Mongolia terra di nomadi
Un paese di spazi immensi con una natura selvaggia …
Un popolo nomade generoso e ospitale …
Un viaggio indimenticabile in un mondo antico …
La Mongolia è un paese che colpisce per i suoi spazi immensi, per la sensazione di vuoto così lontana dalla nostra realtà quotidiana. I pastori nomadi vivono nelle gher, le tradizionali tende bianche di feltro, e l’incontro con la loro civiltà costituisce l’aspetto più interessante del viaggio; l’ospitalità è sincera, ogni occasione è buona per offrire qualcosa all’ospite di passaggio. In un mondo sempre più globalizzato, dove tutti si stanno appiattendo sul modello occidentale, la Mongolia rappresenta ancora un ritorno alle tradizioni antiche, con i nomadi che vivono quasi come ai tempi di Gengis Khan. Appena si lascia Ulaan Baatar, la moderna capitale, la natura regna incontaminata: verdi praterie si estendono sterminate, punteggiate qua e là solo dai bianchi puntini delle gher. Salendo verso nord si raggiunge il lago Khuvsgul, circondato da montagne coperte da foreste di larici siberiani e prati ammantati di fiori selvatici; le stelle alpine da noi così rare sono brucate tranquillamente dalle capre. Il sud è il regno dell’immenso deserto del Gobi, il più settentrionale del mondo. La lunga striscia delle dune di Khongoryn Els, rallegrata dalla presenza dei “veri” cammelli, quelli con due gobbe, costituisce una delle immagini più belle del paese.
La Mongolia è uscita da poco più di un decennio dal lungo tunnel del regime comunista filo sovietico. Gli anni delle purghe staliniste sono stati tremendi: gran parte dei monasteri buddisti è stata distrutta e i monaci trucidati o deportati in Siberia. Il periodo post-comunista è stato altrettanto difficile: sono venute meno le garanzie sociali offerte dallo stato con la “classica” conseguenza dell’aumento della disoccupazione. Il paese per tirare avanti deve contare sugli aiuti internazionali. La vita è dura sia per chi vive in città che per i pastori delle campagne. A Ulaan Baatar migliaia di bambini orfani vivono per strada rifugiandosi nel sottosuolo durante i gelidi mesi invernali, i salari sono bassi, anche se la situazione sta lentamente migliorando. Nelle campagne le temperature toccano punte di cinquanta gradi sottozero e i nomadi rischiano di perdere il bestiame, unico mezzo di sopravvivenza in una terra selvaggia dove è impossibile qualsiasi coltivazione.
Con il crollo del regime comunista, i mongoli si stanno riappropriando delle proprie tradizioni religiose, legate a un buddismo lamaista contaminato da elementi di sciamanismo. I monasteri sopravissuti sono stati riaperti al culto mentre altri sono in fase di restauro o ricostruzione. Alcuni sono veramente affascinanti: basti pensare ad Amarbayasgalant sperduto in una verde vallata. Naturalmente sono ricomparsi anche i monaci, ancora poco numerosi rispetto al passato, quando la Mongolia era uno stato teocratico. Assistere alle preghiere è un’esperienza intensa ed autentica.
Il turismo è limitato, ostacolato dal pessimo stato della rete viaria. Solo un paio di strade è asfaltato e le piste devono essere percorse con mezzi a quattro ruote motrici. L’assenza di qualsiasi indicazione e i ridotti trasporti pubblici rendono indispensabile affittare un mezzo con autista. I campi di gher per turisti sono invece piacevoli e le possibilità di campeggio libero davvero infinite: piantando la propria tenda vicino alle gher dei pastori si è certi di essere invitati a casa loro e vivere uno spaccato di vita nomade. Naturalmente non bisogna abusare dell’ospitalità e contraccambiare sempre con qualche regalo. Il turismo, anche se limitato alla breve estate, può rappresentare una grossa risorsa ma c’è da augurarsi che il paese rimanga immune agli effetti devastanti del turismo di massa.
Io e Stefania abbiamo visitato la Mongolia (era il nostro viaggio di nozze!), affidandoci a un’agenzia segnalataci dall’ottimo sito www.mongolia.it
Ed ora il diario di viaggio. In Mongolia abbiamo seguito il seguente itinerario di massima: Ulaan Baatar – lago Khuvsgul – lago Terkhiin Tsagaan – Kharakorum – deserto del Gobi – Ulaan Baatar
25-26 giugno: Roma – Francoforte – Pechino – Ulaan Batar
Arrivo ad Ulaan Baatar
Raggiungiamo Ulaan Baatar con un volo da Pechino della Miat, la compagnia di bandiera mongola. All’aeroporto ci accolgono l’autista e la guida. E’ tardi e c’è solo il tempo per raggiungere l’appartamento dove trascorreremo la prima notte. Si trova in un edificio fatiscente, protetto da una porta blindata che ci raccomandano di tenere ben serrata!!
27 giugno: Ulaan Batar – verso il monastero di Amarbayasgalant
Ulaan Baatar
Iniziamo il giro turistico con il monastero di Gandan, formato da una serie di edifici scampati alle distruzioni comuniste. In un tempio i monaci siedono su due file, una di fronte all’altra. Pregano suonando grossi tamburi e piatti di metallo; voluminosi libri dalla forma allungata sono avvolti in panni. Intorno ai vari templi si trovano le ruote della preghiera, caratteristiche del buddismo tibetano; i fedeli pregano facendole girare una dopo l’altra. Un imponente edificio dall’aspetto moderno ospita una gigantesca statua di Budda in piedi, ricostruita di recente dopo che l’originale fu distrutto dai comunisti. Nelle pareti tutte intorno, dentro vetrine, campeggiano una miriade di statue di divinità.
Il Palazzo d’Inverno era la residenza del lama-re d’inizio novecento. Attraversiamo una serie di splendidi padiglioni di legno. Gli interni sono decorati piacevolmente e il colore dominante è il rosso. Il complesso si è salvato perché trasformato in museo ed ospita un’interessante collezione. Raffinati arazzi recano rappresentazioni di divinità dalle molteplici braccia e teste. Nel tempio finale 21 statuette di bronzo sono opera di Zanabazar, il famoso lama vissuto nel seicento. Raffigurano Taras, divinità femminile dalle tette tornite, seduta all’orientale con una gamba piegata. Il giro termina con l’edificio a due piani, residenza del lama-re. Gli oggetti conservati sorprendono e fanno pensare ad un raffinato principe, non ad uno spartano monaco buddista. Una pelliccia è realizzata con le pelli di decine di volpi; i letti del re e della regina sono elaborate strutture di legno a baldacchino. Non mancano le curiosità come la foto di un elefante regalato al re, dopo una marcia di tre mesi dalla Russia. Splendide vesti testimoniano la raffinatezza dell’epoca.
Prima di lasciare la città scaliamo la collina Zaisan, dominata dal monumento ai caduti eretto dai russi. Retorici mosaici raffigurano il pantheon del mondo sovietico: soldati in uniforme schiacciano i simboli del nazismo mentre astronauti, operai e contadini fraternizzano. Sul retro un mucchio di pietre è il nostro primo incontro con gli ovoo, i tradizionali tumuli di pietre retaggio dei culti sciamanici. Dal monumento la vista spazia, oltre il fiume, sulla città circondata da colline; gli edifici moderni di stile sovietico e le fabbriche con le loro ciminiere non ingentiliscono certo il panorama.
In viaggio verso il monastero di Amarbayasgalant
Alle tre e mezzo lasciamo Ulaan Baatar, attraversando un paesaggio di verdi colline punteggiate qua e là dal bianco delle gher, le tradizionali tende di feltro dei nomadi mongoli. Ci fermiamo per qualche foto e subito un pastore a cavallo viene a salutarci mentre un gruppo di mucche pascola tranquillo. Proseguiamo verso nord e dopo tre ore, alle porte di Darkhan, lasciamo la strada diretta verso la Russia e pieghiamo in direzione di Erdenet. Il paesaggio è molto più monotono: una piatta distesa si estende brulla e anche le gher sono scomparse. La Mongolia è “il paese del cielo blu” ma oggi il tempo è nuvoloso e persino uno spruzzo di pioggia sembra porgerci il suo saluto poco rassicurante. Carichiamo due poliziotti: sarà un passaggio oppure una scorta? Scendono poco dopo a Khotol, una striscia di condomini davanti ad una fabbrica bianca. Superiamo un fiume e il paesaggio torna verde, una vallata chiusa da basse montagne. Unici segni dell’uomo, la linea elettrica e la striscia d’asfalto luccicante per il sole frontale. I tralicci sembrano i soli “alberi” di questa regione. La luce della sera esalta i colori della valle: brillanti strisce gialle e verdi sono chiuse dal verde cupo delle colline. Un tratto più brullo ed anche il marrone arricchisce la tavolozza dei colori. Alle otto e mezzo abbandoniamo l’asfalto prendendo una sterrata che si dipana tra colline verdissime. In cima ad una salita un ovoo c’invita ad una sosta; impariamo dal nostro autista a compiere tre giri intorno e a lanciare sassi sul mucchio, come vuole la tradizione. Dopo un’ora raggiungiamo il campo turistico; le gher sono disposte entro un recinto e l’effetto è molto suggestivo. Le tende sono bianche con le parti di legno dipinte d’arancione e il comignolo della stufa che sbuca nel mezzo. La linea elettrica è tagliata e così manca la luce a rendere l’atmosfera più autentica. Il sole scompare dietro le colline e subito la temperatura scende bruscamente; non mi resta che coprirmi un po’ e sfruttare la luce solare residua per preparare le cose per la notte.
Nella gher ristorante siamo in pochi, poiché la maggioranza degli ospiti coreani consuma il pasto con le proprie provviste. Ceniamo insieme all’autista e alla guida con un piatto di carne con il sugo, tagliata a striscioline. Durante il giorno abbiamo avuto modo di conoscere Erden, la nostra guida. E’ uno studente di 22 anni e parla un ottimo inglese: è stato, infatti, un anno a Pittsburgh negli Stati Uniti (ma anche in Cina ed Ungheria). Ci racconta tra l’altro qual è la situazione del paese dopo la caduta del comunismo; molte cose sono migliorate ma poi ci parla solo di ciò che è peggiorato (disoccupazione, privatizzazioni, ecc.). Erden sembra un ragazzo preparato e curioso: ci chiede notizie sull’Italia e i paesi del mondo che abbiamo visitato.
Il primo giorno in Mongolia volge al termine e la mente corre alle immense distese verdi che abbiamo attraversato: la sensazione degli spazi vuoti è quella che più mi ha colpito in questa giornata.
28 giugno: Monastero di Amarbayasgalant - Erdenet
Monastero di Amarbayasgalant
La sala del tempio principale è affascinante: l’ambiente è diviso da pilastri dipinti di rosso ricoperti da stendardi colorati mentre il soffitto a cassettoni è decorato con figure dorate di draghi. Nella “navata centrale” due file di panche, una di fronte all’altra, sono destinate ai monaci, anzi ai lama, ma è tardi e l’ora della preghiera è passata. Il seggio del lama più anziano reca ancora le offerte mentre sulle panche vuote giacciono, piegate, tuniche gialle e rosse, insieme a buffi copricapo a cresta. Nella parete in fondo una selva di statue forma uno schieramento compatto; in una vetrina la statua realistica di un lama tutto abbigliato sembra sul punto di alzarsi dopo la preghiera. Il canto degli uccelli rende il luogo ancora più mistico.
Dalle colline dietro il monastero, la vista spazia sull’immensità del paesaggio, un’ampia valle verdissima. Il monastero in basso sembra un plastico; un cavaliere solitario sfreccia sul suo destriero. Il silenzio è rotto solo dal canto lontano di qualche uccello appollaiato sui tetti del monastero. Il solito mucchio di sassi forma una macchia di colore con le sciarpe azzurre che si stagliano sul verde delle montagne. Solo le mosche ronzano dispettose disturbando la quiete del luogo. Camminando sul crinale raggiungiamo un secondo tumulo più in alto. La valle in basso è cosparsa qua e là dai bianchi puntini delle gher e dalle anse isolate di un ruscello. I tetti di tegole smaltate del monastero luccicano al sole. L’immensità dello spazio verde mi stupisce: nel terzo millennio esistono ancora luoghi incontaminati come questo! Il cielo si è riempito di nuvole e appare più basso come raccontano nei libri; il vento che ha preso a spirare sembra volere contribuire alla piacevolezza di questo paradiso verde. Le mosche sono scomparse e il silenzio regna sovrano.
La visita del monastero è stata emozionante: nessun turista ma anche pochi monaci. Un vecchio lama malfermo era condotto nel tempio da due persone per le preghiere. Un giovane monaco ci ha accompagnato nei vari edifici, aprendoli giusto per noi. Vive nel monastero da due anni per studiare, lontano dalla famiglia. Nel padiglione subito dopo l’ingresso ritroviamo i quattro Protettori già incontrati nel Palazzo d’Inverno di Ulaan Baatar. Le statue colorate sono ancora più grandi. Ciascuna reca in mano un simbolo, un topo, un serpente, una spada e uno strumento a corda; sotto i piedi schiacciano figure umane, un serpente e una tartaruga. Erden cerca di spiegarci la simbologia ma il significato mi sfugge. Tornati nel tempio principale il ragazzo solleva una botola e sotto il pavimento compare una riserva d’acqua, alimentata dalla pioggia convogliata dal tetto attraverso le colonne. Proseguiamo il giro dei vari edifici nella corte posteriore. In un padiglione dedicato alla dea della longevità colpisce la solita moltitudine di statuette in serie dalle vesti dorate che recano nelle mani giunte una corona. Nell’edificio centrale, attorno ai tre Budda del Passato, Presente e Futuro, alcuni mobili in legno contengono libri avvolti entro panni. I rotoli sono disposti nelle celle dell’armadio. Uno stendardo reca una svastica, simbolo arcano; un altro rappresenta il Dio della Cronologia dalle 12 braccia, con una corona di teschi sopra la testa e una cintura di volti umani alla vita. All’esterno, coronato dalla ruota del Dharma attorniata da due gazzelle, una scritta cinese ricorda che il tempio fu fondato da un re manchu. Un padiglione ospitava la tomba di Zanabazar ma oggi rimane solo la sua statua, fatta ricostruire dal Dalai Lama negli anni novanta; gli occhi spalancati esprimono uno sguardo infantile.
Tornati al campo turistico pranziamo gustando strisce di stomaco, dumpling e pesce fritto. Chiudiamo con una “Fiesta” (gli unici dolci del nostro soggiorno in Mongolia saranno merendine confezionate importate da ogni parte del mondo).
Erdenet
L’Hotel Selenge è un classico albergo di stile sovietico; ci assegnano una camera de luxe con rosoni stuccati sul soffitto e mobilio di design moderno. Contrariamente alle attese si lascia apprezzare. Ceniamo poco lontano al “Millionaire Cafè” dove una portata costa appena un euro (Stefania sceglie una zuppa di carne e verdure, io riso e carne).
Sono ancora le otto e, sempre scortati da Erden, passeggiamo lungo la strada principale. La città è completamente priva d’attrattive e i condomini dell’epoca comunista sono brutti e fatiscenti. La gente invece veste con gusto all’occidentale. In giro si vedono alcuni barboni e ubriachi. Erden ci sconsiglia di uscire da soli più tardi. Nei giardini della piazza principale si gusta un barbecue all’aperto mentre i bimbi giocano intorno alla fontana. Le femminucce sono belline, in particolare una con due codini, mentre i maschietti vivaci si mettono subito in posa per essere fotografati accettando di buon gusto di “battere il cinque”. Terminiamo la passeggiata davanti ai ritratti di Marx e Lenin che campeggiano su due palazzi, retaggio dell’era comunista finita senza toni troppo bruschi.
Siamo nella terza città della Mongolia, sorta nei pressi di una gigantesca miniera di rame e ne approfittiamo per stabilire i contatti con l’Italia. All’ufficio postale una telefonata di un minuto costa 1000 tugrik (un euro valeva circa 1300 T), la valuta locale: la procedura è un po’ lenta ma l’audio buono. In un Internet Cafè mandiamo alcune e-mail approfittando del collegamento veloce (200 T per mezzora).
29 giugno: Erdenet – Bulgan – vulcano Uran Uul
Da Erdenet a Bulgan
Nella periferia di Erdenet la gente abita nelle gher, protette da palizzate di legno. Lasciamo la città su una sterrata piena di buche in mezzo a paesaggi brulli. In alcuni tratti fervono i lavori per asfaltare la strada fino a Bulgan ma per ora non c’è traccia di pavimentazione. Il traffico pesante è intenso per gli standard mongoli. Dopo due ore siamo a Bulgan, dove al posto delle solite gher troviamo casette fatte di grossi tronchi di legno. Pranziamo in un “ristorantino” accompagnando le tradizionali schiacciate ripiene di carne e i dumpling, con il tè mongolo (una miscela di tè, latte e sale). Si dice che se una donna mette molto sale nel tè vuol dire che è incinta; i prossimi giorni osserverò attentamente i dosaggi di Stefania.
In viaggio
La steppa in questa regione è secca, poca erba spelacchiata, e questo ci spiega Erden è un brutto segno per il prossimo inverno quando non ci sarà da mangiare per il bestiame. Compaiono gli alberi e il paesaggio diventa più montano. Il fondo della valle torna verdissimo con un manto di fiori gialli. Ci fermiamo in cima ad una salita, presso un gruppo di capanne di legno e due ovoo. Una specie di grossa baita è già ultimata, un’altra è in costruzione: ospiteranno un hotel e un ristorante. Tre mongoli riposano all’orientale, accucciati sulle gambe. Ci offrono l’airag, bevanda leggermente alcolica di latte di giumenta fermentato. Sopraggiungono due motociclisti occidentali: sono tedeschi ma uno di loro vive a Venezia e parla italiano. Con le loro vecchie moto sono in viaggio da cinque settimane; dall’Italia hanno attraversato Slovenia, Ungheria, Ucraina e Russia. Complimenti!
Vulcano Uran Uul
Dopo la discesa, sbuchiamo in un’ampia conca; in lontananza si scorge il basso cono dell’Uran Uul, un vulcano spento. Improvvisamente il driver lascia la pista e procede in mezzo alla prateria. Ha scorto in lontananza un gruppo di cavalieri e punta verso di loro. Si stanno preparando per la versione locale della festa nazionale, il Naadam; alcuni indossano vesti tradizionali. Un uomo dallo sguardo severo porta un caratteristico cappello; altri il deel, una lunga tunica blu o rossa. Un bambino cavalca senza sella; parteciperà alle corse della festa. Con il nostro pulmino facciamo da traguardo ad una galoppata di gruppo.
Le sorprese non sono finite: lasciati i cavalieri, ci fermiamo in una gher per visitare una famiglia nomade. Entriamo facendo attenzione a non calpestare la soglia; nell’ambiente circolare regna un po’ di confusione come a casa nostra. Sui lati due brande, con le gambe stranamente poggiate sopra barattoli, segnano le zone per gli uomini e le donne, mentre in fondo due specie di tatsebao recano le foto di famiglia. Ci accomodiamo sulla bassa panca sistemata davanti al tavolo. La padrona di casa ci offre subito il burro da prendere con biscotti duri allo yogurt, molto dolci. Segue poi una ciotola piena di yogurt (speriamo bene!). La notizia del nostro arrivo si sparge e sopraggiungono altri ospiti dalle gher vicine. Un uomo a torso nudo è accompagnato dal nipote; la sua notevole pancia è fermata da una fascia che sembra trattenere un’ernia. La sua mole, ci spiega Erden, è giustificata dal fatto che era un lottatore, come ora è suo figlio e come diventerà il nipote seduto al suo fianco. Sul petto reca un tatuaggio di cavallo; il ragazzo ha un sorriso bellissimo con il quale contraccambia sempre i miei. Il lottatore ci mostra orgoglioso una serie di regali ricevuti da italiani: bottigliette di Chianti, Martini e gin. Me le porge con la mano destra e sto ben attento a riceverle con entrambe le mani. Come segno di benvenuto procediamo anche ad un piccolo rituale, proprio come nel film “La storia del cammello che piange”: ci passiamo una boccetta dalla quale si estrae un pennello per cospargersi un dito con il tabacco. Per sdebitarci offriamo i nostri piccoli doni, un pacco di caramelle per la padrona di casa, bon bon e penne per i bambini. Ormai il ghiaccio è rotto e faccio i miei complimenti al lottatore per i suoi stivali: sono veramente massicci, con la punta ricurva e una fascia decorata. Terminata la visita, ci scambiamo i “Bayartee” e seguiamo la padrona di casa impegnata nella mungitura delle cavalle. La tecnica è molto semplice: un uomo si avvicina con il puledro alla giumenta e la signora passa alla mungitura (sempre da sinistra). Poi tocca al cucciolo.
Il campo turistico è molto vicino, poco lontano dal vulcano. Ci aspetta un’altra notte in una gher, la tipica abitazione dei nomadi mongoli. Si tratta di una capanna circolare con il tetto conico; su un’intelaiatura di legno con pareti a reticolo e pali per il soffitto, viene posto il rivestimento di feltro, ottimo isolante. Al centro si trova un’apertura circolare dalla quale esce il comignolo della stufa. La porticina esterna, colorata in modo vivace, si apre verso sud per sfuggire ai freddi venti del nord. All’interno i due pali simboleggiano l’uomo e la donna, con l’apertura centrale che rappresenta la loro unione; separano la parte maschile e femminile della gher, quest’ultima naturalmente con la cucina. La capanna è facile da montare ed è quindi la residenza ideale per una popolazione nomade.
Leggende mongole
Erden ci racconta alcune leggende mongole. C’erano una volta sette soli e faceva molto caldo. Un arciere provetto, Erkhii, aveva otto frecce e decise di abbattere i soli con il suo arco. Vi riuscì subito con i primi sei ma al settimo tiro la freccia colpì la coda di una rondine di passaggio. Questo spiega perché le rondini hanno la coda con due punte. L’arciere decise di inseguire l’ultimo sole e promise che se non fosse riuscito a colpirlo si sarebbe tagliato il pollice delle mani, sarebbe vissuto in montagna e non avrebbe più bevuto acqua pura. Avrebbe anche tagliato le zampe anteriori al suo cavallo. Iniziò l’inseguimento ma il sole stava tramontando e non fece in tempo. Mantenne il voto fatto e divenne la marmotta mentre il suo cavallo divenne il saltellante topo mongolo.
Un’altra storia racconta che gli animali dovevano decidere quali fra loro avrebbero fatto parte dei dodici segni zodiacali. Sarebbero stati i primi dodici a vedere sorgere il sole la mattina seguente. Il cammello era tutto contento, convinto che dall’alto della sua figura avrebbe visto l’alba per primo mentre il topo era triste perché così piccolo pensava di non avere speranza. Il cammello propose al topo di gareggiare insieme. La notte dormirono. Il cammello sedette guardando verso oriente mentre il topo si mise sopra il cammello rivolto nella direzione opposta. Al mattino il sole si riflesse sulla montagna prima ancora di sorgere e il primo a vederlo fu proprio il topo che avvertì gli altri animali. Il cammello così fu escluso dai dodici segni dello zodiaco.
30 giugno: vulcano Uran Uul – lago Khuvsgul
In viaggio verso il lago Khuvsgul
Alle sette e venti lasciamo il campo turistico salutati dalla famiglia del proprietario (mamma, papà, figlio e figlia). Ci aspetta il tragitto più lungo di tutto il viaggio. Procediamo lungo la valle di un fiume: la striscia di verde si raccoglie intorno alle acque. Davanti ad una gher una ragazzina bolle il latte di giumenta per preparare l’airag: è vergognosa e al mio arrivo si ritira un attimo nella gher per prendere un giubbino. Percorso un altro tratto, incrociamo un gregge con un cammello al seguito per il trasporto dei bagagli. I pastori, come al solito, controllano la situazione dall’alto dei loro cavalli, impugnando un lungo scudiscio. Dopo due ore dalla partenza raggiungiamo Khulag Unde, scavalcando su un lungo ponte il Selenge, il fiume più importante della Mongolia. Proseguiamo un bel tratto fino ad un nuovo splendido incontro con un folto gruppo di cavalieri. L’autista anche questa volta punta deciso verso di loro; scopriremo più tardi che fino al 1993 è stato anche lui un nomade. Erden ci racconterà che il minivan è suo e lavora solo d’estate. Cavalli e cavalieri, inclusi numerosi bambini, sono molto fieri; non è facile fotografarli perché non stanno mai fermi, girano in tondo e voltano la testa.
Ripartiamo: il paesaggio è la solita successione di praterie, ora per la maggior parte molto secche; non mancano i tratti pietrosi. Attraversiamo anche una conca coltivata, fatto quasi incredibile per i mongoli che considerano sacrilego persino fare un buco nella terra. Il pranzo oggi è al sacco: panino e noodles, naturalmente con la carne. Viaggiamo in mezzo ad un gran polverone finché ci fermiamo in cima ad una salita. Sopraggiunge il pulmino degli olandesi, già incontrati al monastero e all’ultima sosta per i cavalli. Il nostro autista approfitta dell’aiuto del collega per smontare la ruota posteriore sinistra, estrarre tutta una serie di pezzi e lavarli con il gasolio. Niente di grave ci rassicura Erden ma prevenire è meglio che curare!
Sono le quattro passate e ci aspetta ancora un lungo percorso. Durante il cammino diamo un passaggio a tre ragazzi. Mi lancio in qualche domanda in mongolo: chiedo come si chiamano ma mi rispondono con tre suoni gutturali incomprensibili. Alla domanda “quanti anni hai ?” per fortuna rispondono con le mani. La più piccola è decisamente carina con due fessure al posto degli occhi e il visetto schiacciato; ha 14 anni mentre il ragazzo ne ha 16 e la più grande 17. Per sdebitarsi del passaggio ci offrono lo yogurt che portano in una tanica. Lo versano nelle nostre tazze da viaggio ed è veramente saporito. Dal frasario della Lonely Planet estraggo una frase augurale: “Mal sureg targam tastai yu !” (“spero che i tuoi animali stiano ingrassando bene !”). Sono tutti contenti per il mio augurio anche l’autista mentre Erden mi fa i complimenti per la pronuncia.
Al benzinaio di Moron, capitale del nord, incrociamo alcuni motociclisti: hanno delle grosse moto coreane ma indossano il deel con una fascia arancione che lo stringe in vita. Erden è di Moron e approfitta dell’occasione per visitare la sua famiglia; ci presenta la mamma e alcuni dei suoi nipoti (sono sette fratelli!). Ci offrono tè e biscotti e siamo ben lieti di fare la loro conoscenza.
Ultima tirata di tre ore fino al lago Khuvsgul; raggiungiamo Khatgal, un paese pieno di sporcizia con misere case di legno circondate da palizzate malmesse. Una strada in discesa ci porta finalmente al lago: è tutta un susseguirsi di sassi e procediamo saltellando a passo d’uomo, degna conclusione della lunga giornata. Il campo turistico, “Khuvsgul Dul Tour Camp”, è il primo sulla sponda del lago e, anche se una penisola ne impedisce una visione più ampia, il luogo è affascinante con le nuvole rosse per il tramonto che si riflettono nelle acque. Siamo tornati nel circuito turistico: la nostra gher ha la corrente elettrica e il ristorante è ospitato in una grossa costruzione di legno. Interrompiamo la dieta a base di carne gustando pesce di lago alla cinese.
1 luglio: lago Khuvsgul
Tsaatan Festival
Per risalire il lago dal nostro campeggio dobbiamo tornare verso il paese e prendere una sterrata che si dirige a nord internamente, in certi tratti seguendo letteralmente il letto asciutto di un fiume. Prendiamo a salire in mezzo ad un bosco ed ecco dall’alto comparire nuovamente il lago. Una discesa in picchiata ci porta fino alla riva per raggiungere il “Dalai Tour Camp” dove è in programma lo Tsaatan Festival.
Gli tsaatan, in lingua mongola la parola significa uomini-renna, sono una popolazione nomade così chiamata per la loro caratteristica di allevare questi animali. Sono ridotti a poche centinaia e vivono in una regione ad ovest del lago Khuvsgul. Il festival è dedicato a loro anche se sono presenti poche famiglie e la maggioranza degli attori è mongola. L’avvenimento riveste una certa importanza tanto che è onorato dalla presenza dei ministri del turismo e dei trasporti, giunti con l’elicottero parcheggiato sul prato vicino al lago (loro si sono evitati il massacro delle strade mongole). Il biglietto costa 14.000T, un vero prezzo per turisti. Lo spettacolo deve ancora cominciare ma dietro le quinte gli artisti sono già pronti insieme ad un gregge di renne. Gli animali attirano subito la nostra attenzione. Sono buffi e docilissimi: si lasciano carezzare le corna, quelle dei maschi maestose con le loro ramificazioni. Ci aggiriamo tra renne e figuranti, incuriositi dagli animali e dai costumi tsaatan. Finalmente dopo i pomposi discorsi delle autorità, tutto il mondo è paese, lo spettacolo ha inizio. Un gruppo di bambine sgambetta simulando, anche grazie al costume, il cavalcare delle renne. La musica tintinnante e l’allegria delle bambine riscaldano subito il pubblico. Nella prosecuzione si alternano vari balli e canti di gruppo. In particolare stupisce un solista che oltre alla “ordinaria” voce umana ne possiede una seconda, simile ad uno strumento musicale, proveniente dal profondo dello stomaco e dalla gola. Si tratta di una stupefacente forma di canto tradizionale. Nello spettacolo non manca la ragazzina contorsionista con il suo groviglio d’articolazioni.
Il pranzo al sacco del campeggio è abbondante quanto i pasti seduti a tavola (finiremo proprio per ingrassare in questo viaggio). Sorge qualche incertezza sul proseguimento della giornata. Erden non è molto prodigo di consigli e sembra volere stroncare ogni nostra iniziativa. Alla fine riusciamo a convincere lui e l’autista a proseguire per la strada lungo il lago. Vorremmo, infatti, allontanarci dalla folla di turisti attratta dal festival ed esplorare qualche angolo caratteristico. Bastano pochi chilometri per riguadagnare la tranquillità, anche se non mancano i campi turistici. Sulla riva erbosa, oltre ai soliti splendidi cavalli, incrociamo dei bovini alquanto pelosi: si tratta di buffi incroci tra yak e mucca. Dopo un breve tratto, l’autista parcheggia davanti ad una gher. Qui vivono due ragazze e i nostri accompagnatori sembrano fare un po’ i “molliconi”; procedono ad un baratto di cassette musicali ma per fortuna non perdiamo i “Ricchi e Poveri”, pezzo forte della colonna sonora dei giorni passati! Naturalmente veniamo invitati anche noi nella gher e come al solito finiamo per mangiare (gustoso il formaggio).
Promontorio di Jankhai
Seduto sull’estremità del promontorio nel silenzio più assoluto, ammiro lo spettacolo della natura. Verso sud una corona di dolci colline ricoperte di foresta avvolge le acque placide. Di fronte i monti Saridag, più alti, sono coperti dagli alberi, solo fino ad una certa altezza mentre più in alto il grigio delle rocce sembra sorreggere i nuvoloni che avanzano. Verso nord il lago si apre come un mare e la sponda non s’intravede nemmeno. Quale contrasto tra il piombo del cielo da un lato e l’acqua marina dall’altro! Mi levo le scarpe ed immergo i piedi: l’acqua è gelida. Il promontorio termina con una punta di sassi ma prima ospita un bel boschetto dove sorge un piccolo campeggio di gher. Un gruppo di cavalli ha scelto quest’oasi di pace, mentre qualche “audace” ha piantato la propria tenda sull’istmo che separa una delle due lagune dal lago.
Panorama sul lago
Sulla via del ritorno per il campeggio ci fermiamo al passo, in prossimità del solito cumulo di sassi e, consigliati da un gruppo di italiani, intraprendiamo una ripida salita fino alla cima della montagna. La vista spazia finalmente su una larga porzione del lago, inclusa l’isola che sorge al suo centro. Nel paesaggio spicca il promontorio di Jankhai con le acque delle lagune che formano due macchie di colore in contrasto con l’azzurro del lago.
Ritorno al campeggio
In paese ci fermiamo davanti ad un food store; sembra di essere in un film western con i cavalli “parcheggiati” davanti al negozio. Il paese mi sembra meno squallido di ieri e le costruzioni di legno lungo la strada principale completano l’effetto da Far West.
Memori del giorno precedente per evitare l’infernale discesa verso il campeggio, preferiamo proseguire a piedi. Il sole splende ora in un cielo terso e la visione è da fiaba: i “mezzi” yak pascolano su un prato verdissimo mentre le acque del lago si sono accese di varie tonalità d’azzurro, un mare dal turchese al blu.
A cena, oltre l’immancabile carne, gustiamo una zuppa di carne (!!) nella quale s’intingono pezzetti di pane fritto, piatto tipico mongolo. Raggiungiamo poi la sottile striscia che si allunga in mezzo al lago; un campeggio sorge sul promontorio mentre sulla punta due pescatori armati di canne s’immergono nell’acqua con i loro stivaloni. Poche decine di metri ci separano da un minuscolo e basso isolotto.
2 luglio: lago Khuvsgul
Prima settimana di viaggio
Una settimana di viaggio, un momento di riflessione. La Mongolia è un paese unico: gli spazi immensi sono spopolati e la sensazione di vuoto colpisce chi, come me, è abituato a tutt’altra vita. I nomadi con le gher, i costumi e le tradizioni costituiscono l’aspetto più interessante: la loro ospitalità è sincera ed ogni occasione è buona per offrire qualcosa. Quale sarà il meglio per il loro futuro? Una vita di difficoltà in mezzo ad una natura selvaggia e crudele oppure la “comoda” vita di città ad Ulaan Baatar in cerca di un lavoro? Il nostro autista quando ha perso il padre ha abbandonato il college ed ha vissuto quattro anni da nomade. Alla fine però ha venduto tutto il bestiame e si è comprato una macchina iniziando un nuovo lavoro. La millenaria tradizione nomade è forse destinata a sparire con il tempo? Le parole sagge di Erden sembrano tranquillizzarmi: i nomadi hanno molti figli e la natura non ha spazio per tutti (sembra strano in una paese così vasto ma è così), per cui è un bene se solo alcuni continuano con la vita nomade.
La natura è l’altro elemento che stupisce il viaggiatore. Nella Mongolia centrale i paesaggi verdissimi ricordano certi scenari del nord Europa. Salendo verso nord invece le praterie diventano sempre più brulle fino all’incredibile “oasi dell’oceano del lago”. Il paesaggio qui è meno originale, meno vicino all’immaginario della Mongolia ma sicuramente splendido. Nei prati i fiori selvatici formano macchie di tutti i colori, dall’arancione al giallo, dal viola al celeste. Le stelle alpine da noi così rare sono brucate tranquillamente dalle capre.
Gita in barca
Il lago ha i suoi colori per ogni ora del giorno. Questa mattina le acque immobili hanno assunto le tonalità più cupe della sponda orientale in ombra. Erden dorme beatamente e così ci arrangiamo per conto nostro aggregandoci al giro in barca del gruppo di italiani in viaggio con la nostra stessa agenzia. Sono in cinque e per alcuni di loro si tratta del secondo viaggio in Mongolia.
In barca risaliamo il braccio meridionale fino ad un promontorio dove il lago si allarga trasformandosi in un oceano (il lago meritò questo titolo nell’epoca manchu perché ha più di cento affluenti). Dalla barca i monti Saridag ci appaiono con il loro curioso manto di foreste: lingue di alberi scendono dalle rocce brulle fino al lago, torrenti di verde che confluiscono nell’azzurro delle acque. Rivedo, navigando, i luoghi di ieri: il passo con il sentiero per arrivare in cima, la penisola di Jankhai con gli alberi. La giornata è soleggiata; solo una nuvola poggia sulle vette più alte. La sua forma mi ricorda una nave mentre Stefania, ormai entrata nello spirito del viaggio, suggerisce un cappello mongolo. Attracchiamo su uno stretto promontorio, una mini Bellagio. Le nuvole sopra l’altra sponda si riflettono nelle acque turchesi della caletta sotto di noi e le montagne sullo sfondo completano il quadro. Sulla punta non manca il solito ovoo. Di fronte il lago si apre in una distesa immensa, un mare davanti a noi, ma lo sguardo non può che tornare alle acque della caletta, pennellate di turchese; una striscia immobile in mezzo alle increspature sembra un fiume che scorre nel lago.
Gita a cavallo
In cima alla montagna la vista è meravigliosa, uno spettacolo indimenticabile, il più bello del lago. Il ramo meridionale sotto di noi appare una tavolozza di verde, blu, azzurro e turchese: una visione che credevo fosse possibile solo nei mari tropicali. L’isolotto vicino al nostro campeggio sembra un atollo di sabbia strappato ad un’altra latitudine. Tutto intorno, il manto dei larici siberiani avvolge in un abbraccio la macchia colorata delle acque.
Due spartane sdraio di legno accolgono le nostre membra dopo la cavalcata; sceso da cavallo le ginocchia erano a pezzi ma ora tutto è a posto. In due ore, procedendo al passo, abbiamo attraversato una foresta ammantata di fiori variopinti. E’ stata la mia prima esperienza a cavallo e il giro accompagnato dalla guida mongola è stato divertente, un’esperienza alla quale non potevamo rinunciare nel paese dei cavalli.
3 luglio: lago Khuvsgul – Moron – Shine Ider
Khatgal – Moron
A Khatgal facciamo benzina; la pompa manuale funziona ruotando una manovella. Sopraggiungono due moto russe da fuoristrada, vecchie ma possenti. Percorsi pochi chilometri ci dobbiamo fermare perché una gomma è sgonfia. L’autista estrae una pompa da bicicletta con la quale recuperiamo un po’ di pressione al prezzo di una notevole fatica di braccia.
All’ufficio postale di Moron, dove giungiamo all’ora di pranzo, ci connettiamo ad internet per segnalare in Italia la nostra esistenza (linea un po’ lenta, 420T per mezzora). Insieme alle strade principali asfaltate ritroviamo quindi un elemento di modernità. Per il resto Moron non è che un grosso agglomerato di case in cemento o legno; una spianata funge da piazza principale con al centro un monumento dedicato all’eroe locale.
Per pranzo siamo ospiti della famiglia di Erden. I rapporti tra familiari mi sembrano diversi dai nostri: non si fanno troppe smancerie, anche quando non ci si vede da tanto tempo, mentre si bada molto alle azioni, a preparare un pranzo, offrire un tè. Insieme alla mamma di Erden, al fratello aspirante poliziotto e a una sorella, abbiamo modo di assaporare la cucina casalinga: noodles con carne fresca e secca, patate e carote, seguiti da maxi dumplings (buuz). Davanti alla casa è parcheggiata la Hyundai della sorella ed Erden non si lascia sfuggire l’occasione per fare un giretto al volante.
Dopo i saluti, facciamo una puntata al mercato acquistando caramelle e sigarette per i nomadi che incontreremo nei prossimi giorni. La maggioranza della gente veste all’occidentale ma alcuni anziani indossano il deel con stivali di tipo militare sovietico. Ai margini della città è stato ricostruito un monastero buddista: una ruota della preghiera è ricavata da un bidone di latta.
Moron – Shine Ider
Lasciamo Moron seguendo l’omonimo fiume, lungo una pietraia. Le montagne prive di vegetazione formano macchie di vari colori. E’ una giornata molto calda; diamo un passaggio ad un mongolo che cammina solitario. E’ molto timido ed evita i nostri sguardi. Percorriamo un lungo tratto, prima di giungere alla sua abitazione (come avrebbe fatto a piedi con quegli stivaloni invernali?!). Con qualche acrobazia il minivan raggiunge direttamente la capanna di legno: l’autista vuole procedere ad una riparazione e il mongolo ha una lunga barra d’acciaio necessaria per l’operazione. E’ proprio vero che in campagna ci si aiuta gli uni con gli altri. Con Stefania ne approfittiamo per spostarci dai vicini dove in un recinto è in corso la tosatura delle pecore: un pastore con le forbici sta togliendo la lana ad una pecora con tre zampe legate, tagliandola tutta insieme come se si trattasse di un cappotto. Lungo la strada incroceremo vari camion stracolmi di manti di pecore. Gli acquirenti vengono direttamente sul posto per le compere all’ingrosso. Nel frattempo la riparazione procede e veniamo invitati nella capanna di legno, intrattenuti da una signora anziana, una giovane e una bambina, alla quale regaliamo una manciata di caramelle. Questa zona appare molto secca ma i nostri ospiti sono generosi anche se poveri.
La strada prende a salire in mezzo a boschi per poi spianare in una verde distesa circondata da colline. Il paesaggio prosegue in un’alternanza di aree brulle e verdi. Ci fermiamo verso le sette per la cena al sacco. Superate colline e vallate, dopo le nove raggiungiamo finalmente il villaggio di Shine Ider.
In tenda presso Shine Ider
Per la notte ci accampiamo nelle vicinanze di Shine Ider, ad una “distanza di cortesia” da un gruppo di gher. Il montaggio della tenda ci pone qualche problema per il forte vento che si scatena proprio in quel momento. Il sole prossimo al tramonto illumina le montagne e il paese in lontananza, sopra il quale splende un tratto d’arcobaleno. Il verde della prateria tende quasi al giallo. Sopraggiungono i nomadi per invitarci nella loro gher. L’ospitalità è un principio fondamentale nella cultura di questo popolo. Entriamo in una piccola gher, veramente misera. Erden traduce alcuni brani della conversazione. La famiglia ha perso quasi tutti gli animali durante l’inverno e per questo si è avvicinata al villaggio. Attratti dalla curiosità sopraggiungono a frotte i vicini. Cerchiamo di fare qualche domanda, tradotta da Erden, per entrare nella conversazione, ma non è facile. Questa volta non abbiamo a che fare con persone abituate ai turisti. I loro sguardi non incrociano mai i nostri; mi sento trasparente come se non ci fossi, una sensazione provata già altre volte questi giorni. Naturalmente ci offrono tè mongolo e yogurt che noi contraccambiamo con una busta di biscotti. Dopo un po’ i vicini sembrano perdere interesse nei nostri confronti: in una gher hanno la televisione e sta per iniziare un film, spettacolo evidentemente più interessante di quello che noi possiamo offrire! Incuriositi andiamo anche noi nell’altra gher: è più grande, con tre letti e molto più ricca con tappeti per terra e sulle pareti; anche la mobilia, al solito tutta colorata, è particolarmente bella. Hanno un generatore alimentato dal vento grazie al quale possono guardare la televisione mongola che sta trasmettendo un film russo in bianco e nero. Ormai si è fatto tardi, dopo una lunga giornata in pulmino: non ci resta quindi che salutare tutti e ritirarci nella nostra tenda.
4 luglio: Shine Ider – lago Terkhiin Tsagaan
Mattino in tenda
Alle otto il sole splende già alto illuminando la verde vallata con le gher. Sopraggiunge un nomade per offrirci il tè mongolo che accettiamo volentieri. E’ il capofamiglia della gher visitata ieri sera e nonostante la modesta condizione non rinuncia ai principi dell’ospitalità. Contraccambiamo con sigarette e altri biscotti. E’ interessato alla macchina fotografica digitale di Stefania e in particolare alle foto di animali.
In viaggio verso il lago Terkhiin Tsagaan
Dopo i saluti, alle nove passate riprendiamo la marcia verso sud, fermandoci subito presso un antico “monumento funebre”, formato da quattro pietre disposte agli angoli di un quadrato. Una seconda sosta è presso un ovoo dalla forma di tempietto, costruito in ricordo di un tempio distrutto dai comunisti. Erden ci racconta che suo nonno materno era un famoso cacciatore, esperto anche di medicina tradizionale. Era buddista e fu rapito dai comunisti senza fare più ritorno, un destino toccato a molte persone durante le purghe staliniste.
A metà mattinata raggiungiamo il fiume Ider Gol che scavalchiamo su un ponte di legno poco rassicurante, raggiungendo un paese il cui nome mongolo significa “felicità”. Poco oltre sorge il “Jarkal Jigur Tourist Camp”, davanti al quale incontriamo di nuovo il gruppo di italiani intenti a fare il pediluvio in una pozza d’acqua calda. La loro guida ci consiglia di cospargerci con il latte di cavalla bianca, ottimo per la pelle.
Per pranzo ci fermiamo in una gher lungo la strada. L’interno è piacevole con tappeti e mobili dipinti. Vi abita una signora anziana con una nipote ma, come al solito, gli ospiti di passaggio sono numerosi, in particolare un folto gruppo di ragazzine. Ci offrono tè mongolo e formaggio ma i loro sguardi sfuggono ai nostri rivolgendosi sempre ad Erden. Una ragazzina acerba ma carina non resiste però a lungo e comincia a gettarmi occhiate interessate. Per pranzo ci preparano dei noodle fatti in casa: l’impasto d’acqua e farina viene trasformato in una sfoglia sottile dalla quale le ragazze tagliano i noodle. La padrona di casa accende il focolare e procede alla cottura. Nel frattempo Erden c’insegna un paio di giochi mongoli, basati su piccole ossa di caviglia di capra. Le ossa fungono da dadi e le quattro facce simboleggiano capra, pecora, cavallo e cammello. Il primo gioco è simile al nostro “saltacavallo”, il secondo consiste nel lanciare per aria una catenina e riacchiapparla al volo dopo avere riempito la mano con le ossa. I noodle sono pronti e ci vengono serviti in brodo insieme a carne secca (e molti capelli!). L’autista, che si era sdraiato per terra schiacciando un pisolino, si risveglia prontamente. Al pranzo partecipa anche un cavaliere appena giunto, dal volto e dalle vesti tipicamente mongoli (come farà a non scoppiare di caldo con gli stivali russi e il deel). Dopo pranzo, assistiamo alla mungitura delle pecore da parte delle ragazzine; ormai il ghiaccio è rotto e le foto digitali di Stefania suscitano un gran clamore. Ci facciamo scrivere l’indirizzo in mongolo da Erden per potere spedire qualche foto.
Lago Terkhiin Tsagaan: seduti su un promontorio a picco sul lago
Il campeggio sorge su un promontorio che termina con una roccia a picco sul lago. Dalla cima ammiriamo il panorama, illuminato dalla luce della tarda serata. Il paesaggio è completamente diverso dal Khuvsgul: verdi montagne circondano lo specchio d’acqua, punteggiate qua e là dalle gher dei campi turistici. Davanti al nostro campeggio una stretta spiaggia di sabbia rappresenta una rarità per la Mongolia. Un paio di pescatori è all’opera, uno con una canna da lancio, l’altro semplicemente con un filo che lancia lontano e ritira.
5 luglio: lago Terkhiin Tsagaan
Vulcano Khorgo
In cima al vulcano Khorgo si ammira il profondo cratere spento. Le rocce laviche scure e la profonda depressione sono impressionanti. E’ tutta una pietraia, piena di leggere rocce porose, ma, un tempo, la forza dell’eruzione generò la colata lavica, oggi ricoperta dagli alberi, che si estende nella piana verso il lago. Siamo arrivati fin qui sobbalzando nel pulmino sopra la colata e salendo una scala di gradini in cemento costruita per agevolare i visitatori. In cielo volteggia in ampi giri un’aquila. Percorriamo l’orlo del cratere, ammirando in lontananza le acque del lago; dal punto più alto s’intravede anche il nostro campeggio.
Le grotte di Shar Nokhon, vicino al vulcano, sono una delusione, nient’altro che voragini nella roccia lavica della colata.
Gita a cavallo
Il pomeriggio decidiamo di fare un giro a cavallo di un paio d’ore. Dal campo turistico procediamo lungo la riva del lago con un’andatura molto tranquilla, quasi sonnolenta, ma quando facciamo capire al nostro accompagnatore che vorremmo andare più veloci, parte al trotto e, viste le mie scarse capacità di cavallerizzo, finisco per rimbalzare sulla sella. Ripresa la lenta andatura al passo, mi sembra invece di essere uno di quei feriti che venivano trasportati legati in sella ad un cavallo, come leggevo nei libri da ragazzo.
Dopo la tempesta
Siedo davanti alla nostra gher di fronte al lago. Dopo la grandinata, un arcobaleno si staglia sui nuvoloni scuri. Le acque agitate dal vento sono di piombo ma qualche montagna in lontananza splende per la luce del sole. Il tempo è molto variabile in questa stagione e il cielo racchiude questa mutevolezza, con pennellate di colore che sembrano l’opera di un pittore impressionista. Alcuni nuvoloni striati richiamano il pelo dello yak, altri più bassi velano le montagne mentre squarci d’azzurro si fanno largo qua e là; l’oro del sole al tramonto si trasmette alle nuvolette ormai isolate a ponente.
6 luglio: lago Terkhiin Tsagaan – Tsetseterleg – terme di Tsenker
Dal lago Terkhiin Tsagaan a Tsetseterleg
Riusciamo ad anticipare di un’ora la partenza, alle otto, in modo da visitare anche il monastero di Tsetseterleg non incluso nel programma. Superato il vulcano Khorgo, raggiungiamo il villaggio di Tariat, scavalcando il fiume su un ponte di legno. Diamo un passaggio ad un viandante: indossa un deel marrone chiaro, stivali e un cappellino da polo! I capelli bianchi proseguono in due basettoni uniti da una striscia di barba sotto il mento. La pelle scura indica una vita da nomade passata sotto il sole. Come altre persone alle quali abbiamo dato un passaggio siede di fronte a noi ma volge la testa per guardare la strada o evitare i nostri sguardi. Si sta recando ad assistere alle corse dei cavalli di un festival locale. Poco oltre incrociamo una colonna di nomadi: si stanno trasferendo con tutte le loro cose, gher incluse, a bordo di carri trainati da yak. L’immagine della lunga fila nella prateria con le montagne sullo sfondo è emozionante, rovinata solo un po’ dal pensiero che lo spostamento è motivato da un documentario.
Alle dieci raggiungiamo il canyon del fiume Chuulut che scorre tra pareti verticali per svariati chilometri, formando un solco profondo nella piana, ma noi ci limitiamo ad ammirarne un breve tratto. In mezzo ad un bosco di larici, sorge l’Albero dei Cento Rami, un vecchio ed imponente esemplare avvolto da una moltitudine di panni azzurri, pieno d’offerte. Uno scoiattolo fa capolino tra le pietre poste ai suoi piedi.
Attraversiamo un’ampia vallata, seguendo una sterrata che è una vera pacchia rispetto a quelle dei giorni scorsi, anche se il nostro autista a volte preferisce le piste laterali. Lungo la strada gruppi di bambini vendono bottiglie di airag e l’autista non si lascia sfuggire l’occasione. Una piccola tenda occidentale offre loro un riparo dal sole dove nascondersi appena cerco di fotografarli. Due maschietti si esibiscono per noi in un “incontro di wrestling”. Questa regione di verdi praterie ha un aspetto più ospitale ma meno pittoresco; la strada è sollevata su una massicciata e parzialmente asfaltata.
All’ora di pranzo, superato il villaggio di Ikh Tamir, ci fermiamo presso la roccia di Taikhar Chuluu. Isolata nella campagna, ha dato luogo a varie leggende; oggi nei suoi paraggi sorge un “prosaico” campo turistico. Pranziamo al sacco all’ombra del pulmino.
Monastero di Tsetseterleg
Il monastero nella città di Tsetseterleg era formato da un vasto complesso d’edifici che ospitava 2500 monaci, com’è testimoniato dalle foto scattate da un tedesco all’inizio del novecento. Anche qui però è caduta la mannaia del comunismo ed oggi sopravvivono solo gli edifici intorno ad una corte. E’ una fortuna che siano stati conservati per ospitare un museo. Gli interni di legno sono affascinanti ma la collezione è addirittura sorprendente. Nella prima sala al piano terra è ricostruita un’intera gher, a differenza di quelle attuali arredata con mobili tradizionali: credenze dipinte e letti intarsiati, insieme a vari utensili tra cui un grosso contenitore per l’airag. Un carro trainato da uno yak trasporta una gher smontata, proprio come quelli osservati nella carovana di questa mattina. Una scala di legno conduce al piano superiore (tutto è in legno senza l’utilizzo di chiodi), dove l’esposizione prosegue con splendide teiere intarsiate d’oro, vestiti tradizionali (impressionante l’acconciatura di una donna con due “trecce laterali” che la costringevano a dormire a pancia in su), una sella per cavallo, una maglia di ferro dell’epoca di Gengis Khaan, borsette per la polvere da sparo, un set di coltelli e bacchette “da viaggio”. La saletta in fondo contiene una raccolta di strumenti musicali: corni lunghi più di due metri, strumenti a corda con teste di drago o cigno e una specie d’arpa! Passiamo poi al tempio “privato” del lama perfettamente arredato tanto che l’assenza dei monaci si avverte netta. Un plastico, ricostruito grazie alle foto del tedesco, illustra la struttura originaria del monastero. A fianco degli edifici sopravissuti si trovava il tempio principale del quale oggi rimane solo lo scheletro.
Vicino al complesso antico è stato costruito un nuovo tempio ma a quest’ora è chiuso e dobbiamo accontentarci di fare qualche giro alle ruote della preghiera. Scaliamo invece la collina dietro il museo, sormontata da un tempietto in rovina. Dalla cima si gode un bel panorama sulla città, circondata dalle montagne (il suo nome significa “giardino”). Alcuni quartieri si estendono sulle pendici delle colline e almeno da lontano, con la loro struttura regolare di basse casette, forniscono un’impressione piacevole, ben diversa dai fatiscenti palazzi del centro.
Mercato di Tsetseterleg
Il mercato della città è interessante. Il settore all’aperto è formato da container addossati l’uno all’altro che fungono da negozi. In giro si vedono diverse persone con il vestito tradizionale. Un edificio ospita il mercato alimentare, diviso esattamente a metà tra i settori macelleria e latticini. La sfilata di carne esposta sui banconi fa una certa impressione; alcune donne sono impegnate a fare a pezzi un bue. In un paese di carnivori non sorprende trovare un settore così ben fornito con la gente che si accalca per comprare interiora e i più svariati pezzi di carne, portandoli via semplicemente in una busta di plastica. Tra i latticini ritroviamo i prodotti dei nomadi: formaggi di tutti i tipi, biscotti di yogurt ed airag a volontà.
Da Tsetseterleg alle terme di Tsenker
In viaggio sul pulmino, mentre scrivo qualche riga, Stefania esclama sorpresa: “Ma ha nevicato?!”. Alzo gli occhi e il paesaggio è tutto imbiancato. Il nubifragio della città in campagna si è trasformato in una grandinata: chicchi grossi come acini d’uva coprono tutta la prateria! L’estate mongola è veramente piena di sorprese.
Proseguiamo in una regione verdissima, con la strada resa fangosa dalla pioggia. Sembra di essere in una valle dell’Eden, con l’acceso contrasto tra il verde lucente dei prati e quello scuro delle foreste sulle colline. I cavalli galoppano liberi; qua e là si scorgono aironi cinerini e strane papere con una macchia gialla sul petto. E’ l’ora della mungitura; pecore e capre sono ammassate nei recinti, pronte per l’operazione.
In fondo alla valle si trovano alcune sorgenti d’acqua calda, sfruttate da due campeggi turistici. Ci sistemiamo nello “Juulchin Tsenker Tourist Camp”. A parte le cameriere in minigonna vertiginosa e tacchi a spillo e la televisione con musica a tutto volume nella gher ristorante, tutto il resto sembra costruito sapientemente: bagni caldi con piscina separati per uomini e donne e una posizione idilliaca fra una collina boscosa e una con verdi prati percorsi da greggi e mongoli a cavallo. Sembrerebbe quasi di assistere ad un cartone animato ambientato in una valle tirolese, se non fosse per le gher del campo turistico al posto delle baite e i mongoli con deel a cavallo invece dei tirolesi in pantaloni corti e pon pon sui calzettoni. Una buffa casa di legno, con i tetti spioventi e le pareti oblique, richiama ulteriormente la nostra Europa alpina.
7 luglio: terme di Tsenker
Dopo la burrasca di ieri, la mattinata è soleggiata e luminosa. Ne approfittiamo per una passeggiata nella valle. Raggiungiamo un primo gruppo di gher dove ci accolgono un paio di bambini che salutiamo con il solito “Sainbainuu”. Quattro cavallini sono legati ad una corda, mentre qualche adulto è bloccato da solo ad un palo (sarà una punizione o una dieta?!). Davanti ad una gher è parcheggiata una motocicletta mentre sul tetto è steso il formaggio a stagionare. I contrasti tra modernità e mondo pastorale proseguono con una gher dotata di parabola e pannello solare mentre davanti in un recinto i cavalli agitano le code per allontanare le mosche. E’ difficile credere che questo paradiso terrestre possa trasformarsi in un mondo inospitale con temperature polari; i ricoveri di legno per l’inverno, vuoti in questa stagione, sembrano volercelo ricordare. Davanti ad essi un gruppo di ossa segnala qualche passato banchetto. Ci sediamo all’ombra del bosco sulle pendici di una collina, trovando un po’ di refrigerio nella calda giornata. La pace è quasi totale, disturbata solo dalle mosche che ronzano intorno fastidiosamente.
Nel pomeriggio saliamo sulla collina che domina il campeggio; dall’alto la vista sulla valle è completa con il ruscello serpeggiante nel mezzo, ma le mosche non concedono tregua, impedendo qualsiasi sosta contemplativa. Raggiungiamo in basso le sorgenti d’acqua calda, ormai imbrigliate da vasche di cemento e condotti ad uso dei campeggi. Siamo in un’area apprezzata proprio per le sue acque termali ed è ormai giunta l’ora di approfittarne. In un edificio i bagnanti hanno a disposizione delle basse e scomode docce (molto in voga in Giappone) e una vasca con l’acqua tiepida. All’esterno invece c’è una piccola piscina piena d’acqua calda solforosa ed è un piacere sguazzarci dentro. Unico disturbo le solite fastidiose mosche, molte delle quali galleggiano morte sul pelo dell’acqua. Per completare il momento di relax mi stendo su una sdraio di legno, questa volta insieme a Stefania dato che per il resto non è possibile nessuna commistione tra i sessi. Consigliati da Erden ci cospargiamo la pelle di airag e momentaneamente le mosche ci lasciano in pace.
Considerazioni sui campi turistici di gher
Sono strutture accoglienti e piacevoli, caratterizzate da gher confortevoli. Unico neo nei campi più grandi, l’effetto turismo (per esempio nell’abbigliamento delle cameriere) e la cucina spesso frutto di una tragica combinazione mongolo occidentale in base alla quale si mangia sempre carne preparata per i gusti “moderni”.
8 luglio: terme di Tsenker – Kharakorum
Storia di passate distruzioni
Lasciate le terme, attraversiamo i paesi di Tsenker e Khotont. Una coppia in moto trova lo spazio per trasportare anche una pecora con le zampe legate. A mezzogiorno siamo a Kharakorum che ci appare una città di baracche con una grossa fabbrica giapponese.
Kharakorum era la capitale dell’impero mongolo ma oggi nulla resta a ricordare quei tempi poiché la città fu rasa al suolo dai cinesi; sulle sue rovine fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il più importante della Mongolia, formato da ben 65 templi ma arrivarono i manchu e portarono nuove distruzioni. Nell’ottocento parte del complesso fu restaurata ma passò un altro secolo e toccò alle purghe staliniste. Oggi lo spazio all’interno delle vaste mura, movimentate da 108 stupa, è quasi vuoto: solo un recinto con tre templi si è salvato perché destinato a diventare un “museo dell’epoca feudale”. Della gigantesca gher che ospitava le assemblee rimane solo la traccia sul terreno mentre il tempio principale fu distrutto dai comunisti negli anni quaranta ed è in programma la sua ricostruzione. Una gher è destinata alla raccolta dei fondi: al suo interno, mentre quattro monaci salmodiano, si vendono souvenir ed accettano offerte. Insieme agli oggetti antichi mi colpisce un telefono rosa accanto ad un cellulare.
Il monastero Lavin Sum è stato già ricostruito in stile tibetano, squadrato senza i tetti spioventi dell’architettura cinese. Al nostro arrivo l’ora della preghiera è passata e i novizi seduti sui banchi sorseggiano tè mongolo; davanti a loro conchiglie bianche e fogli abbandonati con preghiere in tibetano. Dal soffitto a cassettoni pendono stendardi colorati mentre, in fondo, tra le molte statue campeggia un Budda vestito con un mantello tutto dorato che reca tra le mani una fotografia in bianco e nero di qualche lama famoso (forse il re lama d’inizio novecento?). I libri delle preghiere, avvolti in panni gialli, sono posti su una ruota girevole che i fedeli provvedono a muovere. Seguendo il precetto buddista percorro il giro in senso orario. Le pareti sono ricoperte dalle tipiche pitture mongole su stoffa, i thangha, nelle quali lama dallo sguardo mistico dominano piccole figure mostruose poste ai loro piedi. In un angolo una statua rappresenta Mahakala, mostruosa divinità con la pelle blu, quattro braccia, una corona di teschi e una cintura di volti umani. Sotto i piedi schiaccia una figura umana.
Nell’area recintata si trovano gli edifici sopravvissuti alle passate distruzioni, tre templi affiancati con tetti dall’impronta cinese coperti da tegole verdi smaltate. Al loro interno la selva di statue confonde le idee ma l’effetto è molto bello. Sono rappresentati il Budda Storico, il Budda Presente e il Budda Futuro, insieme ad altre divinità dall’aspetto mostruoso e lama, accompagnati da oggetti dal significato mistico come gli otto simboli del buon auspicio (parasole, coppia di pesci, ruota del Dharma ad otto raggi, ecc.). Draghi avvolgono le loro spire attorno alle colonne. In particolare mi colpiscono le offerte di dolci decorati fatti di burro, grasso e polvere.
Nel negozio del monastero non mancano gli oggetti interessanti e finiscono per acquistare un Mahakala dipinto su stoffa, dall’aspetto antico.
In giro per Kharak