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28 agosto 2022 PRIMO PIANO

La Mongolia e il rapporto con la Russia in guerra

I mongoli hanno smesso di fare la guerra e sono diventato pastori gentili, con le loro gher di feltro sempre spalancate al primo cavaliere di passaggio o allo straniero in cerca di fugaci emozioni dell'anima. Quelli che otto secoli fa erano i feroci padroni dell'impero più vasto del mondo guidati da Gengis Khan e dalle sue orde oggi si sentono privilegiati abitanti di un territorio di pace e serenità: un occhio del ciclone, intorno al quale tutto può succedere senza scalfire nulla. Almeno per ora.
L'abbraccio geopolitico di due dei Paesi più potenti del pianeta, Cina e Russia, per ora ha permesso alla Mongolia di preservare in un equilibrio stupefacente il suo coccio spirituale, legato ai riti sciamanici, al buddhismo, alla natura più incontaminata, alle tradizioni millenarie che ancora non cedono alle tentazioni di una capitale, Ulaanbaatar, che guarda a Occidente ma sempre con un po' di sospetto: chi parte, per studio, per lavoro, per cantare arie liriche nei teatri europei, poi in Mongolia ci torna. Nonostante tutto: la povertà, sempre dignitosa (anche il fenomeno dei bambini di strada nella capitale è ormai sparito), il clima impossibile per molti mesi dell'anno, la corruzione politica che porta gli elettori a variazioni continue delle istituzioni e del Parlamento senza che cambi mai nulla. Ma la democrazia c'è, la pace anche, l'orgoglio più di tutto. La guerra in Ucraina ha creato qualche imbarazzo nelle autorità di Ub, come viene affettuosamente chiamata la capitale che raccoglie un milione e mezzo di abitanti, metà dell'intera popolazione del Paese, grande sei volte l'Italia. Quando si è trattato di votare pro o contro Putin, la Mongolia si è prudentemente astenuta perché il legame con la Russia è molto forte e sentito ancora oggi, nonostante le atrocità compiute sotto Stalin, con tutti i monasteri rasi al suolo e i monaci giustiziati. Ma è stato grazie alla Russia imperiale prima e all'Unione Sovietica poi se la Mongolia si è liberata dal terribile giogo dei Manciù, protratto dal Seicento fino al primo Novecento. Dal 1993 la Mongolia ha indetto le prime elezioni autonome alternando al potere il Partito Rivoluzionare e quello Democratico in un'altalena che da un lato consente il costante controllo popolare sul potere dall'altro disorienta sulla diversa gestione dello sfruttamento degli immani giacimenti di rame e oro nel deserto del Gobi, vera cartina di tornasole dell'economia mongola altrimenti affidata alla pastorizia e al cashmere. Alcuni governi hanno affidato a multinazionali l'estrazione delle materie prime, altri hanno bloccato i lavori per lo sfruttamento eccessivo delle terre e il prosciugamento dei già scarsi corsi d'acqua.
La Mongolia resta costantemente in bilico fra gli estremi: caldo e freddo (da -60 a +50); guerra e pace (il più spaventoso scenario bellico nel passato e l'oasi di pace che è oggi); povertà e ricchezza, con definizione a turno di “l'emirato delle steppe” o Paese da carestia con un Pil che vale il 117° posto nel pianeta, popolato da rustici allevatori ma con un'alfabetizzazione al 98,5% e con una partecipazione alle tornate di voto da far impallidire gli elettori europei: le urne vengono piazzate in mezzo al nulla della steppa o del deserto e spesso occorrono giorni e notti a cavallo perché intere famiglie nomadi inseriscano la preferenza nell'urna. Niente scheda elettorale, basta un timbro sulla mano indelebile per due giorni. Più una preghiera allo sciamano per far vincere la propria lista.
Certo, i giovani della capitale sono sempre più attratti dalle lusinghe occidentali e hanno ormai invaso le corsie dei social. Poi però li vedi salire a frotte, in religioso silenzio, verso la collina dove campeggia Gandan, il più grande monastero della capitale meta spesso del Dalai Lama per l'ira dei Cinesi che sono arrivati perfino a minacciare una guerra armata alla Mongolia. Ma la Russia è sempre in sentinella.

Federico Pistone (Corriere della Sera)