leggi che hanno cambiato la storia »
. Quali? Divieto di rubare cavalli o rapire le donne.
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