Ulaagchiin Khar
Si arresta la duna o declina sul fondo, fino al lago.
Nel lago di sabbia scompare l’acqua, nell'orizzonte bruno
muore il cielo, dietro ai monti.
In un attimo è spenta la lingua di fuoco che calpestavi;
il passo arretra, il respiro ancora esita
in cerca d’acqua da bere. Più lontano e dentro
è in marcia un vento diafano, da stamane: sospinge l’imbrunire
verso il lago, a perdita d’occhio fino al monte -
si abbracciano come fratelli. Lentamente
la terra inghiotte i figli suoi, e ne sputa le ossa
o la cenere.
Più lontano e dentro, pascoli verdeggianti di erba
sulla cima sfuggono l’ombra, e scompaiono nella fascia nera
dell’orizzonte: qui originano le stelle. Il canto di un pastore
le destò, veglia sul loro ozio inesausto
con canti d’amore, nel loro diuturno peregrinare
come armenti. Tende bianche e i bivacchi screziano
la collina più a occidente, vicino al punto ove la duna sabbiosa
si fa prato: errano ogni estate, avanzano
tra le steppe lungo i monti, mentre la stella esulta e rosseggia
su un tumulo di rocce e ossi.
Abbiamo circondato il luogo
dell’offerta: non i massi o le rocce nasconderanno i segni
del nostro passaggio. Finalmente offriamo, finalmente adoriamo:
come esuli dal cielo, i figli della terra esultano – il nostro sangue
ribolle, prorompe in grido d’animale.
L’oleosa artemisia è piegata ai nostri piedi, non ci curiamo
di calpestarla; cospargerà nel suo profumo i sogni
dell’agnello, o lo persuaderanno
a dormire altrove.
Khövsgöl
Quel giorno la pineta era libera, allora ci trovammo sulle rocce
del litorale, presso l’ovoo dimesso, e le offerte di cibi, banconote
o caramelle incartate. Tu dicesti che il giro da compiere era in senso
orario, afferrasti la mia mano con la tua, senza guardarmi: era mattina.
I gabbiani non avevano impresso il nostro moto, se ne stavano sonnolenti
sulla scogliera biancazzurra, alcuni fissavano il mare, altri ancora dormivano,
qualcuno sognava la morte bianca. Discendemmo dalla scogliera alta
senza scivolare, un solo passo era franoso, staccammo le mani
per non trascinarci dabbasso insieme, anche se lo volevamo.
Volteggiavamo così, lievi, come quel vento pungente, come fiamma
in punta di fiammifero (ci si consuma un poco alla volta).
La pineta abbracciava il golfo opaco per soffocarlo, puntellando
di larici i declivi montuosi, che sembrano più scuri allontanandosi.
“Vedi quel palco di corna lassù?” Ma era già sparito, al suo posto
oscillavano appena certi bassi arbusti. La calma
era ristabilita continuamente da una folata di vento,
una radice spezzata, o dal lusinghiero canto
di un uccello. Più di una piuma attraversò il nostro sguardo
e avvicinammo circospetti al baluginare degli alti rami
sempreverdi, sulla terra cosparsa d’aghi e sassi.
E mentre ti voltavi dovetti abbracciarti, anche se non eri
lì con me.
Telmen
Era un dio che correva lungo il litorale, o un corvo
impazzito a sortire gli stessi presentimenti? A lungo rimase
immobile, poi sbatté le ali e riprese a piovere. Non tardammo
a chiudere le giacche e aprire gli ombrelli che, per ventura,
erano tutti neri. Le nubi possenti muovevano da est a sud-est, cariche
di marea e fatica, ma il giorno era talmente placido che la pioggia cadeva
leggerissima, come una foschia sottile d’aghi e lacrime.
Il grigio del cielo ricordava l’antracite
ma il blu nel lago era così intenso: potevano avverarsi
i desideri. Sull’acqua indugiava la pioggia, che sgorgava
attraverso i monti. Ancora uccelli: forse cormorani?
Le narici si dibattevano punte dall’aria gelida;
il manto di nebbia fendeva i dorsi del litorale scuro
e limitava la vista del sole e del lago (segretamente avevo espresso
un arcobaleno). Le doglie del cielo erano anche doglie marine
e, sotto il pelo dell’acqua, un re perlustrava il palazzo
da cima a fondo, senza urtarne la superficie. Altre ali sbatterono,
candide, questa volta. In un attimo eravamo avvolti
dalla bruma che esitava sopra il lago e addensava in nugoli perlacei;
ma laggiù, dove la spiaggia breve piegava come una mezzaluna
nella foschia di mezzogiorno e brillavano a sprazzi
alcuni brandelli di costa: lì posarono i cigni esausti,
accorsi nell’ora di convivio. Scivolavano in silenzio sul pelo
dell’acqua, verso la riva deserta, tra pietre carsiche color carne
e sangue. Li osservammo allontanarsi, prima di ripartire.
I colori, meravigliosi, sono stati i veri protagonisti del nostro viaggio.
Ho definito la Mongolia una terra libera e bella: é stata una definizione immediata, impulsiva ma, riflettendoci, se mi venisse chiesto di descrivere tutti i luoghi del mondo che ho visitato con un aggettivo, alla Mongolia spetterebbe senza ombra di dubbio quello di "libera".
È una terra che, più di tutte quelle che ho visitato, sento libera... Libera non soltanto per i suoi spazi immensi ed i suoi silenzi, che regalano quello straordinario senso di pace e libertà.
Libera perché, pur conservando antiche tradizioni, come ricevere qualcosa soltanto con la mano destra o condividere simbolicamente le offerte con il cielo, i defunti e i vivi, i mongoli sono meravigliosamente aperti al "diverso", a ciò che è altro da loro e dalle loro tradizioni. Allo stesso modo la religione, che pur è presente e sentita, non é così forte e condizionante come in altre realtà.
Dicono i buddhisti che bisognerebbe avere una mente equanime e non giudicante Beh, credo che i mongoli abbiano raggiunto questa condizione... e, per quanto credano nel karma, nel samsara, non ne sono condizionati
L'impressione che ho avuto é che la loro spiritualità vada oltre i templi e le religioni ma che abbia un respiro molto più ampio.
Ampio come le loro sconfinate terre. La loro religione é nella maestosità della natura che li circonda, che li nutre, li protegge, li riscalda.
E, come si mescolano sapientemente i colori, così come si mescolano praterie, steppe, deserti, così si mescolano ed integrano etnie diverse, religioni diverse, nomadi e stanziali.
La sensazione che mi ha regalato tutto questo é di grande libertà.
Questo mi porterò nel cuore.
Mongolia è stato SPAESAMENTO quando sono atterrata all’aeroporto e ho perso una delle poche certezze che pensavo di avere su questo paese: Gengis Khan si chiama Chinghis Khan! E’ stato solo l’inizio di un viaggio in cui è stato necessario abbandonarsi al non conosciuto.
Ulaanbaatar è una capitale giovane, vitale, lanciata verso la modernità occidentalmente intesa, crogiuolo di CONTRADDIZIONI. E fuori dalla capitale, durante il volo verso gli Altai, un INFINITO NULLA!. Quando siamo arrivati a Olghin, dopo meno di un’ora di volo, mi sono ritrovata in un villaggio western. Ma è SEMPRE MONGOLIA.
Dulam, persona cara che ci ha accompagnato in questo viaggio, ci ha regalato innumerevoli racconti della nobile STORIA e delle incredibili TRADIZIONI della Mongolia. Barilà Dulam! Non mi accorgo che sto accumulando notizie che mi riempiono senza che riesca a dare loro un senso e non so se mi piace. Capirò solo dopo diversi giorni che in Mongolia ho sentito e visto l’INIMAGGINABILE e non si può aver fretta di capire, la Mongolia ha avuto per me in qualche modo a che fare con un diverso e più lento trascorrere del tempo, del pensiero e del cuore.
E mi è restato qualcosa di INDIMENTICABILE degli sguardi scambiati con occhi socchiusi e curiosi, dell’azzurro di un cielo che sa di infinito, degli spazi che sembrano non avere confini, di parole incomprensibili scambiate con sorrisi desiderosi di incontri.
Difficile elaborare e ritenere le immagini e le sensazioni più belle della Mongolia.
Forse il viaggiare immerso nei colori con una montagna all’orizzonte, valicarla e trovarne un’altra e un'altra ancora, percependo chiaramente un senso di infinito.
Forse il percepire la simbiosi arcaica territorio-popolazione, con le gher come prolungamento del territorio stesso.
Forse viaggiare trovandosi davanti dieci piste, tutte uguali, tutte diverse.
Penso che visitare la Mongolia sia un'esperienza iperstimolante; la voglia di scoprire, di scollinare, per cogliere nuovi paesaggi, nuovi colori, nuovi accampamenti, nuovi animali allo stato brado, ti prende in modo quasi dopante cancellando completamente la fatica del viaggio, pronto a ripartire ancora per mille giorni con lo sguardo rivolto all’orizzonte.
"Mi ricordo di una uaz russa che sobbalzava nel deserto. Mi ricordo il sapore della sabbia e della terra in bocca, sollevata da chi macinava chilometri prima di noi, e l'odore forte di benzina nel naso. Mi ricordo di questo tramonto rosso e azzurro, su una strada asfaltata ancora in costruzione, che seguiva parallela il nostro sentiero sterrato, verso qualche parte o verso nessuna parte, sui Monti Altai. Su quella strada, avrei corso per ore. Mi ricordo di un motociclista solitario seduto ai bordi del fiume, come un solenne guardiano di quel momento surreale. Mi ricordo il silenzio intorno a noi: la pace indisturbabile del deserto. E in quell'istante ho capito di essere nel Nulla: senza telefono, senza orari, senza meta, senza programmi, senza controllo. Semplicemente andare, correre, non fermarsi mai. Seguire quel fiume come unica bussola; quello è stato per me un momento di perfetta Felicità. Grazie Mongolia per quello che mi hai dato, porterò per sempre un tuo pezzetto dentro di me."
La terra dei sorrisi nascosti
Alcune riflessioni riguardanti un paese che ti toglie la terra da sotto i piedi, ti destabilizza, ti sporca, ti demoralizza, ti rende forte, ti insegna la sopravvivenza, la condivisione e ti sbatte in faccia senza troppi scrupoli il significato vero della vita. L’essenziale.
Terra di un popolo fiero e orgoglioso, primitivo e unico, credi di averla compresa e poi arriva... Spiderman!
In altre parole Mongolia: un paese incredibile, un paese di sorrisi nascosti!
Inutile stare qui a spiegare il paese a livello geografico e politico, esistono guide fantastiche che lo descrivono meravigliosamente bene.
Io oggi vorrei raccontarvi qualcosa che sta sotto e sopra la pelle, qualcosa che ho vissuto, qualcosa che le guide non riportano e anche se spesso, in questo paese, le parole non servono, proverò a farvelo vivere.
Quando si pensa ad un viaggio in Mongolia, un’idea di cosa sarà ce la si può anche fare ma poi solo all’atto pratico, quando percorri chilometri e chilometri in macchina, ti rendi davvero conto di cosa significa la Mongolia!
Capisci quanto tempo della tua vita stai sprecando!!
I chilometri che abbiamo macinato, per poter vistare la terra di Gengis Khan o meglio Cingghis Khan, mi sono serviti ad ascoltare il mio fracasso interiore.
In questo paese c’è sicuramente modo e tempo di pensare, di restare soli con se stessi e sentirsi!
C’è tempo e nello stesso momento... non ce n’è!
La concezione dello spazio tempo in questi luoghi è davvero diversa, dai ritmi scaditi dalla città; qui si vive in una sorta di a-temporalità e a-spazialità! Senza luogo e senza tempo. Mi sono chiesta se Einstein abbia mai visitato la Mongolia prima di elaborare la sua teoria della relatività!
Il tempo e lo spazio, la quarta dimensione, sono davvero relativi.
Qui per salutarsi, e scambiarsi convenevoli, lo si fa davanti ad un tazza di tè con biscotti (fatti di latte di giumenta!), divertendosi e facendo battute, ci si gode il tempo, qui ogni casa ha una sacralità e un rito.
Le immagini scorrono dal finestrino della nostra mitica Toyota Delica, guidata da Bagi, che ci ha portato in giro per tutta la Mongolia in situazioni e strade davvero difficili, dissestate e sconnesse, esattamente come è la mia vita in questo momento.
Spesso mi trovo a vivere fuori strada, senza sapere dove andrò a finire, cercando di evitare le buche più grosse, spesso evitandole ma quasi mai riuscendo a non cascarci dentro, non so mai quale curva dovrò prendere per arrivare al mio monastero sperduto in mezzo ai monti, se mai ne esiste uno…
Il nostro Bagi/driver, invece conosce bene le strade e con la Delica si arrampica (e voglio proprio dire si arrampica) ovunque!
Qui, come dicevo sperimenti un senso di viaggio eterno che puoi vedere sia dal finestrino della macchina che va, sia nei momenti in cui ti fermi per pisciare in mezzo alla natura, in mezzo agli animali.
Le montagne fanno da contorno a questo paesaggio davvero a metà fra cielo e terra, ma non lo limitano. Questi luoghi sterminati spaventano e creano un vuoto incredibile sotto e sopra la mia pelle ma accetti ogni cosa, non puoi fare altrimenti.
Accetti il senso di un viaggio eterno, che all’inizio ti sembra una costrizione, una forzatura, 6 ore in macchina tutti i giorni su quei terreni disastrati, mettono a dura prova... ma poi accetti.
Accetti di non poterti lavare, l’acqua è sacra e non sempre c’è!
Se c’è non la usi di sicuro per lavarti, ma per cose più importi come cucinare. Puoi vivere senza lavarti, ma non puoi vivere senza cibo. Semplice.
Accetti i loro usi, dettati davvero da una netta differenza fra vita e morte, e ti rendi conto di quanto tutto sia così superfluo.
È così bello non avere e non essere!
Accetti.
Accetti il cibo che perde di sapore ad ogni pasto o che ne acquisisce in base a cosa abbia toccato la nostra interprete!
Mi ricordo ancora uno dei primi giorni, in cui, la nostra traduttrice, di cui il nome per me impronunciabile, appena arrivati in una piazzola di sosta, scende fa la pipì dietro un cespuglio, non molto lontano, si tira su i pantaloni e inizia a tagliare la carne che ci mangeremo di lì a poco!
Io la guardo e le dico che ha un bellissimo smalto sulle unghie!
Accettare con gratitudine e leggerezza…
Comunque, dopo 17 giorni di patate, carote, cipolle e carne di pecora o yak, ogni cosa perde di sapore, ma ad ogni pasto sei grato di poter mangiare e le porzioni a testimonianza di questo , sono veramente… so big!
Quindi se per caso avanzi qualcosa, perché le prelibatezze cucinate ti saziano così tanto, nulla viene sprecato, il cibo avanzato viene dato ai cani randagi che ti girano intorno (mentre mangi)!
O magari durante la notte altri animali se ne ciberanno.
L’eterno ciclo della vita non si ferma, una sorta di mors tua vita mea.
La Mongolia non è per tutti, io pensavo di non esserne tagliata e forse non lo sono, ma mi accorgo che le modalità sopravvivenza vissute nell’estrema Mongolia, continuano qui, nella super civilizzata Milano.
Mi accorgo dunque di aver sempre vissuto in questa modalità, forse tutti cerchiamo di sopravvive come meglio possiamo!
Una caratteristica indiscutibile del popolo Mongolo è la sicuramente la capacità di accogliere.
Accolgono davvero tutto, in ogni modo e significato.
Accogliere e accettare fa la differenza fra vita e morte. Un paese davvero estremo.
Spesso, sempre, ogni sera.. durante la nostra avventura, ci è capitato di dover cecare dove andare dormire. Di DOVER cercare un rifugio, una tana per ripararci dal freddo della notte.
Spesso accamparsi con la tenda in zone dove si è esposti ad ogni elemento atmosferico (rileggo ciò che ho scritto nel mio diario di viaggio. Giorno 2: “Siamo sopravvissuti alla notte, lupi e temporale questa notte ci circondavano”). Non è così facile da accettare, a differenza di nostri amici che senza problemi sarebbero stati pronti ad accamparsi, ovunque… anche in una stalla con uno yak morto in fianco!
Come dicevo, dunque per noi occidentali accamparsi con la tenda, con temperature che vanno sotto lo zero è chiedere davvero troppo, il freddo miete vittime, ti entra nella pelle, nelle ossa e ti stringe nella sua morsa, che a volte può essere addirittura mortale.
In Mongolia, cercare un rifugio, s’intente cercare davvero una tana come fanno gli animali, per poter superare la notte. Cercare una gher/yurta, che sarebbe poi la classica tenda bianca abitata dai popoli erranti della steppa che ti permette di riscaldarti vicino ad un fuoco, ti permette di non bagnarti dalla pioggia, ti permette di cucinare e dormire.
Ti permette di sopravvivere. Semplice.
Le gher/yurte sono tende che hanno come copertura del feltro e al centro c’è una stufa, che appena si smette di alimentare... si spegne… ma almeno c’è per qualche ora e se si è fortunati, a volte, si ha anche elettricità!
E ricordo anche che le gher non sono proprio una vicina all’altra, ne senso che se per caso un nomade non può ospitarti, devi percorre un po’ di chilometri per trovarne un altro!
All’inizio tutto questo DOVER cercare ci metteva un po’ d’ansia, ma poi la ricerca è diventata davvero un divertimento. Ci sembrava di essere pirati alla ricerca del tesoro nascosto. Un’isola da scoprire, ecco cosa è diventata. L’ansia è diventata pura gioia... destabilizzante!
Spero che queste foto possano rendere l’idea, sia delle distanze, sia delle gher, sia delle condizioni nelle quali vivono, ma di sicuro non riuscirò ad esprimere la sensazione provata sulla pelle!
Le gher
Un pastore nomade che chiamerò Johnny, perché il suo nome è davvero impronunciabile, durante un notte fredda e senza luna, ci ha ospitato nella sua umilissima tenda, condividendo con noi il suo orgoglio: pecore capre e cavallo.
Noi abbiamo condiviso con lui tabacco, cibo (ho cucinato, in parte io!) e salviettine umidificate!
Come dicevo Johnny è un pastore nomade di 50 anni, ha 70 pecore e 50 capre e un Mori (cavallo) , vive da solo, la figlia studia in Ub City. La sente poco.
È entusiasta di averci lì, ci osserva, esprimendosi a gesti, ci fa capire di sederci per terra con lui, di fianco a lui.
Giusto per specificare due cose: a terra significa sedersi, non sul pavimento come da noi è conosciuto, ma su una tovaglia di plastica, che viene usata come parquet, ovviamente sporco di cacca di cavallo o altro, credo di aver visto anche scarafaggi e ragni girami intorno!
A terra con lui, nel posto d’onore, che di solito è destinato all’altare o al solo padrone della gher.
Velocemente e inorgogliti prendiamo posto in fianco a Johnny, ben consapevoli del grande onore a noi riservato!
Amo questo ometto, con l’occhietto vispo e incuriosito oltre che da noi, come noi da lui, da ogni cosa tiriamo fuori dallo zainetto.
Yuri, il mio compagno, si scioglie ed inizia a rollare sigarette, che poi fumeranno insieme, con il tabacco portato da casa. Johnny è assolutamente ammirato dalle prodezze di Yuri. Fumano insieme e rollano insieme. Questo è uno di quei momenti, che proprio come per spazio e tempo, non è esprimibile a parole.
Ricordo solo che una strana sensazione di malinconia e gioia , ci ha pervaso.
Quindi per ricambiare i regali in tabacco, Johnny, nel pieno della notte, con i lupi che ululano a poca distanza, ci porta fuori con coraggio e dice che vuole farci cavalcare il suo cavallo ( che nemmeno vediamo, essendo tanto buio).
Rientriamo , Johnny prova ad accendere la Tv, ma la batteria buttata per terra non fa contatto e lui stringendosi nelle spalle , ci fa capire il suo pensiero..” non funziona, non importa!”
Tira fuori una preziosissima boccetta nascosta dietro un telo, tabacco da sniffo, che proviamo e lui è felicissimo.
L’interprete e il driver, sono a casa loro. Pacifici e tranquilli.
Johnny ogni 15 minuti esce dalla gher e urla al buio, ci spiega che serve per verificare che i predatori non si avvicinino troppo e per accertarsi che le pecore non scappino.
Farà così tutta la notte.
Johnny e la sua vita
Johnny è un farabutto mi ha rubato un pezzo di anima, di spirito, di cuore.. non lo so ..so che se guardi bene nelle foto, fra le caprette, fra i sacchi a pelo, vedrai che un pezzo di me è ancora lì!
Un altro pezzo di me è rimasto lì nel momento in cui prima di andarcene con la nostra lussuosissima auto, Johnny si è allungato dal finestrino della macchina per stringerci la mano , per non lasciarci andare con la triste consapevolezza che non ci saremmo mai più rivisti.
Maledetto Johnny!
Un addio da film strappalacrime.
Ma questa è la terra dei sorrisi nascosti. Se li osservi bene, si vede. Si vede come l’inarcatura delle loro labbra pur tendendo verso il basso, nasconde felicità.
L’ho visto fin dal primo momento che ho conosciuto un ragazzo mongolo e che ci ha parlato della sua casa.
Eravamo in aereo, stava tornando a casa, era seduto vicino a noi. Ho visto quel sorriso nascosto anche mentre dormiva.
Un popolo fiero, figlio della Lupa e del temibile Gengis Khan.
Di storie da raccontare ne ho davvero molte.
Dalla gentilissima famiglia composta da 3 figlie femmine e un maschio, e chissà quanti altri figli nella steppa, che ci hanno ospitato per un pranzo, per un momento di divertimento aggiustando la bici della bambina, condividendo con noi un pezzo della loro vita.
Alle famiglie più rudi, della valle dell’Orkhon, che ci hanno offerto comunque il loro cibo, intestini e cervelli alle 10.00 del mattino.
E poi ANAR, il vero figlio di Gengis Khan, con lui abbiamo condiviso ben 2 notti insieme.
Eravamo fratelli!
Yuri, con i fratelli maggiori ha persino combattuto come si fa durante il Naadam!
Ogni mattino, con gli occhi ancora incrostati dalla notte, senza fare colazione o lavarsi i denti , giocavamo insieme a bombog, palla.
ANAR e i suoi amichetti ,Toc Toc e Spiderman, mi hanno anche insegnato a giocare ad un gioco davvero incredibile. Le pedine sono fatte di ossa di animali e lanciandoli sul tavolo, in base alle varie combinazioni che ne uscivano, si facevano punti.
Un po’ per ricambiare, un po’ perché regalare un leccalecca ad un bambino è sempre un piacere, abbiamo donato ai tre demonietti, un pacchetto di dolci a testa con tre leccalecca inclusi nella confezione ed una sorpresa.
Tutti in Mongolia, accolgono i doni a mani aperte. Non prendono nulla. Accolgono.
Bayarlalaa, in mongolo significa grazie. Questo l’ho ben compreso.
Il piccolo Spiderman, per ringraziarci del regalo, ci ha ridonato un leccalecca dei suo. Noi abbiamo provato a dirgli di tenerlo per se, ma lui si è offeso, così ce lo siamo mangiati con lui.
Bayarlalaa
Quando pensi di aver capito... non hai capito proprio nulla.
Ecco i nostri amici Mongoli, con loro abbiamo condiviso tutto, tutto quello che si vede e quello che non si vede.
DENSAMENTE SPOPOLATA È LA FELICITA'
Ma cosa ci vai a fare in Mongolia? In troppi mi hanno fatto questa domanda, quindi ho pensato a tutto quello che avrei perso se non ci fossi andato. Perché la risposta non è poi così scontata come sembra. Hai letto quello che hai potuto, hai fatto le tue ricerche, sei affascinato dal pensiero di questa terra così lontana, così aliena e di cui così poco si parla. Ma finché non parti non avrai una risposta realmente plausibile per questa domanda. Quindi aspetti di tornare per ripercorrere il fiume di emozioni che ti ha travolto quando eri laggiù. Nel frattempo la mente fa un enorme salto indietro al 1997, quando i fondatori dei CSI, Ferretti e Zamboni, riversarono in musica i loro pensieri al ritorno da un viaggio in terra mongola e il risultato fu il sorprendente album “Tabula Rasa Elettrificata” per descrivere una terra dove “tutto o quasi è al fine raso al suolo, con sopra dell’elettricità”. Da una delle canzoni di quell’album – “Bolormaa” – prendo in prestito le parole per il titolo di questo post perché credo che niente riesca a racchiudere meglio la Mongolia dell'espressione "densamente spopolata è la felicità". E proprio da questo concetto, semplice ed esaustivo come solo i mongoli sanno essere, inizia la mia dichiarazione d’amore per questo Paese. In Mongolia imparerai a lasciare andare lo sguardo ben oltre i confini della tua immaginazione e penserai che l’infinito esiste davvero. Qui abbandonerai finalmente tutto quello che per te è ormai superfluo, e lascerai spazio allo spazio,ad un vuoto che non ha bisogno di essere colmato.
Perderai molte parole e imparerai ad apprezzare il silenzio. Ti sentirai lontano da tutto e da tutti, e riuscirai a dare un senso alla tua solitudine cercando di immedesimarti nella loro. Resterai senza fiato di fronte a quegli spazi immensi e proverai ad associare il concetto di essenziale a quello di libertà. Guarderai i bambini a cavallo e sognerai di essere uno di loro, sognerai di sentirti così per sempre.
Ti perderai dentro una gher (la tradizionale casa-tenda dei mongoli) e rimarrai incantato dalla quantità di cose che potrai trovarci. Osserverai i dettagli e penserai a tutta la cura e il tempo che ci sono voluti per fare di quei venti metri quadrati un universo che contiene le loro vite. Conoscerai i monaci dell’Amarbayasgalant e ti farai inebriare da quei forti profumi di incenso. Dividerai il tuo pasto insieme ai nomadi e sorriderai davanti alla loro timidezza.
Odierai la ferocia con cui la Mongolia ti metterà di fronte a te stesso, lasciandoti tutto il tempo e lo spazio per confrontarti con la persona che sei veramente. Camminerai, guiderai, cavalcherai per ore ed ore in mezzo al nulla che pian piano si tramuterà nel tutto più assoluto. E capirai cosa vuol dire davvero l’espressione “densamente spopolata è la felicità”.
Solo dopo aver provato tutto questo, solo dopo esserti affacciato su questo infinito, soltanto allora ti renderai conto che la Mongolia faceva già parte di te ancor prima di partire. E così, alla fine della giornata, chiuderai gli occhi e ti sentirai a casa.
“Ma perché proprio la Mongolia?”: ce lo hanno domandato amici, colleghi e parenti. La Mongolia inizia tanto tempo fa, per ragioni non meglio definite ma che hanno a che fare con la curiosità verso modi di vivere e paesaggi lontani da quelli a noi usuali. A un certo punto arriva il richiamo e occorre partire, anche se non si è viaggiatori provetti o non si è ancora visitato Roma. Paolo può affermare di essere stato a Ghinghis City ma non a Roma: è fantastico! Per entrambi non si è trattato solo di visitare luoghi incredibili, ma di mettersi alla prova in situazioni completamente nuove, anche per tentare di superare certe paure… È stato un viaggio faticoso, nuovo sotto tanti punti di vista, e il bello è che non finisce, ti ci ritrovi dentro anche quando attraversi i boschi della brughiera briantea!
Uno degli aspetti più belli è stato abbandonare il tradizionale senso dell’orientamento: abbiamo perso “la strada” per ritrovarci su piste talvolta solo abbozzate. Abbiamo percorso centinaia di chilometri su un minivan coreano: la steppa era il luogo dei picnic e delle pause fisiologiche… L’erba era profumata e morbida…
Sebbene la religione prevalente in Mongolia sia il Buddismo, sono ancora presenti i segni di uno sciamanesimo mai realmente abbandonato: tre giri in senso orario e un sasso come dono affinché gli spiriti proteggano il nostro viaggio (anche una banconota da 500 tugrug è ben accetta!).
Tsagaan Suvarga
A un certo punto non si sa dove volgere lo sguardo, tanta è la meraviglia che si prova. Più volte capitava di chiudere gli occhi: allora sentivi di essere soltanto tu e il vento. È stato bello inoltre scoprire di avere compagni di viaggio sintonizzati sulla tua stessa lunghezza d’onda: del resto, se si sceglie di andare in Mongolia, è probabile che si scopra di essere alquanto affini.
Yoliin am
Eccoci qua, negli spazi immensi e in una natura che si lascia vivere per quella che è. Si avverte un che di sacro, di saggezza e di inesorabilità: è bello sentirsi allo stesso tempo infinitamente piccoli e magicamente presenti in ogni spazio.
Khongoriin els
Non ce l’abbiamo fatta a raggiungere la cima! Il fisico fuori allenamento ha avuto la meglio… Pazienza… Un buon motivo per tornarci? Non crediamo… Però arrendersi ha voluto dire farsi tante risate e riposare sulle sabbie del deserto del Gobi al tramonto in attesa dei nostri valorosi compagni di viaggio che invece ce l’hanno fatta! Qui si perde proprio la dimensione temporale: è come se millenni di storia si fossero compressi e non avessero portato se non a noi lì, insieme ai disegni dei nostri genitori preistorici, a dirci la meraviglia di esserci.
Bayan Zag
Visitato al tramonto, questo luogo non ha confini. Qui sono stati ritrovati i più importanti fossili di dinosauro del pianeta. Calpestiamo la stessa terra rossa in cui sprofondavano questi animali giganti… Sembra che la terra continui a spaccarsi, a subire le scosse che danno vita a forme insolite, simile a un Gran Canyon… Ma non siamo negli Stati Uniti… La presenza di pochi turisti aiuta a godersi i secondi che portano al calare del sole: chissà come deve essere al buio più completo… In compenso ci ricorderemo di sciami e sciami di zanzare…
Karakorum. Monastero di Erdene-zuu
Della capitale dell’impero di Gengis Khan resta poco; intorno a quello che rimane del glorioso passato è bello usare l’immaginazione, farsi circondare dallo stesso vento che ha accompagnato la costruzione del più grande impero al mondo. E per la prima volta assistiamo alla preghiera dei monaci buddisti, scoprendo così un rito religioso completamente differente da quello cristiano, dove oltre a cantare si può sorseggiare una tazza di ayrag o mangiare una ciotola di riso… I nomadi sono bambini. Sono ospitali. Ci offrono da mangiare e da bere (i sapori sono acidi, faticosi). Noi offriamo loro pennarelli, quaderni e Didò.
Vivono nella natura. Allevano. Raggruppano mandrie di cavalli. Guardano la televisione. Le loro gher proteggono dal caldo e dal vento.
I nomadi sorridono.
Tempio di Onghiin Khiid
Silenzio. In una valle verdissima i resti del principale monastero del Gobi dove un tempo vivevano centinai di monaci.
Al risveglio nella nostra gher ci è venuto a trovare un rospo…
Il Nadaam è una festa ben strana ai nostri occhi: istituita da Gengis Khan, per i Mongoli rappresenta l’indipendenza. Tre discipline: corsa dei cavalli, lotta libera e tiro con l’arco. Il luogo in cui ci siamo recati la prima volta per assistere alle celebrazioni ci ha impressionato negativamente: una sorta di gigantesca fiera popolare dove non accade nulla o con tempi luuuunghi, circondati da distese di auto e di bancarelle cinesi. Per fortuna abbiamo potuto gustare una cioccolata e riconciliarci con sapori conosciuti! Assistervi invece in un piccolo paesino nella terra di Ghinghis ci ha restituito un’atmosfera completamente diversa: abbiamo ricevuto il benvenuto addirittura dal “sindaco” locale.
Ulan Bator. La capitale.
Abbiamo conosciuto la capitale in tre tempi diversi. Appena atterrati abbiamo visitato “Gandan”, il monastero più importante della città (ma non il più bello come abbiamo avuto modo di scoprire alla fine del nostro viaggio: per noi il più bello resta “Chojin Lama”). Certamente è una grande città in cui convivono tante anime diverse: ci sono ancora molti abitanti che vivono nelle gher in periferia; ci sono i grattacieli moderni; il traffico moderno… Eppure ci sono un cielo e un vento che arrivano dalle steppe e che ti fanno ricordare quanto il concetto di città sia molto molto relativo.
IN BICICLETTA IN QUELLE TERRE MAGICHE E SILENZIOSE
È il 30 agosto 2016 quando, dopo mesi di preparativi a studiare il percorso e tutto l’occorrente necessario, io e la mia bicicletta atterriamo nella capitale mongola di Ulan Bator. Come già per altri viaggi di questo genere l’inizio non è il momento in cui parto verso la meta prefissata, ma quello in cui cresce in me il desiderio, il sogno di visitare quei luoghi. E così sono tante le notti passate a studiare il percorso migliore e più appagante, le liste spulciate di continuo per cercare di non rendere il bagaglio un fardello insostenibile, il vestiario più adatto a sopportare giornate roventi e notti gelide, il cibo liofilizzato che ahimé farà schifo ma rimane indispensabile a reintegrare l’enorme quantità di calorie bruciate, la logistica dell’acqua, e perché no, un po' di chilometri nelle gambe prima della partenza che aiutano sempre. Per cui scelta la rotta uscirà fuori che dovrò pedalare per settecentocinquanta chilometri di cui duecentocinquanta di strade asfaltate e cinquecento di piste sterrate. Beh tutto sommato niente di così estremo. Anche perché, non avendo mai viaggiato al di fuori dell’Europa, in un Paese che a farla breve è un enorme deserto, non era tra i miei progetti quello di segnare un record o fare del mio viaggio una prestazione sportiva o peggio esagerare nella scelta del chilometraggio e non riuscire a portare a termine il giro, con conseguenze che con voglio immaginare.
Sarebbe stato un “normale” viaggio in bicicletta, in solitaria come ne ho già fatti altri. Con mio grande piacere, perché alla fine chi intraprende certe esperienze gode di determinate situazioni che vanno al di fuori della nostra comfort zone a cui siamo abituati, questa mia piccola avventura non ha avuto nulla di normale. Non voglio avere la pretesa di parlare di questo Paese come se ci vivessi da sempre, per cui mi limiterò a raccontare quello che mi ha trasmesso e le sensazioni che ho provato.
La Mongolia è anche il caos impazzito della Capitale, ma appena si esce da quel groviglio di strade e grattacieli l’immenso cielo azzurro si fa spazio e fa da sfondo ad enormi vallate verdi, punteggiate solo ogni tanto dalle gher dei pastori nomadi, i quali un po' intimiditi e un po' incuriositi, da un ragazzo che da solo se ne va in bici per la steppa, mi hanno sempre dato ospitalità con naturalezza e spontaneità. Nel mio viaggio ho potuto apprezzare giorno per giorno, con lentezza i luoghi che attraversavo. Luoghi talmente grandi da perdersi all’orizzonte, da mettere soggezione e un po' di timore. Anche perché ben consapevole del fatto che in caso di bisogno nessuno sarebbe stato in grado di venirmi a recuperare. Per cui il mio grado di attenzione in questi tredici giorni di pedalate, nel cercare di evitare rotture alla bicicletta e nell’evitare di ammalarmi, è sempre stato molto alto. Tra l’alimentazione a base di latticini, l’acqua pescata dai fiumi (filtrata ovviamente) e la differenza di temperatura tra giorno e notte (+35°C di giorno -6°C di notte) non era così improbabile che potessi ammalarmi. Ed infatti così è stato. Per fortuna un po' di esperienza e la classica tachipirina, nel giro di una notte hanno fatto il loro lavoro e tutto si è sistemato.
Di fronte ad una natura tanto straripante comprendi la piccolezza dell’essere umano e ti rendi conto di quanto straordinario sia stato questo Popolo nell’adattarsi perfettamente a condizioni così estreme (anche -50°C d’inverno). Il silenzio che si ode tra queste valli è qualcosa che non vorresti interrompere neanche col tuo respiro, un incantesimo che ti rapisce. Vivi in perfetta simbiosi con la natura, circondato dell’essenziale. Ascolti i versi degli animali, il soffiare del vento e la pioggia che cade. E quando accade, ne so qualcosa, le piste si allagano creando veri e propri ruscelli, fango dove affondi fino alle ginocchia, pozze che sembrano laghi, fiumi che si gonfiano. E tu con la tua bicicletta stracarica non puoi far altro che mettere le ciabatte e spingere, spingere e ancora spingere, pregando che presto la strada torni pedalabile. In alternativa troverai strade sabbiose o peggio tanto sabbiose dove, anche se sei in piano, se ti va bene potrai pedalare a 5 km/h di media o se no spingere. In definitiva non posso certo dire di essermi annoiato in quei giorni fatti di fatiche e sconforto per le difficoltà nel pedalare su quelle strade. Il timore delle notti passate solo in tenda, circondato dal nulla e la paura che qualche oscura presenza potesse disturbare il mio riposo. Sempre però sotto una volta stellata che non ha eguali, un’emozione indescrivibile e che non si cancellerà mai dai miei ricordi. Albe e tramonti infuocati. La luna piena che riflette la sua luce argentea sulle acque calme e scintillanti del terkhiin tsagaan nuur. Il mugghiare degli yak che quasi mi entrano in tenda nelle prime ore del mattino a volermi dare il buongiorno o meglio attratti dal profumo della colazione a base di pasta e carne liofilizzata. I tantissimi fiumi da guadare (un vero incubo!) col ripetersi dei soliti gesti: togli le scarpe e costeggia il fiume alla ricerca di un punto non troppo profondo e una corrente che non si porti via te e la bicicletta con tanto di bagagli. Le grida e i sorrisi dei bimbi che abitano le gher. Con la pelle cotta dal sole, i capelli lunghi e scompigliati, il nasino che cola di chi vive sempre all’aperto, e quell’ingenuità e spensieratezza tipica di ogni bambino ma che qui pare ancora più accentuata. La preghiera dei monaci buddisti. Rapaci di ogni genere che ti accompagnano lungo il percorso come fedeli gregari di una corsa ciclistica. L’enorme bocca del vulcano Khorgo dalla cui sommità sembra di essere atterrati su Marte. Una vista che spazia su una vallata completamente ricoperta da uno spesso strato di lava dalla quale spuntano abeti dalle sgargianti sfumature gialle, verdi e rosse. Cani enormi e mezzi selvatici che al mio passaggio corrono dietro al mio mezzo e non mi mollano fintanto che non esco dal loro territorio, che nel caso specifico può anche essere di qualche chilometro. Allora mantieni la calma, cerchi di non guardarli negli occhi, respiri profondo e prosegui.
È stata un’esperienza che mi ha dato tanto, forse più di ciò che mi aspettassi. Un concentrato di emozioni, difficoltà sia a livello fisico ma anche comunicativo, logistico. Un’esperienza completa sotto tantissimi punti di vista che ha arricchito il mio bagaglio personale. Ventotto giorni non sono ovviamente sufficienti a comprendere tutti gli aspetti e le sfumature di questo enorme Paese, sono giusto un’infarinatura. Vissuto però in questa maniera, come ogni volta, amplifica le emozioni al quadrato, anzi no al cubo.
Hai quasi la sensazione di conoscere quei luoghi da sempre, ti senti anche tu un po' un nomade che con lentezza attraversa quelle magiche terre sconfinate e silenziose. Vorrei ringraziare l’azienda di abbigliamento tecnico “Galaxi Campobase” di Gattinara che mi ha fornito tutto l’abbigliamento necessario per questo viaggio e la redazione di “Gattinara-online” che nel sito www.gattinara-online.com ha pubblicato e curato giorno per giorno il mio diario di viaggio.
Un anno fa avevamo scritto a mongolia.it per descrivere l'idea mia e di altre 3 amici di intraprendere un viaggio in auto dall'Italia alla Mongolia con il nostro Gengis Van Team. La piccola grande impresa è stata portata a termine con successo, e, dopo alcuni mesi necessari per recuperare le forze e mettere in ordine il materiale, abbiamo organizzato un evento che conclude questa esperienza durante il quale il nostro fotografo Lorenzo Monacelli ha illustrato i paesaggi che abbiamo attraversato.
Questa però non è l'unica idea alla base dell'evento. Entrati in Mongolia infatti siamo stati ospitati da una famiglia a Tsagaannuur. Oltre alla loro incredibile ospitalità ci colpii la più piccola della famiglia, una bambina di appena 3 anni di nome Mariam. La piccola purtroppo ha subito una brutta ustione alle mani che, cicatrizzandosi, le si sono chiuse intrappolandole le dita.
Abbiamo preso molto a cuore la sua storia e una volta tornati abbiamo deciso di aiutarla a pagare l'operazione di cui ha bisogno. I proventi dell'evento infatti saranno mandati direttamente alla sua famiglia.
Il libro "Mongolia, l'ultimo paradiso dei nomadi guerrieri" (di Federico Pistone, edizione Polaris) ci ha guidati all'interno del territorio mongolo e ha avuto una grande importanza per il nostro viaggio.
La nascita di Gengis Van
Gengis Van è il nome del team formato da quattro venticinquenni in cerca di avventura: Manlio, Luca, Lorenzo e Marco. Formatosi nell’ottobre del 2014, spalleggiato e sostenuto da una nutrita schiera di amici, conoscenti e simpatizzanti, ha lavorato per 10 lunghi mesi con l’obiettivo di prendere parte ad un’impresa epica… il Mongolia Charity Rally, una corsa automobilistica non competitiva organizzata dalla Onlus inglese Go Help. Le regole sono poche e semplici: ogni team deve raccogliere almeno 1300 € da destinare ad un progetto di Go Help, deve munirsi di un veicolo con determinate caratteristiche da donare all’arrivo, e infine partire alla volta di Ulan Bator, capitale della Mongolia. L’itinerario è libero, l’unico imperativo è giungere a destinazione tra l’inizio di agosto e la fine di settembre. Lo scopo dell’iniziativa è intuibilmente benefico: grazie alla nutrita partecipazione di team da tutto il mondo, Go Help riesce infatti a trasferire in Mongolia veicoli utili alla comunità locale nelle scuole (scuola-bus e pulmini), negli ospedali (ambulanze) o nelle normali attività lavorative (furgoni e pick-up), finanziando al contempo i propri progetti in ambito sanitario e di istruzione. Il Gengis Van Team ha preso parte all’ultima edizione contribuendo all’acquisto di un lotto di terreno nella periferia di Ulan Bator dove sorgerà la seconda Book House di Go Help, un luogo di apprendimento e di svago per i bambini nonché un punto di incontro e di confronto per gli adulti.
L’organizzazione
La scelta dell’itinerario, la ricerca della macchina e la raccolta dei fondi hanno tenuto occupati i membri del Gengis Van Team dalla prima metà di ottobre fino ad un minuto prima della partenza. Grazie a una campagna di fund rising, ad una generosa sponsorizzazione (Whoosnap s.r.l.) e soprattutto a svariati eventi in diversi luoghi della capitale che hanno coinvolto gruppi musicali, dj, un collettivo teatrale e un nutrito seguito di amici e simpatizzanti, sono stati messi insieme più di 19.000 €. Di questi, 10.000 euro, frutto di donazioni, sono stati destinati alle spese relative all’acquisto ed al trasferimento del mezzo nonché alla donazione per Go Help, e i restanti 9.000, sono stati messi dai componenti del team per coprire le spese di viaggio personali.
Il viaggio in pillole
40 giorni. Partenza da Roma il 3 agosto – Arrivo a Ulan Bator il 6 settembre – Ritorno a Roma 11 settembre
11 Paesi attraversati (di cui alcuni 2 volte). Nell’ordine: Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Georgia, Russia, Kazakhstan, Uzbekistan, Kyrgykistan, di nuovo Kazakhstan, ancora Russia e infine Mongolia.
36 località visitate. Nell’ordine: Zagabria (Croazia), Belgrado (Serbia), Guka (Serbia), Svilengrad (Bulgaria), Istanbul (Turchia), Goreme (Turchia), Ihlara Valley (Turchia), Maçka (Turchia), Sumela Monastery (Turchia), Trabson (Turchia), Batumi (Georgia), Tibilisi (Georgia), Stepantsminda (Georgia), Stavropol (Russia), Astrakhan (Russia), Atyrau (Kazakhstan), Beyneu (Kazakhstan), Kungirot (Uzbekistan), Bukara (Uzbekistan), Samarcanda (Uzbekistan), Namangan (Uzbekistan), Toktogul (Kirghizistan), Lago Ysyk Kol (Kirghizistan), Caryn Canyon (Kazakhstan), Torkent (Kazakhstan), Ayagoz (Kazakhstan), Rubtsovsk (Russia), Onguday (Russia), Koš-Agač (Russia), Tsagaannuur (Mongolia), Ulaangom (Mongolia), Numrug (Mongolia), Moron (Mongolia), Ulan Bator (Mongolia), Amarbayasgalant Monastery (Mongolia), Kara Korum (Mongolia), Ulan Bator (Mongolia).
16.000 chilometri percorsi.
790 litri di carburante consumati.
1.300 € donati per la costruzione della seconda Book House, più una scatola di medicinali, qualche maglietta e varie attrezzature.
Un Pick-up TATA Telcoline 2000cc anno 2006 consegnato in perfette condizioni.
Missione compiuta
L’11 settembre 2015, dopo un viaggio in auto di 40 giorni da Roma (Italia) ad Ulan Bator (Mongolia), i quattro componenti del Gengis Van, unico team italiano dell’edizione 2015 del Mongolia Charity Rally, hanno fatto ritorno a casa dopo aver portato a termine tutti gli obiettivi di quest’impresa organizzata dalla onlus inglese Go Help:
- 1.300€ donati per contribuire all’acquisto del lotto di terreno dove sorgerà la seconda Book House di Ulan Bator; un luogo di apprendimento e di svago per i bambini nonché un punto di incontro e di confronto per gli adulti;
- Un pick-up TATA Telcoline 2000cc anno 2006 portato in Mongolia in perfette condizioni per essere donato alla popolazione locale.
Per leggere il blog ufficiale del viaggio: http://www.gengisvan.com/blog/
Dall’11 luglio al 9 agosto 2015, abbiamo finalmente realizzato un viaggio in Mongolia a lungo rimandato. Quest’anno, abbiamo colto al volo la facilitazione derivata dall’eliminazione del visto d’ingresso, un passo avanti anti-burocrazia sempre incoraggiante per i viaggiatori.
PRIMA DELLA PARTENZA
Attraverso il portale www.mongolia.it abbiamo contattato Federico Pistone e Dulam Sorogdorj. Quest’ultima ci ha aiutato a pianificare e ottimizzare i 30 giorni sulla base delle nostre esigenze (un problema di mobilità di Maurizio) e tempi (lenti). Tutto è risultato ben organizzato e perfettamente affidabile, per cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti a Federico, Dulam e ai loro collaboratori locali sempre gentilissimi, sorridenti e disponibili.
UNA MENZIONE SPECIALE
La merita senza dubbio il nostro autista [nella foto 1 lo vediamo mentre prepara il primo pranzo pic nic]. Ci spiace non averne memorizzato il nome, ma ricorderemo sempre l’aiuto che ha dato a Maurizio, il suo modo di prendersi cura di noi, la sua forza di spirito nel trovare soluzioni, il sorriso (un po’ burlone), la pazienza. Una sorta di angelo custode 24H. Peccato parlasse solo mongolo; sarebbe stato bello poter sapere di più di lui, anche se, in verità, abbiamo comunicato lo stesso attraverso gesti, espressioni e i piccoli glossari che ci sono nei libri che avevamo con noi. Per quanto riguarda aspetti più ‘tecnici’, in alcune occasioni abbiamo approfittato delle guide di altri turisti che parlavano inglese.
LA SCELTA DELL’ ITINERARIO
Come letture pre-viaggio abbiamo utilizzato il bel libro di Federico Pistone e la classica Lonely Planet. Come detto sopra, abbiamo preso contatto con Dulam alcuni mesi prima della partenza e via e-mail abbiamo fissato un itinerario che ci ha fatto percorrere intorno ai 3.500 km [foto 2].
Di seguito elenco solo i nomi dei luoghi dove abbiamo pernottato accompagnati da alcuni brevi appunti. Ma poi sono stati innumerevoli gli stop nei villaggi, nei monasteri o nelle gher dei nomadi e gli incontri memorabili che hanno condito l’avventura quotidiana delle 5, 6 e anche 7 ore sulla strada.
Ulaanbaatar: avevamo scelto intenzionalmente di arrivare proprio nei giorni del Naadam perché ci incuriosiva il clima festivo che si respira in città; in effetti, pensiamo che ne valga la pena. La sera, in Piazza Sükhbaatar abbiamo assistito al primo di una serie di spettacoli di musiche e canti mongoli che avremmo visto durante il viaggio [foto 3]
Khui doloon khudag: una spianata a 35 km dalla capitale, anche qui un Nadaam gioioso e pieno di spunti insoliti
Amarbayasgalant: il nostro primo monastero in Mongolia; secondo noi, quello di maggior effetto emotivo e paesaggistico [foto 4]
Uran Togoo: un vulcano spento; una tappa interessante per l’ambiente naturale, in attesa del meglio che sarebbe arrivato più avanti
Mörön e le pietre cervo di Uushigiin Uver: colpiscono i tetti colorati di queste cittadine che spuntano dalla steppa; il sito delle pietre cervo va assolutamente visitato [foto 5]
Lago Khövsgöl: certamente affascinante, ma a noi è piaciuto molto di più il seguente
Lago Zuun Nuur: un posto paradisiaco, nel nulla, tra capre, yak e pastori locali che ci hanno mostrato con orgoglio le loro prede; unici ospiti nel campo gher, ci siamo sentiti totalmente avvolti dalla pace
Lago Terkhiin Tsagaan e vulcano Khorgo: zona piuttosto affollata di turisti locali; l’estremità est del lago (quella più vicina al vulcano) e la vastità di lava nera osservata al tramonto dalla cima del cratere sono mozzafiato
Taikhar Chuluu: una formazione rocciosa nel nulla per noi di scarso interesse in sé, ma un luogo ideale per fotografare i festosi gruppi di turisti mongoli che si fotografano in sella agli yak
Tsetserleg: da qui comincia un crescendo inarrestabile verso il climax del viaggio; oltre al museo dell’Arkhangai, va visitato il monastero sulla sinistra (Buyandelgerüülekh), dove i monaci cominciano le preghiere alle 11 e sono straordinariamente cordiali
Lago Ögii Nuur: bello, ma l’accampamento era infestato dalle zanzare; la cosa buffa è che non pungono e sono del tutto innocue; sulla strada verso Kharkhorin, va visitato il nuovo museo finanziato dalla Turchia (di colore azzurro, in mezzo al nulla) che conserva i reperti originali del monumento di Kul-Teginii
Kharkhorin: siamo rimasti qui quattro giorni anche perché ci siamo imbattuti nel Naadam (dal 24 al 26 luglio) più grandioso della Mongolia; le persone, gli eventi, i giochi, i canti e le coreografie della festa inaugurale non danno tregua, veramente non si sa da che parte girarsi e che cosa guardare!! Ancor più avvincente lo spettacolo serale di danze cerimoniali all’interno del monastero Erdene Zuu
Arvaikheer: dove si può toccare con mano la vita tranquilla di una cittadina di provincia; ne sono un esempio i giochi per bambini nella piazza principale, in totale contrasto con il suo monumentale e solenne Palazzo del Governo
Ongiin Khiid: un posto pieno di fascino; non si dovrebbe perdere l’occasione di alloggiare al Secret of Ongi Tourist Camp, che offre gher ‘principesche’ rispetto alla media
Bayanzag: dove domina il colore rosso in tutte le sue sfumature; in una pozza d’acqua sotto una delle rupi vanno ad abbeverarsi più volte al giorno mandrie di cammelli e migliaia di capre e pecore che arrivano al galoppo con un gran frastuono che si sente da lontano
Khongoriin Els: un posto mitico che merita almeno due giorni [foto 6]; da non perdere non solo la salita sulle dune, ma anche il percorso lungo la loro base per qualche chilometro di lunghezza; per passare dalla zona dei campi gher al percorso sotto le dune bisogna guadare un corso d’acqua
Yolyn Am: la valle (molto verde) è carina, ma la quantità di ghiaccio deludente
Tsagaan Suvarga: impressionanti calanchi che vanno visti sia dall’alto che dalla loro base (anche se con il Furgon è come andare sulle montagne russe)
Baga Gazriin Chulu: è un territorio molto vasto di rocce granitiche che ricorda molto da vicino alcune zone centrali dell’Australia; un paesaggio stupefacente
Malinconico rientro a Ulaanbaatar e da lì: visita alla statua di Genghis Khaan (assolutamente da non perdere il museo di reperti unni nelle sale sotterranee), al Parco Nazionale Terelj (piuttosto deludente) e al tempio Aryapala.
I giorni passati nella capitale sono stati dedicati ai musei (ma quello di Storia Naturale è chiuso per restauro, quindi non abbiamo potuto vedere gli scheletri di dinosauri, purtroppo) e al Gandan Khiid. Merita la salita al Zaisan Memorial per godere di una panoramica di UB e osservare la sua incessante (e forse inutile) crescita urbanistica. Inoltre, raccomandiamo lo spettacolo (alle 16.00 e alle 18.00 tutti i giorni) della compagnia Tumen Ekh, di cui fa parte questa splendida contorsionista [foto 7]. Da ultimo, ci è capitato di assistere a una cerimonia istituzionale in mezzo al gran entusiasmo dei cittadini mongoli [foto 8].
VEICOLO
Abbiamo optato per un ‘Furgon’ russo per noi due soli. Il veicolo è spazioso, ma privo di sospensioni, per cui si soffre per ogni singola buca (cioè per quasi tutto il percorso); in Mongolia circola questo detto sul Furgon: “il miglior veicolo per la strada, ma drammatico per i passeggeri”.
CIBO
Si mangia bene. A UB ci sono ristoranti etnici di tutte le nazionalità. Le porzioni sono sempre molto abbondanti. Nei campi gher hanno ristorantini buoni e affidabili. Quando ci si ferma per una visita, i nomadi fanno assaggiare i loro prodotti; noi abbiamo apprezzato particolarmente i biscotti di yogurt [foto 9] messi ad asciugare sotto l’apertura della gher.
FOTO
Come dice Federico, non c’è bisogno di sforzarsi. È impossibile scattare brutte foto. Noi abbiamo anche filmato molto e fatto numerose registrazioni audio, anche durante le preghiere nei monasteri. Non abbiate timore per la ricarica delle batterie: tutte le gher hanno elettricità o il generatore proprio che funziona, in genere, dalle 22 alle 24. Non abbiamo mai usato le batterie di scorta.
PERSONE E LUOGHI
Difficile descriverli tanto sono belli e, per fortuna, lontani dalla nostra quotidianità. Secondo noi, quello in Mongolia è un viaggio necessario. Fa bene agli occhi (stanchi e saturi di noi occidentali) e allo spirito. In estrema sintesi, quello in Mongolia è stato per noi un viaggio alla ricerca del vuoto [foto 10]. Un’esperienza che, per l’entusiasmo del prima, del durante e del dopo, fa rivivere le avventure di 30 / 40 anni fa, spartane e prive di tecnologia, ma piene di emozioni sconvolgenti.
LE COSE PIU' BELLE
Profumo dell'erba
Aquile, falchi, scoiattoli
Colori dell'autunno
Spazi sconfinati
Gli yak che giocano
La stufa nella gher
I cavalieri
Le moto (come nel film "Giù la testa")
Ma quanto aglio selvatico c'è nel Gobi?
La cucina ci ha sorpresi!
Dormite nella gher...
Le capocciate entrando nella gher...
Nella magia di un filmun po' spettatori, un po' protagonistiCaro Federico, siamo partiti per la Mongolia con il cuore aperto, e siamo tornati pieni di emozioni, siamo partiti pensando di essere preparati e nonostante tutto ci siamo stupiti, avevamo delle piccole speranze di conoscere e vivere scene di vita vera, e ci siamo ritrovati dentro la magia di un film, un po' spettatori e un po' protagonisti.Adesso capisco perchè mi hai scritto "sono emozionato per te", perchè tu sapevi quello noi ancora non sapevamo. Dulam e la sua squadra sono stati fantastici; avevamo una guida molto riservata, che un po' sottovoce, come siamo noi, ci ha fatto vivere esperienze meravigliose. Abbiamo avuto la fortuna di essere a Kongoryn Els il 15 agosto per il piccolo Nadaam, di parlare con un monaco a Erdene Zuu e di visitare una sciamana nella zona del lago Kugsvgul.Ti confesso che per entrare nello spirito mongolo speravo di vivere qualche piccolo imprevisto anche con l'auto... e anche in questo siamostati ampiamente accontentati.Caro Federico, grazie! Perchè ci sono vari modi per visitare un Paese e noi abbiamo avuto la fortuna di avere incontrato, grazie a te, lepersone più adatte al nostro modo di essere e al nostro desiderio di viaggio.Ti allego la prima foto che ci ha riempito di gioia e allo stesso tempo fatto commuovere: al lago Kugsvgul, in una festa di paese, un cameraman locale ci ha visto e poi ci ha chiamato e ci ha fatto fare la foto con dei wrestler... è stata un'emozione intensa perchè non avremmo mai chiesto tanto.A questa emozione ne sono seguite altre.Un abbraccio e davvero Bayarlalla!!Luana e Alberto
La Mongolia in camper 24.415 chilometri dal 30 giugno al 24 agosto
La MONGOLIA: un viaggio sognato, programmato e preparato da molto tempo, con informazioni avute alla BIT di Milano, molte scaricate da internet e dalle numerose guide cartacee tra le quali: Mongolia, Lonely Planet; Mongolia di Jeane Blunden ed. Bradt; Mongolia l'ultimo paradiso dei nomadi guerrieri, di Federico Pistone ed. Polaris. Utilissima anche: Bienvenue en Mongolia, guide de voyage, ricca di foto, con testi in Francese e Mongolo; il frasario Italiano-Mongolo curato dall'associazione "Soyombo", indispensabile per dialogare e avere informazioni dai pastori nomadi. Discreta sia la carta turistica-stradale Mongolia ed. Gizi Map 1:2000000, che il dettagliato Atlante Road Atlas ed. Admon 1:1000000. Anche la cartografia GPS della Garmin si è rivelata preziosa. Ci siamo rivolti all'agenzia "Io Viaggio in Camper" per ottenere i visti di Russia e Mongolia.
Il 30 Giugno, Adele ed io, partiamo a bordo dell'azzurro motorhome VAS New Line Evo su IVECO 35/18 di tre anni e con all’attivo 89000 km. La dogana di Kyakhta, tra Russia e Mongolia, dista quasi 10.000 km da Parma, e sono ben otto i fusi orari di differenza!! 10.000 Km percorsi in tredici giorni di viaggio, attraversando Slovenia, Ungheria, Ucraina, Russia e la monotona Siberia. Russia e Siberia hanno notevoli città d’arte e meritano di essere visitate, cosa che faremo nel viaggio di ritorno, ma la meta è la Mongolia. Queste le principali città attraversate all’andata: Lubiana, Budapest, Leopoli, Kijew, Mosca, Kazan, Ufa, Chelyabinsk, Kurgan, Omsk, Novosibirsk, Krasnoyarsk, Irkutsk, Ulan-Ude, e finalmente nel pomeriggio del 13 Luglio arriviamo nel polveroso piazzale della dogana Mongola di Kyakhta.
Personale gentilissimo (molti parlano Inglese, a differenza dei colleghi Russi) ci fanno superare alcune auto Mongole e Cinesi, dopo i timbri sui visti d'ingresso, pago 50 Rubli per la registrazione e l'importazione del mezzo, poi a turno tutti i doganieri visitano il camper a loro sconosciuto, e definito "la Gher sulle ruote". Lasciamo la dogana, e nel vicino box, dove stipuliamo l'assicurazione per il camper (1000 Rubli per trenta giorni) conosciamo Jean, un motociclista Francese che gira la Mongolia in solitaria. *(www onelife-experience.com). Dopo circa 30 km di buona A0402 arriviamo a Suhbaatar, sostiamo di fronte al monastero Buddhista di Khutagt-Ekh-Datsan retto da un Dalai-Lama donna. Molti passanti si fermano e, mai invadenti, a gesti cercano di capire da dove veniamo. Arriva una pattuglia della polizia che ci invita presso la caserma per non essere infastiditi. Offriamo la cena a Jean, che appezza molto, poi lui cerca un albergo e noi, dopo un giro per la cittadina, raggiungiamo un piazzale presso la stazione ferroviaria per passare la notte.
Oggi è festa (ultimo giorno del Naadam), banche chiuse e impossibile cambiare Euro in Togrog (Tang); così partiamo per Darhan, dove è segnalato un bancomat. Percorriamo circa 100 km sulla A0402, la strada è asfaltata ma con frequenti buche; entrando in città, essendo giorno di mercato, notiamo molta animazione, tantissima gente gira per le vie del centro anche a cavallo, purtroppo c’è una lunghissima coda al bancomat e non preleviamo. Troviamo un distributore che fortunatamente accetta la VISA, e dopo aver fatto il pieno, in un vicino supermercato, acquistiamo pane, birra e acqua minerale. La città è di chiara impronta Sovietica, solo il grande Buddha seduto e luccicante al sole ci ricorda che siamo in Mongolia; sulla collinetta opposta visitiamo il monumento del musicista Morin Khuur. Con una nuova circonvallazione usciamo da Darhan, mancano 180 Km per Ulaanbaatar; la A0401 scorre tra dolci colline con verdi prati e tantissimi animali che ne brucano l’erba; la strada è discretamente asfaltata, ma molto stretta, e spesso i pochi alberi ai lati "accarezzano" il VAS. S’incontrano numerosi "Ovoo", cumuli di pietre con al centro un palo avvolto da tante bandiere di preghiera azzurre e rosse. Assistiamo al rito votivo che consiste nel girare attorno al cumulo di pietre per tre volte e lanciare monetine e sassi facendo crescere il cumulo stesso; chi non si ferma annuncia il suo passaggio con tre suoni di clacson. Frequenti i corsi d'acqua e le piste che, staccandosi dalla via principale, si perdono in immensi pascoli punteggiati da candide Gher. Presso un fresco e limpido ruscello, sostiamo per pranzare, sotto un cielo terso e azzurro, la temperatura è di 33°; un vicino Buddha solitario ci osserva. Desta la nostra curiosità, un altro imponente Buddha che, attorniato da altre divinità, fa da custode a un grande cimitero, nel quale sorgono numerose Stupe di varie dimensioni in base all'importanza del defunto. In un tempio attiguo assistiamo a una toccante cerimonia di cremazione. Nel tardo pomeriggio arriviamo alla periferia di UB; paghiamo per l'ingresso in città 1000 Tang (circa 0,50 €), traffico caotico e grande presenza di auto Giapponesi, tutte con guida a destra che costringono gli autisti a veri slalom per superarsi. Strada enorme ma piena di buche e nessuna indicazione; solo il moderno palazzo della cultura a forma di vela e visibile da vari punti della città ci indica il centro. Dopo una prima ricognizione di Ulaanbaatar, troviamo un ufficio di cambio nel moderno supermercato Nomin, poi nel piazzale del cinema-teatro ceniamo e preparato il programma di visita per l'indomani passiamo indisturbati la notte.
Ansiosi di scoprire la capitale partiamo presto, non troviamo nessuna difficoltà per girare UB in camper, le strade sono ancora deserte. Vediamo il palazzo della Borsa, il Parlamento, con l'enorme statua di Gengis Khan, il teatro del balletto e il palazzo della cultura: tutti edifici che si affacciano su piazza Sukhbaatar con al centro la grande statua equestre dell'eroe nazionale. All'apertura dei musei visitiamo quello di storia naturale e il museo nazionale di storia Mongola. Davanti all'ambasciata Francese ritroviamo Jean, ha un piccolo problema elettrico alla moto, che io in cinque minuti risolvo; lui in cambio, in un discreto Russo, ci procura una guida per visitare l'antica capitale Karakorum. Presso l'ufficio turistico pranziamo insieme con un’ottima pizza, poi grazie alla connessione Wi-Fi, mandiamo i saluti a parenti e amici.
Entriamo nel piazzale del complesso Buddhista di Gandan; i vari templi sono edificati tra basse casupole color pastello e numerosissime candide gher. Visitiamo subito la Pagoda bianca, l’ingresso costa 3500 Tang a persona e 5000 Tang per le foto. Il tempio è stato rialzato con una struttura di legno in stile Cinese per accogliere il grande Buddha dorato alto 26 metri; numerosi i devoti che accendendo profumati ceri e lasciano cibo o denaro nei tanti altarini votivi. Meritano una visita anche gli altri templi, in uno di questi assistiamo a un matrimonio, dove tutti indossano costumi tipici. Con il camper ci avviciniamo a uno dei pochi pozzi presenti in città, c'è una lunga fila per acquistare l'acqua, molti riempiono grandi recipienti che poi con mezzi di fortuna portano alle varie abitazioni o tende; non ce la sentiamo di sottrarre questo bene prezioso e ci accontentiamo di soli venti litri di freschissima acqua. Torniamo nel piazzale del Monastero di Gandan e con il benestare dei monaci sostiamo per la notte.
Con i riti mattutini ci svegliamo, abbiamo passato una fresca e riposante nottata, siamo così pronti per una nuova escursione. Ci dirigiamo al Palazzo d'Inverno Bogd Khan, per raggiungerlo superiamo il torrente Selbe Gol con un moderno ponte. Entriamo con il camper nel grande parcheggio per bus, molti autisti si avvicinano per spiare l’insolito veicolo; sono molto meravigliati quando diciamo che veniamo dall'Italia, e dopo aver appagato la curiosità, alcuni si offrono come parcheggiatori, altri come guida per il palazzo e addirittura ci offrono il biglietto per l'ingresso. Il complesso è formato da un insieme di sei bellissimi templi in stile Cinese, gli interni sono adornati da dipinti su seta, altarini, raffigurazione di divinità e strumenti di preghiera; purtroppo cortili, giardini e aiuole sono malcurati, forse per mancanza di acqua. Nel palazzo fanno bella mostra animali impagliati e numerosi doni offerti a Bogd Khan da personalità straniere.
Avanti un paio di km arriviamo al Buddha Park; parco giochi dove, oltre alle ruote di preghiera e a un enorme “gong”, s’innalza la più alta statua di tutta la Mongolia, quasi trenta metri, dedicata al Buddha Sakyamuni. Sulla vicina collina troviamo lo Zaisan, memoriale Sovietico consacrato ai soldati e agli eroi ignoti. Torniamo verso il centro città e per fare rifornimento di acqua entriamo nel parcheggio dell'hotel Peace Bridge, il custode ci fa capire (in Mongolo) che solo se sosteremo per la notte e pagando 5000 Tang potrebbe darci l'acqua; le trattative vanno per le lunghe, ma poi fortunatamente ricompare Jean, che ha preso alloggio nello stesso albergo: conclusione dormiremo nel piazzale per 3500 Tang e notte-tempo ci faranno il pieno. Fiduciosi nel rifornimento ci concediamo una rinfrescante doccia con la poca acqua rimasta, cena e dopo aver cercato inutilmente la connessione internet andiamo a letto.
Al risveglio notiamo che il serbatoio è ancora in "riserva"; il custode si scusa, ma per mancanza di acqua non ha potuto fare il rifornimento; ci regala quattro bottiglie di minerale, poi ce ne andiamo. La guida EDT dice che uscendo dalla città percorrendo la strada A0501 dopo circa 50 km si può visitare il grande monumento dedicato a Gengis Khan e il vicino Terelj park. Con molta difficoltà per il traffico, il pessimo stato della strada e per mancanza d’indicazioni arriviamo nel bel villaggio di Nalayh. A un bivio prendiamo per il parco, ma ben presto ci dobbiamo arrendere, sono tante le piste che si diramano dalla strada asfaltata; strada che poi finisce in uno spiazzo straboccante di auto e con i pastori Mongoli che offrono i loro pregiati cavalli Takhi per l'escursione. Dopo una breve passeggiata, apriamo la veranda su un bellissimo prato punteggiato di "stelle alpine" e con il dolce gorgoglio di un limpido ruscello, pranziamo. Offriamo un caffè ai pastori, e foto alla mano, chiediamo per il monumento: chi dice avanti, chi a destra, chi a sinistra, molta curiosità per vedere il camper, ma poca efficienza nel fornirci informazioni precise. Una signora in auto ci fa cenno di seguirla, ma poi prende per bruttissimo sentiero e non ce la sentiamo di andare oltre. Tornati sull'asfalto, alcuni ragazzi ci indicano una pista e ci fanno capire che in pochi km (22!!) vedremo la gigantesca coda d'acciaio del cavallo, e così è, ma giuro che cominciavo a "sudare".
Nel grande piazzale lasciamo il VAS, e notato due ragazzi che innaffiano i fiori chiedo se fosse possibile fare il rabbocco del serbatoio dell'acqua; senza pensarci un attimo inseriscono il tubo nel bocchettone e fumando una sigaretta visionano dall'esterno il camper. Noi andiamo a visitare il gigantesco monumento di un luccicante acciaio; paghiamo 20000 Tang e con un moderno ascensore arriviamo alla criniera e alla testa del cavallo da dove si ammira uno stupendo panorama sulle colline circostanti con numerosi animali che pascolano liberi. Anche il museo dedicato a Gengis Khan merita un’accurata visita; ma la bellezza è data dalla grandezza e del luogo dov'è costruito, il tutto esaltato da uno spettacolare e infuocato tramonto. Tornati al camper, il serbatoio è pieno, i due giardinieri scomparsi, e le guardie ci invitano a uscire per la chiusura dei cancelli. In un vicino prato con alcune Gher di pastori ci fermiamo per cenare e dormire; dei 50 km menzionati dalla guida EDT, ne abbiamo percorso oltre 200!!
Altra tranquilla nottata, all’apertura della porta del camper, troviamo due giganteschi cani e al loro abbaiare, dalle Gher, arrivano due splendide ragazze con due ciotole di “orrendo e disgustoso” latte di cavalla acido, prelibatezza locale, ma che non riusciamo a ingurgitare!! Ricambiamo con alcuni pacchetti di biscottini. Dopo altre foto al “nostro” accampamento e al monumento di Gengis Khan partiamo per UB, sappiamo che nella periferia sud della città c’è il “mercato nero”, è il più grande mercato della Mongolia dove si vende di tutto. Sono quasi le undici quando parcheggiamo il VAS nel grande piazzale tra auto, furgoni e carri trainati da cavalli; molti i curiosi che cercano di capire il modello e la provenienza, ci chiedono se siamo Americani!! L’ingresso alle contrattazioni è a pagamento, 300 Tang a testa, ci dirigiamo negli hangar destinati alle merci alimentari dove sono offerti i pochi prodotti locali, la stragrande maggioranza arriva da Russia, Cina e Giappone; molto più interessanti sono le tante bancarelle che propongono articoli di produzione Mongola: stoffe, sete, vestiti e costumi tipici; tende e attrezzature da campeggio, gli ultimi modelli di Gher (con tanto di personale che insegna a montarle), utensili agricoli, selle e finimenti per cavalli, i caratteristici stivali Mongoli, archi e frecce costruiti artigianalmente con ossa di Yak, tutti articoli molto apprezzabili, vere opere d’arte, ma dai costi elevatissimi; *(stivali=250/300 $; arco e 2 frecce=400/500$). Ci accontentiamo di fare numerose foto; alla domanda:“a-cu-da” (da dove vieni??) rispondiamo Italia, e tutti acconsentono di buon grado a farsi riprendere nelle varie attività. Pranziamo, poi ci dirigiamo in centro presso il supermercato Nomin, dove troviamo anche prodotti Italiani tra i quali notiamo: Trentin-grana, pasta Barilla, aceto balsamico di Modena, olio di oliva, lambrusco di Sorbara e diversi vini Italiani, biscotti Bucaneve e l’immancabile Nutella; al quarto piano vendono articoli di artigianato locale e souvenir. Con il camper ci portiamo vicino al Circo Nazionale della Mongolia, dove si svolge il campionato Mongolo di contorsionismo; purtroppo non ci sono più posti per assistere allo spettacolo, così ceniamo e dopo una passeggiata, a letto, domani alle sette abbiamo appuntamento con Michelle per andare a Karakorum.
Michelle arriva puntualissima, è una dolce ragazza di ventidue anni che ci farà da guida per andare alla scoperta dell’antica capitale Mongola; subito ci dice che è la prima volta che accompagna i turisti e si scusa se non sempre sarà all’altezza del compito, parla un ottimo francese e questo ci basta. Preso posto al mio fianco sul camper, con una scorciatoia ci fa uscire velocemente da UB, prendiamo la A0301, è una moderna strada a due corsie per senso di marcia; traffico scarso di veicoli, ma molti i pastori a cavallo che conducono grandi mandrie di animali sulle verdi colline; incontriamo i primi yak dal lunghissimo e pregiato pelo e anche molti uccelli rapaci. Arrivati alla periferia di Lun, la strada finisce in un insidioso guado che dobbiamo superare per riguadagnare l’asfalto. Raggiunta Rashant, per una pista, deviamo verso il piccolo deserto di Hogno Han Uul e Michelle ci propone un’escursione a cammello sulle vicine dune. Al ritorno visitiamo la Gher dei cammellieri, e noi mostriamo loro il camper; dopo di che ci sconsigliano di proseguire con il nostro mezzo perché i lavori in corso verso Karakorum potrebbero impedirci di raggiungere il sito. Siamo dispiaciuti, ma accettiamo il consiglio; ci procurano un’auto con autista e lasciamo il VAS parcheggiato tra le Gher. Pranziamo in un vicino ristorantino con riso alla “mongola”, carne di yak cotta, birra e l’immancabile latte di cavalla.
Con un gran caldo ripartiamo, per i primi km ci sembra esagerata la proposta dei cammellieri: strada quasi perfetta, ma poi c’è una deviazione di 40 km per lavori in corso e l’autista si deve destreggiare per scegliere la pista migliore e non impantanarsi. Ancora asfalto sino a Raashaant, poi si deve prendere un’altra insidiosa pista per scollinare, siamo a oltre 2000 metri di quota e mi rendo conto che con il camper sarebbe stata dura; *(chi lo tira fuori un “bestione” di quasi 40 quintali??) a un bivio troviamo l’indicazione per Harhorin (Karakorum), prendiamo la A0601; altro bivio e dopo 15 km intravvediamo la cinta muraria dell’antica capitale. Michelle s’informa sulla possibilità di trovare una sistemazione per la notte, la trova presso Gher Hubilay Haan; lasciati i nostri bagagli, iniziamo l’escursione alla vecchia città e ai vari templi Buddhisti racchiusi dentro un quadrilatero di ben 108 stupe e possenti mura. L’ingresso costa 3500 Tang a testa, visitiamo tre templi-museo, ricchi di statue, maschere, amuleti e dipinti su seta e stoffe; nel tempio Tibetano, il più antico, sono in corso dei suggestivi riti di preghiera. Dopo numerose foto al sito e alla Tartaruga in pietra, simbolo di longevità, andiamo al monumento delle conquiste di Gengis Khan, che da una collina domina la piana del fiume Orkhon; prima di tornare alle Gher vediamo la “roccia fallica”. Al campo ceniamo (male) con altri turisti francesi e tedeschi, poi ci ritiriamo nella nostra tenda. Notte insonne per la scomodità del letto e per il caldo.
Fatta colazione si parte per il sito archeologico di Bilge Khagan; nella zona è stata ritrovata una tomba e due stele di origine Turca; questi e altri reperti sono sistemati nel nuovissimo museo aperto da poche settimane. Michelle ci vuole portare al lago Ogiy Nuur per farci ammirare la bellezza del paesaggio, e non rimaniamo delusi. La pista per 30 km corre tra brulle colline, spesso disturbiamo qualche aquila che a fatica prende il volo, i cavalli pascolano liberi tra pecore, cammelli e yak, poi arriviamo al lago racchiuso tra monti piantumati a conifere e betulle; alcuni ragazzi fanno il bagno e altri fiocinano grossi pesci. Torniamo per pranzo al campo Gher e, ripresi i nostri bagagli, riprendiamo la via del ritorno. Giunti al nostro camper, salutato l’autista e i cammellieri, torniamo a UB accompagnati da bei ricordi e da violentissimi scrosci d’acqua; commossi salutiamo Michelle, oltre al dovuto doniamo un pacco di spaghetti e una bottiglia di vino. Per questa escursione abbiamo speso 270 $, e percorso 740 km.
Usciamo per circa 70 km da UB, presso un accampamento di pastori chiediamo la possibilità di sostare, e dopo il rito della visita del camper ci concedono di parcheggiare dove vogliamo; su bellissimo prato cerchiamo solo di non calpestare le numerose “stelle alpine”; ceniamo sotto la veranda e i numerosi bambini fanno la spola per donarci formaggio, pane e naturalmente latte di cavalla. Nottata stupenda, prima di lasciare il campo regaliamo giochi, indumenti, quaderni e pennarelli per i bimbi, e torniamo in città. Lasciamo il VAS tra miseri palazzi in cemento armato che celano l’imperdibile monastero-museo di Choylin Lama; l’ingresso costa 5000 Tang a testa e ben 12000 per le foto, ma ne vale la pena. Il complesso consta di cinque templi dedicati alle varie divinità, in uno di questi sono esposte alcune delle più belle maschere Tsam; maschere dalle espressioni terrificanti per scacciare gli spiriti maligni e che sono ancora indossate per rappresentazioni culturali e teatrali. Usciamo appagati della visita e con un bel resoconto fotografico. Torniamo al supermercato Nomin per fare qualche acquisto di generi alimentari e souvenir; presso l’ufficio turistico ci colleghiamo a internet per scaricare la posta e messaggiare con parenti e amici.
Lasciamo la città, foto al camper con la scritta GOODBY ULAANBAATAR, e dopo il rifornimento di gasolio, ripercorriamo i 220 Km sino a Darhan, qui prendiamo la A1001. Pessimi i primi 10 km su una scassata strada in cemento, poi un nuovissimo asfalto, che serpeggia tra campi ben coltivati, ci porta a Baruunburen. Chiediamo come poter raggiungere il monastero di Amarbayasgalant; tra le varie opportunità accettiamo quella di seguire un signore che in moto, con moglie e figlia, si propone di accompagnarci. Fortunatamente parla un poco di Inglese, ma ciò non basta per convincerci a proseguire, dopo 4/5 km la pista peggiora e diventa impossibile per il camper, torniamo così nel villaggio. Presso un misero negozietto sostiamo, in attesa di prendere una decisione; arrivano molte persone e con il frasario e alcune foto cerchiamo di farci capire che siamo lì poiche’ vogliamo andare al monastero. Un signore, che ci sembra ubriaco, aiutato dal farmacista che parla un minimo d’inglese, ci dice che con il camper sarà impossibile arrivarci, ma che l’indomani potrebbe procurarci un’auto con autista; fiduciosi ringraziamo, ceniamo e passiamo la notte in perfetta solitudine. Alle sei, complice l’abbaiare di numerosi cani, ci svegliamo, fatta colazione attendiamo che arrivi qualche persona. Le otto, le nove, non si vede anima viva; poi pigramente giunge il farmacista, ci fa segno di aspettare e se ne va; arriva il signore *(ben sobrio questa mattina!!) fa un paio di telefonate e alle 10 circa vediamo arrivare un vecchio macchinone Russo. Il conducente ci chiede 60000 Tang per il servizio, Adele ribatte 10000, l’autista sale in auto e fa cenno di andare via, lo fermo e ci accordiamo per 35000 Tang compreso della benzina. Partiamo, e ci accompagna anche il signore; utilissimo è il frasario per cercare di “dialogare”; scopriamo che sono genero e suocero, minatori disoccupati, ora contadini e pastori; ben presto ci rendiamo conto che sarebbe stato impossibile percorrere queste piste con il camper, per il pessimo stato, per i numerosi guadi e per la totale mancanza d’indicazioni. Alla mia richiesta se fosse possibile raggiungere il monastero con quest’auto, il taxista mi “dice”: “ho venduto il cavallo per comprare questa auto, e con questa auto devo andare dove andavo con il cavallo!!!” “Giusto ribatto io”.
Tra colline coltivate a cereali, pascoli, greggi, in un paesaggio mozzafiato, scatto numerose foto. Dopo una foratura, mancando il crik, do’ una mano a sistemare l’auto su una pila di pietre per sostituire la gomma; risolto il problema, gli accompagnatori si rinfrescano in un torrentello e abbondantemente ne bevono l’acqua. Proseguiamo, attraversiamo un campo Gher per turisti, e un villaggetto formato da numerose casette di legno abitate di alcuni “sciamani”; in lontananza, in una radura, ci appaiono le mura del monastero. Sulle colline retrostanti tra numerose “stupa”, sorgono due gigantesche statue di Buddha. Con una bella e scenografica scalinata saliamo al loro cospetto, gli amici ci propongono di fare le offerte rituali. Entriamo nel complesso e, accompagnati dagli amici, che si offrono come improvvisate guide turistiche, visitiamo gli otto templi dedicati alle varie divinità; sugli altarini numerose statue di Buddha, alle pareti bellissimi dipinti su stoffa e seta. Nel tempio principale, consacrato a Tsogchin Dugan, assistiamo a una bellissima cerimonia di preghiera. Presso la torre della campana c’è aperto un piccolo bar, dopo esserci rifocillati con biscotti e dolci, lasciamo questo luogo “magico”, veramente imperdibile. Vista la nostra soddisfazione, gli amici ci propongono di visitare la valle del fiume Orkhon. La valle è disseminata di tante Gher di nomadi, che vivono apparentemente lontani dalla civiltà, ma tutti hanno la moto o l’auto, il cellulare, i pannelli fotovoltaici, l’antenna parabolica e spesso il computer. Alcuni pastori allevano cammelli addestrati per le gare di polo, sport nazionale; altri si dedicano alla caccia delle marmotte e degli animali da pelliccia. Siamo accompagnati in un “campeggio” affollato di bambini, e presentati come “amici Italiani”; poi s’intraprende la via del ritorno accompagnati da numerosi ragazzi a cavallo. Tornati in paese, foto con i famigliari del taxista, scambio d’indirizzi e dopo interminabili saluti ci dirigiamo verso Bulgan.
Percorriamo la A1102 sino a Erdenet dove esiste uno dei più grandi giacimenti di rame al mondo, la città è di marcata impronta Russa, è molto animata e sembra ci sia un discreto benessere. Arriviamo alla miniera a cielo aperto, sembra possibile la visita, ma occorre fare in fretta perché al tramonto chiude; causa le lungaggini delle guardie addette al rilascio dei permessi oggi non riusciamo nell’intento, torniamo in città e presso il Selenge Hotel ci sistemiamo per la notte. Saputo che oggi, inspiegabilmente, non sarà possibile visitare la miniera, lasciamo la polverosa Erdenet per Darhan, e quindi la frontiera con la Russia. Non abbiamo fretta e strada facendo ci gustiamo questi paesaggi splendidi esaltati da un limpido cielo e una giornata calda e luminosa. Improvvisamente ci supera un ragazzo a cavallo con uno sgargiante costume tipico, ci si para davanti e “pretende” una foto: lo accontento e saputo che siamo Italiani porgendo la mano al cuore ci augura buon viaggio. Darhan già la conosciamo ma, spulciando tra le guide, Adele scova due curiosità: il monastero Kharaagiin, e in un vicino villaggio, un laboratorio artigiano per la costruzione di archi e frecce. Nella città vecchia visitiamo il monastero; è un edificio di legno, soffocato da palazzi fatiscenti, ma con un’armoniosa struttura in stile Cinese; nel curato giardino antistante svetta un albero avvolto da numerose sciarpe votive di seta rosse e blu.
Proseguiamo direzione Suhbaatar, deviamo per Dulaankhaan, ma non riusciamo a trovare il laboratorio artigianale di archi e frecce; con il benestare dei ferrovieri ci accampiamo presso la stazione Trans-Mongolica Pechino-Mosca e passiamo la notte tra possenti locomotive a gasolio. Dopo aver disegnato su un foglietto arco e frecce chiediamo informazioni per arrivare alla fabbrica. Una giovane e bella signora si offre di accompagnarci; salita sul VAS è più interessata a visionarlo che indicarmi la strada; spesso deve chiedere e informarsi su come raggiungere il laboratorio, ma alla fine lo troviamo. E’ uno dei pochissimi artigiani rimasti e riesce a costruire solo 3/4 archi l’anno, per la grande richiesta vanno ordinati con parecchi anni di anticipo. Orgogliosamente ci mostra le varie fasi della, poi alla mia richiesta di acquistarne uno mi invita a lasciare un acconto e ripassare nel 2013!! lavorazione Riportiamo a casa la signora, ringraziandola con un pacchetto di spaghetti e una scatola di biscotti, poi ripresa la A0402 ci apprestiamo a lasciare la Mongolia. Nei pressi di Suhbaatar ci ferma la polizia; l’agente non chiede i documenti ma infila sotto al tergicristalli un foglietto e sul palmo della mano scrive: 3000 Tang; al mio rifiuto, toglie il foglietto e mi fa segno di seguirlo. Dopo aver percorso un paio di km si ferma, mi fa cenno di posizionarmi su un prato presso altri furgoni e auto, ripete il gesto di prima: foglietto sotto il tergi, richiesta di 3000 Tang e… finalmente capiamo che altro non è che il tiket per poter parcheggiare e partecipare a una festa.
C’e un gran movimento di gente, molti nel tradizionale costume, altri a cavallo; sui prati lungo la strada numerosissime Gher, da dove entrano ed escono uomini e donne tutti indaffarati a preparare cibarie varie da cucinare in grandi e improvvisate cucine da campo, barbecue o enormi pentoloni appesi sul fuoco. Tutti accettano di farsi fotografare nelle loro attività e nei loro stupendi costumi. Molti ci invitano a pranzare con loro, ma dopo qualche assaggio il cibo non ci soddisfa e educatamente salutiamo. Una ragazza, in inglese, ci spiega che è la festa finale e nazionale del Naadam. Ci accompagna nel vicino stadio dove si svolge la cerimonia di apertura dei giochi; giochi che consistono nella gara di tiro con l’arco, gara di lottatori di sumo, e corse a cavallo per bambini e adulti. E’ da brividi sentire l’inno nazionale cantato da un tenore; atterrano i paracadutisti con enormi bandiere della Mongolia; seguono vari balletti coreografici di ragazze e bambine accompagnati da musiche prodotte da strumenti tradizionali; la maggior parte degli spettatori indossano il copricapo della propria etnia e il costume tipico. Molti, specie gli anziani, chiedono di essere fotografati, hanno appuntato sul petto le medaglie dei vari raduni; una troupe televisiva ci riprende e ci intervista, rimangono meravigliati quando diciamo che siamo Italiani e ancor di più che siamo arrivati lì con un Motorhome, tanto che vogliono vederlo e fotografarlo; poi ci danno in omaggio una loro bandiera dove campeggia l’indecifrabile scritta: “Amici della Mongolia”. Continuiamo a vedere le varie attività sportive, la più emozionante è la corsa dei bambini a cavallo; cavalcano a ”pelo”, è una specie di staffetta, c’è un grande agonismo, e spesso li vedi piangere per non essere arrivati al traguardo. Il sole sta tramontando, vogliamo trascorrere un’altra notte in questa splendida nazione che ci ha emozionato con questa inaspettata festa. Ci lasciamo coinvolgere, e ospiti di improvvisate tavolate, tra uno spuntino e l’altro, beviamo latte di cavalla e wodka. Un gruppo canoro si esibisce con canti popolari, poi passano al repertorio lirico Italiano deliziandoci con alcune romanze Verdiane, ci augurano buon viaggio con “ O sole mio” e “ Nel blu dipinto di blu”, così termina la serata e ci ritiriamo nel camper.
Bella nottata, con il sole già alto partiamo per la vicina frontiera di Altanbulag; spendiamo gli ultimi Tang in wodka e ci presentiamo ai doganieri. Vengono apposti i timbri di uscita sui passaporti e sul permesso di importazione temporanea del camper; nessuna ispezione del mezzo, calorosa stretta di mano con un doganiere e un imperioso saluto militare alla nostra partenza; poche centinaia di metri e siamo nella dogana Russa di Khyakhta. Dopo dodici giorni di Mongolia rientriamo in Russia e visitiamo senza fretta il lago Baikal, le tante e belle città della Siberia, della Russia Asiatica ed Europea, poi si torna a casa per raccontare a famigliari e amici questo splendido viaggio.
BUON VIAGGIO !!
Adele e Andrea (Parma)
Questo viaggio l’avevo sognato da anni, quasi senza crederci davvero, tanto impossibile e difficile da realizzare mi era sempre apparso. Lo avevo immaginato in silenzio, senza sapere che quel giorno sarebbe davvero arrivato… il sogno custodito nel cassetto che si trasforma in realtà in un giorno d’agosto del 2013. Andare in Mongolia, per me, era come andare su Marte. L’emblema stesso della differenza totale rispetto al mio mondo (o almeno, da quello da me conosciuto). La Mongolia era nella mia immaginazione la rappresentazione stessa della libertà: spazi a perdita d’occhio senza confini, né costruzioni umane, né proprietà privata. Cavalli al galoppo nella steppa, aquile in volo, mucche, capre, pecore, yak al pascolo… e l’anima libera. Liberata. Mi dicevo spesso: “La vita non aspetta. I sogni non possono restare tali per sempre. Fa ciò che è nelle tue capacità per non lasciare spazio ai rimpianti”. L’unica scelta possibile in quel frangente esatto della mia vita era concretizzare questo sogno. Per tutte queste validissime ragioni, Andrea ed io abbiamo sentito l’urgenza di cogliere una chance importantissima: andare a scoprire la parte più vera e delicata della Mongolia, prima della sua scomparsa definitiva.Il viaggio in Mongolia rappresentava la scoperta di un mondo difficile anche solo da individuare sull’atlante. Lì si è sviluppato il più grande ed esteso impero di tutti i tempi, ma le sue tracce sono andate perse, cancellate da strati di polvere della steppa. Il mistero ha avvolto nuovamente quella terra inaccessibile ed estrema e ha obliato la sua storia.Organizzare il viaggio in Mongolia però non è né facile e né economico.Non è facile perché la Mongolia, per fortuna, è ancora immune dal turismo di massa, rimane una meta tendenzialmente per amatori pazzi, senza troppe esigenze di comfort, se non quella del viaggio stesso e della scoperta. Chi va in Mongolia deve essere disposto a viaggiare in totale semplicità e a sacrificare il proprio concetto, tutto occidentale, di igiene e a sospenderlo quasi completamente per tutta la durata del viaggio. Ma non temete, le temperature anche ad agosto sono miti, non si suda e se si è attrezzati con salviette si può tranquillamente profumare. Poi ci sono fiumi e laghi a sufficienza per potersi dare facilmente una rinfrescata! Questo è valido anche per quei viaggiatori che si affidano ad agenzie super lusso all-inclusive, dove qualche piccolo comfort può esser garantito, ma sempre secondo un concetto peculiarissimo di “comodità”. La Mongolia infatti è terra di nomadi, di gente dal cuore buono e aperto ma anche spartana e pratica. A meno che non abbiate a disposizione almeno due mesi, è molto difficile improvvisare il viaggio arrivando direttamente ad UB (come viene comunemente chiamata Ulaan Bataar dai suoi abitanti). Organizzarsi all’ultimo momento può provocare, come minimo, una grande perdita di tempo: i mezzi pubblici in Mongolia scarseggiano, ci sono pochissime strade asfaltate, i cartelli stradali non ci sono, prendere in affitto un’auto con un autista è l’unico modo per muoversi nella steppa. Infine, ad UB non ci sono molte agenzie di viaggio con le quali preparare un last-minute sul posto e per evitare sorprese spiacevoli (il principale è avere un autista alcolizzato o che non sappia risolvere i problemi che la macchina può subire nel viaggio sullo sterrato) è meglio affidarsi all’esperienza di altri viaggiatori.La nostra grande fortuna è stata che il nostro autista, Dashka, nonostante sapesse dire in inglese solo “food water big small good no good” e in italiano “buongiorno, andiamo mangiare dormire”, si è dimostrata una persona estremamente brillante e insieme abbiamo inventato un linguaggio internazionale per comunicare fra noi. Muniti di doti gestuali tipiche di qualunque italiano e di un taccuino, abbiamo passato tramonti e serate a “chiacchierare” con Dashka, disegnando e insegnandoci a vicenda nuove parole di Italiano, Inglese e Mongolo e raccontandoci curiosità reciproche. Ci siamo mossi a bordo di una vecchia UAZ russa, facendo il solletico all’enorme terra mongola come puntini minuscoli sulle sue distese infinite. Abbiamo respirato in maniera nuova, attoniti ed emozionati sotto i suoi cieli enormi bassissimi lucenti e spettacolari nelle giornate limpide così come sotto i temporali più violenti. Come bambini a bocca aperta, siamo restati incantati di fronte al susseguirsi incredibile di vallate immense e di arcobaleni perfetti e perfettamente interi. Dashka è stato un vero compagno di viaggio e ci ha accompagnato scegliendo insieme a noi tempi e pause, venendo incontro ai nostri desideri e ci ha condotto fino al fulcro del nostro viaggio: gli Tsaatan. Per raggiungerli abbiamo attraversato la steppa, la taiga e infine la tundra dei Monti Sayan, ai confini con la Siberia, tra le regioni più remote ed inaccessibili del nostro pianeta. Lì vivono gli Tsaatan, gli uomini-renna, una delle ultime tribù nomadi e sciamaniche di allevatori di renne. Per arrivare da loro bisogna affrontare un viaggio a cavallo di 5 giorni su terreni che non possono essere percorsi da mezzi meccanici. L’unico modo è andarci a cavallo, ma i terreni sono comunque poco adatti anche a loro, boschi di conifere che con le piogge diventano fangosi, paludi e ruscelli in piena, distese di pietre dove i cavalli inciampano e fanno fatica. Eppure, piano piano, senza far male né alle bestie né agli esseri umani, vivendo per 5 giorni come mandriani, siamo arrivati a conoscere gli Tsaatan e il loro incredibile stile di vita. Scalando le montagne, sovrastando le vallate, in direzione Siberia verso Nord, abbiamo ammirato le nevi eterne, il loro bianco immacolato che raggiunge l’azzurro cosi caratteristico del cielo mongolo. Spettacoli intensi. Maestosità dei luoghi abitati dagli spiriti dei quali abbiamo sentito parlare a lungo. Questa tribù vive in una delle regione più remote della Mongolia settentrionale. Sono allevatori nomadi di renne e vivono in tende (urtz) sostenute da pali e ricoperte da teli pesanti, incredibilmente simili ai teepee dei nativi nordamericani. Il legame di parentela con i nativi nordamericani è innegabile: prima di tutto, le tende nelle quali vivono, ma anche i lineamenti del viso, le pratiche sciamaniche…la testa non può non pensare che siano stati proprio loro i primi scopritori dell’America, attraversando lo stretto di Bering milioni di anni fa. E adesso sono lì, davanti a me e Andrea, ci ospitano nel loro teepee e ci offrono latte di renna per ristorarci dopo 2 giorni filati a cavallo per raggiungerli. Vivono come uomini liberi, quali sono a tutti gli effetti: non esistono riserve a tenerli rinchiusi. E’ la tundra che li protegge dalla “contaminazione”. Gli accampamenti sono lontani e nascosti oltre la foresta, ad altitudini tali che la vegetazione scompare e lascia il posto solo a muschi e licheni, di cui le renne vanno ghiotte.Vivono secondo il loro stile e secondo le loro tradizioni pacifiche e mansuete che sono rimaste quasi del tutto immutate nei secoli. Certo, vedere il pannellino solare fuori dalla urtz fa un certo effetto. Ancora di più la piccola antenna satellitare collegata ad una piccola tv nella tenda. Fortunatamente, la corrente scarseggia e, quindi, la televisione può stare accesa solo mezz’ora al giorno per l’appuntamento con la soap opera nazionale, un drammone patetico che però ci siamo divertiti a guardare insieme alla famiglia che ci ospitava. Il contrasto era spiazzante, ma reale. Non hanno bisogno di molto per sopravvivere. Per loro, la renna è tutto: cibo, indumenti e trasporto. Il loro regime alimentare si basa quasi esclusivamente sul latte ed i suoi derivati. La loro comunità è composta di circa 40 famiglie e 800 renne. E’ in funzione delle renne che si spostano due volte all’anno. Per garantire loro cibo e un clima adatto alla loro sopravvivenza. Per questo, nei secoli si sono adattati ai climi più estremi, in inverno le temperature superano (in negativo) i – 40° e d’estate non vanno oltre i +15°.Negli anni ‘90, la brucellosi aveva danneggiato la salute delle renne ma adesso, grazie ad un progetto di veterinari italiani, le renne stanno meglio e la comunità è in crescita.Sotto il teepee stiamo bene, i cavalli sono fuori al pascolo, le renne ci leccano perché gli piace il sale del nostro sudore… dopo una lunga cavalcata, seduti all’interno della urtz, ci riposiamo e godiamo del piacevole calore della stufa, sorseggiando il tè salato al latte di renna con i biscottini secchi fatti a mano. Questa gente vive in comunione totale tra loro e la natura. Consapevoli di questo momento maestoso e misterioso possiamo solo sentirci partecipi e godere di questo momento cosi importante per noi. Mi rendo conto che il senso di gratitudine che provo mi commuove fino a farmi piangere dall’emozione.L’intensità magica di questa esperienza si legge sui nostri visi. Gli Tsaatan sono generosi, ci rendono parte della loro vita per il poco che possiamo permetterci di rimanere. Si perde il senso del tempo…sono solo due giorni quelli che abbiamo vissuto con gli uomini renna, nel tentativo di capire ciò che li spinge a vivere una vita che ci sembra a volte difficile da sopportare ma, allo stesso tempo, più sana e naturale.E’ l’alba dell’ultimo giorno con gli Tsaatan ed è il mio compleanno: usciamo silenziosi dalla tenda e restiamo affascinati dal panorama che ci regala l’alba. Il cielo è tutto rosa e bianco, luce delicatissima, la brina si solleva piano dalla terra e avvolge le sagome delle renne in lontananza, già al pascolo, in un silenzio assoluto che ci che permette di sentire forte la relazione tra terra e cielo, fra visibile ed invisibile. Il mondo è ancora bello, non tutto è andato perso nella corsa al progresso, c’è ancora tanto da scoprire e tanto da proteggere. Il cuore e la testa vanno in tilt. Ma è un dono prezioso, unico, sublime. La discesa dalla montagna si farà sugli stessi sentieri che solo le guide conoscono. Attraversando ancora una volta paesaggi grandiosi, pensiamo a lungo agli uomini renna nascosti nelle foreste confinanti con la Siberia. Il cuore è gonfio di emozione e di gratitudine per la formidabile lezione d’umiltà che gli Tsaatan ci hanno dato senza alcuna arroganza, loro che lottano ogni giorno per una precaria sopravvivenza, conservando tenaci il valore della libertà.Ilaria Lorusso
Ulaan Baatar, 7 settembre 2013Non è stato facile: al primo chilometro, dopo essere saliti sulla vecchia e rigida UAZ, abituarsi alle traumatiche scosse, causate dal sobbalzare della Jeep. Ci coglievano impreparati e così partendo dal basso andavano ad esplodere nella testa. Nel percorrere quelle accidentate piste, la Jeep spesso oscillava paurosamente, mandandoci a sbattere contro le fiancate. Non è stato facile: accettare di pranzare in quella stanza, dove un fornello a gas e un tavolo da pranzo mal ridotto e sporco, la faceva definire "ristorante". Con la padrona-cuoca indaffarata a tagliare la carne, appoggiandola su una vecchia e sporca tavola di legno: ci stava preparando una zuppa di carne e pasta.Non è stato facile: respirare, con l'aria satura di polvere. Polvere sollevata dalla UAZ e spinta dai forti venti sempre presenti nel deserto del Gobi. All'interno della Jeep l'odore era sempre il solito: la polvere ricopriva ogni centimetro quadrato della vettura, di tutte le cose e chi era al suo interno. Le morbide fibre dei pile, e di tutti gli altri tessuti erano imprigionate dalla coltre di polvere depositata su di esse.Non è stato facile: capire, per due europei come noi, quale pista seguire. Al secondo giorno, attraversando lo sconfinato deserto del Gobi, in piena pianura e senza montagne all'orizzonte, abbiamo dubitato più volte sulla capacità di Ochro di scegliere la pista giusta, di fronte al continuo intreccio di queste tracce. Nelle nostre campagne ci sono le strade asfaltate, agli incroci i cartelli indicano la strada da scegliere per raggiungere la nostra meta. Siamo dei facilitati. Ochro guardava a destra e a sinistra, scrutava il sole, poi sceglieva. Questo suo comportamento ci faceva dubitare di lui e della sua abilità a muoversi sul territorio .Non è stato facile: la mattina, al momento di lavarsi, fare a meno della nostra doccia, dello scorrere continuo dell'acqua, aprendo il rubinetto. Qui, nel Gobi, tutto va misurato, tutto è prezioso. L'acqua è la vita, lo sanno bene i nomadi e presto anche noi. Qui l'acqua contenuta nei palmi delle mani deve essere sufficiente per lavarsi il viso, i denti e così via.Non è stato facile: superare le difficoltà tecniche di quelle accidentate e disastrate piste, anche se eravamo dei passeggeri. A volte, con nostra incredulità vedevamo la traccia dirigersi in alto verso la cima di una piccola e aguzza collina, di lì a poco il cofano della Jeep puntava in su, dritto verso il cielo e l'incognito. Non potevamo sapere cosa ci aspettava, una volta raggiunta la cima e questo ci procurava una forte tensione. Percorrendo in senso trasversale le fiancate scoscese delle montagne, la jeep si inclinava tanto da farci ricordare le nostre origini marinare: quando, per fare barca pari, ci spostavamo da una parte all'altra. Ci siamo infilati in canyon stretti, con tracce punteggiate da rocce affilate e noi fortemente preoccupati, dubitavamo sulla resistenza degli pneumatici.Non è stato facile: rispondere positivamente all'invito dei nomadi ad entrare nella loro gher e sedersi sul loro letto, quello disposto a ovest, come da tradizione. I nostri occhi vagavano, scrutavano tutto, facendo confronto con la nostra casa e il nostro standard di pulizia. E bere il tè salato con l'aggiunta del latte: il “suutei”.Non è stato facile: abituarsi ai sapori del loro cibo e delle loro bevande, sono molto diversi dai nostri. La loro cucina è molto lontana dalla nostra, anche materialmente. La gher: di forma circolare con un diametro di circa 4-5 metri, ha una piccola porta d'ingresso (disposta rigorosamente a sud), due letti: uno a ovest per l'uomo uno a est per la donna, un piccolo mobiletto a nord con sopra una minuscola vetrina contenente le immagini del Buddha e del Dalai Lama. Al centro, la gher ospita una piccola ed efficientissima stufa, funzionante a legna o più comunemente con lo sterco di yak o cammello. Questa stufa è il centro di cottura di tutte le loro bevande e dei loro pasti. La pentola usata è una sola: grande, a forma di ciotola con un pesante coperchio. Essa per un terzo entra, attraverso un foro richiudibile, nella parte alta della stufa, andando a contatto con il fuoco. Questa attrezzatura è sufficiente per cucinare. Naturalmente cose semplici e poco elaborate. La loro dieta è fatta di latte ed i suoi derivati, carne di montone e pasta. Pasta fatta dalla donna, con farina e acqua. La carne viene sempre mangiata lessa, a volte fredda, oppure, come prelibatezza, fatta a scaglie e immersa nel suutei bollente.Non sarà facile dimenticare: quel sole che nelle ore centrali della giornata, scaldandoci, toglieva dal corpo quei brividi, conseguenti alle basse temperature della notte. Quel sole: obbligava gli occhi a socchiudersi per resistere alla sua forte intensità. I cieli blu, così limpidi, contrastavano con le steppe gialle delle pianure del Gobi. Quei cieli blu che facevano da sfondo alle montagne di mille colori e forme, alla cui base si estendono i campi colorati delle praterie, nelle ampie valli. Le distese a perdita d'occhio, avana, come il colore della polvere che le ricopre, senza nessun punto di riferimento tranne il sole, abbagliante, che ci scaldava e ci guidava. I milioni di topolini che fuggivano all'arrivo della jeep, quelli stessi topolini che per due notti sono venuti a farci visita nella gher. Quei topolini ci ricordavano di guardare in alto, nel cielo blu, sopra la nostra testa e scoprire una, due, dieci bellissime aquile che li stavano cacciando. Quei laghi più o meno grandi, la cui acqua ha il colore blu intenso del cielo che li sovrasta. Laghi nella steppa, gialla, dove pascolano milioni di animali. Laghi di acqua dolce: acqua indispensabile per tutti gli esseri viventi presenti nel Gobi. Laghi di acqua salata orlati di bianco. Il sole intenso del giorno fa evaporare l'acqua lungo le sponde, e il sale va a depositarsi sul terreno, aggiungendo un colore a quel paesaggio. I laghi di acqua salata, frequentati da molti uccelli acquatici, ci hanno permesso di osservare specie a noi sconosciute. Non sarà facile dimenticare: quella volta che la Jeep è salita su in alto, sopra un pianoro, abbastanza vasto e davanti a noi una macchia bianca si tagliò nel verde della vegetazione, è neve, ci siamo detti, no, era un piccolo lago di acqua salata prosciugato dal sole. Quelle giornate passate al grande lago bianco, il paesaggio lunare intorno al vulcano, il freddo pungente, la nevicata del tardo pomeriggio e il manto bianco su tutto il territorio, la mattina successiva. E' stato un regalo della natura. Lo spettacolo era magnifico: il bianco della neve si stagliava sul nero pece della lava, dalla quale spuntavano rigogliosi e colorati larici, messi lì, radi, sul fianco del vulcano, dalla sapiente mano della natura. Dando un tocco di colore arancione al nero cobalto della lava.Non sarà facile dimenticare tutto questo!!!Non sarà facile dimenticare: i limpidi cieli notturni, le sue costellazione, la romantica via lattea. I monasteri con i suoi templi. La loro grande spiritualità. Le preghiere recitate in coro dai monaci, durante le funzioni religiose. Ora la Uaz non è più rigida. Quei ristorantini sono una giornaliera attesa e piacevole sosta. La polvere sui nostri vestiti non è più un problema, è stata una compagna di viaggio. Le accidentate piste, ed i passaggi estremi? Producevano solamente una piacevole dose di adrenalina. Ochro: quanto abbiamo sbagliato a dubitare di lui!! Della sua conoscenza del territorio!! Ha sempre raggiunto la meta serale con estrema precisione. Il nostro palato? Si era abituato ai sapori del cibo, tanto da spingersi sempre più avanti ad assaggiare e apprezzare i prodotti dei nomadi.Ora, mentre scrivo queste righe, siamo sull'asfalto, come dice Ochro.La vacanza è finita. La Uaz non è a suo agio… dà il meglio di sé sulle piste accidentate. Una mucca e un cavallo hanno perso la vita attraversando questo sconosciuto nastro scuro. E' stata una jeep giapponese dice Ochro. "Li ha uccisi" questa notte, chissà? Le jeep giapponesi viaggiano ad alta velocità, chi le giuda ha fretta, ha perso il ritmo lento del Gobi.Ah… com'è bello abbassare la testa, fare attenzione a non sbattere la scarpa sulla soglia della piccola porta, ed entrare in una gher, sedersi sul letto, quello a ovest, accettare con piacere una tazza di suutei con i dolcetti allo yogurt, e guardare gli occhi sorridenti del nostro ospite. Paolo Pasquali
E' stato un viaggio meraviglioso!un vero ''viaggio - avventura'' proprio come io concepisco il viaggio scoperta di terre sconosciute, immersione nella cultura di altri abitanti della terra.La Mongolia è una immensa terra selvaggia! Bellissima e difficilissima da girare!Nel deserto del Gobi alcuni campi tende erano senza corrente elettrica e si andava a candele!Il ritorno dal deserto del Gobi ad Ulaanbaatar è stato un brutto risveglio, una precipitosa caduta dal mondo dei sogni in un posto polveroso, rumoroso, sporco, caotico, clacson ovunque, semafori orizzontali, pubblicità, bus, gente vestita all'occidentale.... mi ripetevo come ipnotizzata "è finito il viaggio", è finito sì... ma io... ma io... Ma io ho guardato con occhi spalancati i tramonti e le albe in un silenzio primordiale, un cane che abbaiava a volte lontano, un nomade che chiamava forse un cavallo nella vallata... E stanno tutti dentro di me. Ho pestato erba di ogni tipo e inspirato a lungo il profumo di mente e seneci. Ed è dentro di me.Mi sono sdraiata sulla pietra calda delle roccia-focaccia e accarezzata con le mie mani come un tenero letto.Ho affondato i miei piedi nudi nella sabbia tiepida al tramonto delle dune cantanti.Ho ascoltato il vento cantare sulla vetta.Ho dormito sul letto di nude tavole in una fredda gher di un sorridente pastore di cavalli insieme ai suoi parenti che dormivano sul tappeto sopra la nuda terra.Ho disceso la guglia della cattedrale del deserto del Gobi e corso sulle collinette sue figlie insieme con Tsomo.Ho calpestato pavimenti sconnessi di antichi templi buddisti...Il viaggio è dentro di me. La Mongolia è nel mio cuore, nei miei occhi, sulla mia pelle per sempre.Ho fatto cose mai fatte in vita mia senza stancarmi mai.---Ho scalato una duna alta forse 80 metri nel deserto del Gobi, sono andata a cammello per un'ora!Ho scalato due vulcani!Forse era il vento che dava un energia pazzesca, il caldo di 45 gradi non si sentiva.Ho fatto il nord verde con foreste presiberiane, laghi poi montagne nude, la prateria infinita, non ci sono alberi né rocce, solo in lontananza il puntino bianco di una gher, il centro di steppa e il Gobi, i denti lavati sotto le stelle di quel cielo pieno di stelle cosi grandi e così vicine da toccarle con un dito !La via lattea era nitida e la potevo seguire tutta nel suo arco da est ad ovest perchè la mongolia dona la visuale dell'orrizzonte di 360 gradi !Ho fatto anche una lezione di tiro con l'arco mongolo con una campionessa di tiro con l'arco alla festa del naadam !E si vede che sono discendenti di Gengis khan !Orgogliosi , indipendenti , liberi , indomabili, rispettosissimi della loro terra , della natura .....Ho disceso una ripidissima parete scivolosa delle Baga Gazriin Chuluu a Tsagaan Suvarga ,mi si paralizzavano le gambe dalla paura, la mia guida ,Tsomo , una ragazza di 20 aa , studentessa in legge , mi incoraggiava ed era troppo bello !Capisco come ci si possa innamorare di questa terra.Adriana
Ero in un altro deserto quando una compagna di viaggio mi ha raccontato la sua esperienza in Mongolia e in quel preciso istante mi sono resa conto che non avevo mai preso in considerazione la possibilità di esplorare questa terra.Mi sembrava un mondo lontano, dimenticato da Dio.Ho passato i mesi successivi ad informarmi, a leggere e a riscoprire la storia di un popolo guerriero che già nei banchi di scuola mi aveva affascinato e t estardamente mi convincevo sempre più che non potevo mancare al mio appuntamento con la Mongolia.Così sono partita piena di emozioni e di aspettative, sentendo in cuor mio che non sarei stata delusa...e così è stato... anzi di più!Mi rammarica il fatto che quando qualcuno mi chiede di raccontare ciò ho visto, cosa ho provato, perché mi sia piaciuto così tanto questo viaggio, non sappia ancora oggi trovare gli aggettivi giusti.E' l'immenso, è la serenità, è la semplicità, è natura pura al 100%, ma è ancora molto di più e lo sa solo chi ci è stato.Sono i sorrisi dei bambini che ricambiano parole che non serve pronunciare, sono i gesti di altruismo che vengono spontanei, sono gli sguardi mesti delle donne anziane che hanno i segni nel volto di una vita dura ma dignitosa, sono gli immensi spazi che ti fanno martellare in testa versi di poesie che solo qui hanno un senso, sono gli uomini a cavallo o su una moto sgangherata che attraversano distese colorate come padroni del tempo, sono le mamme con isecchi di latte appeno munto che ritornano alla loro gher, sono i tramonti e l e albe che qui hanno una dimensione diversa, sono le rocce con forme strane che raccontano storie antiche e mai dimenticate, sono le alte dune di un deserto che sembra messo lì per completare un'opera, sono le cose semplici che riscopri di apprezzare perchè le avevi dimenticate, sono i disagi che non ti pesano perchè c'è ben altro a cui pensare e poi capisci che Dio questo mondo non l'ha dimenticato affatto, ma forse vive proprio qui...Qui dove banconote, offerte e sciarpe azzurre svolazzanti completano i grossi cumuli di sassi votivi che incontri ovunque lungo ilpercorso, tanto che ti ritrovi a cercarli con lo sguardo,quasi come un segnale rassicurante....e poi i monasteri e le città antiche che hanno saputo affrontare le avversità della natura,del tempo e degli uomini, e poi gli Stupa bianco candido come un miraggio sopra le colline, le allegre ruote di preghiera che mani veloci efiduciose fanno girare una dopo l'altra accompagnandole con silenziosepreghiere..e poi ..e poi tanto e tanto ancorache ho visto, sentito e vissutoe tanto ancora da vedere, provare, sentire.Ecco perchè in Mongolia conto di ritornare.Olga
Questo diario, le cui impressioni abbiamo registrato "live" in Mongolia su un registratorino che ci portiamo sempre dietro affinché nulla vada perso, vuole essere per noi una memoria dei viaggi che facciamo per non scordare anche solo i dettagli; più di quanto abbiamo visto (per questo sarebbero sufficienti le foto) ci interessa memorizzare quanto abbiamo vissuto.ULAN BAATARChe il viaggio costituisca in qualche modo un’avventura e che dobbiamo prepararci a qualche disagio lo percepiamo fin dall’inizio, quando ci imbarchiamo sul Tupolev M154 in partenza da Mosca con destinazione Ulan Baatar. Sebbene la compagnia sia quella di bandiera russa, il velivolo presenta tutte le caratteristiche del relitto di stampo sovietico. Al di là delle pessimistiche previsioni il volo è invece regolare ed arriviamo sostanzialmente in orario nella capitale mongola. L’aeroporto è piccolo ma funzionale. La pista sarà pure in leggera salita come dicono le guide ma non è assolutamente da brivido, non fosse per l’aereo col quale stiamo per toccare terra. La strada che ci porta in città mostra Ulan Bataar al suo risveglio in una giornata qualsiasi: dinamica sui cartelloni pubblicitari in prossimità dello scalo, ma assai triste nelle baracche che recingono il centro. La città è costruita a nord del fiume Tuul e circondata da deliziose montagne. Il centro ostenta una modernità recente. All’esterno sorgono dapprima edifici d’epoca sovietica, mentre la periferia si sta rapidamente ampliando con accampamenti di ger attratti dalle false chimere della città. Con queste abitazioni la migrazione è resa più agevole che altrove. La zona più vecchia è caratterizzata da palazzi in stile sovietico, mentre nelle periferie si incontrano le tradizionali gher, tende in feltro di forma circolare.Lasciamo la valigia più grande in hotel con dentro quanto non strettamente necessario per la vita country e siamo pronti ad iniziare il viaggio, partendo doverosamente dalla visita della capitale.Il cardine è senza dubbio piazza Sukhbaatar, dedicata all’eroe nazionale a cui la Mongolia deve l’indipendenza dalla Cina nel 1921 ma contemporaneamente anche la sudditanza verso l’Unione Sovietica. Col senno di poi potremo dire che Sukhbaatar abbia fatto la scelta meno peggiore. Se fosse rimasto sotto Pechino, adesso il Paese sarebbe solo una provincia dell’impero cinese, come ha finito per esserlo la Mongolia Interna.La città in generale non può considerarsi bella: in pieno centro ci sono dei tombini aperti che fungono da grandi cesti per la spazzatura e la condizione dei marciapiedi impone attenzione continua nell’incedere. Le persone che s’incontrano per la strada hanno comunque un’aria ordinata e pulita, a prescindere dal ceto sociale. Anche la moda assume dei toni sobri secondo i dettami dello stile orientale. Lo smog è padrone in mezzo ad un traffico caotico e dove dovrebbero trovarsi delle aiuole non c’è altro che erbacce. Decisamente il popolo mongolo non ha un grande senso dell’estetica per quanto riguarda gli ornamenti verdi. Tutto questo va detto considerando il nostro punto di vista. Si potrebbe opinare sulla necessità d’avere giardini decorati, quando a poca distanza iniziano paesaggi incantevoli.Il traffico più intollerabile si limita al centro urbano. Si alternano mezzi pubblici accettabili (di solito ricevuti in nome della collaborazione con Paesi quali Corea e Giappone) ad autentiche carrette stracolme di passeggeri. L’unica cosa che li accomuna è l’ingente fumo che lasciano dietro di loro. Usciamo verso sud per issarci sulla punta di una collina, dove sorge il monumento all’amicizia sovietico-mongola (lo Zaisan), costituito da un enorme cerchio in cemento sostenuto da due pilastri, all’interno del quale sono stati realizzati dei mosaici tesi a testimoniare l’amicizia fra i due popoli. Alla base si trova un ovoo rivolto verso le montagne.Ai piedi della collina sorge un monastero all’aperto, caratterizzato da un’alta statua di Buddha, con relative ruote di preghiera. Spicca nelle vicinanze un carro armato, donato dall’URSS a memoria dell’aiuto prestato dai mongoli nella seconda guerra mondiale. Trattasi di un mezzo sovietico divenuto famoso per essere stato tra quelli ad aver raggiunto e liberato Berlino. Intorno alla collina si trovano delle ger, separate dagli hasha, i cortili che garantiscono la privacy dei mongoli urbani. Poco oltre si trovano delle villette di recente costruzione, a simboleggiare lo status di un ceto borghese in costante crescita.Prima di rientrare nel centro visitiamo il Palazzo Invernale di Bogd Khan, costruito tra il 1893 ed il 1903, in cui visse l'ultimo re mongolo Javzan Damba Hutagt VIII. Questo complesso di templi ospita numerose opere d'arte buddista e la collezione privata di oggetti e abiti del re, fra cui spiccano una ger rivestita con le pelli di 150 leopardi delle nevi e numerosi animali rari impagliati, frutto delle stravaganti passioni esotiche del sovrano (foto).A seguire ci spostiamo verso Gandantegchenling, uno dei tre grandi monasteri rimasti dopo le purghe staliniane. Sorto nel 1838, è il più importante della Mongolia, al cui interno sorgono splendidi templi. In passato contava più di 10.000 monaci ed è considerato punto di riferimento da tutti i fedeli buddisti. Assistiamo in silenzio ad una cerimonia. La voce gutturale dei lama si diffonde nell’aria, offrendoci per la prima volta la netta percezione di trovarci nel vero Oriente. Spiccano molti ragazzini. Sono infatti i genitori che li indirizzano verso la vita monastica già all’età di 5 – 6 anni. A volte si tratta di vera ispirazione religiosa, in altri casi si tratta di un rimedio per non finire sulla strada quando le famiglie non possono permettersi di allevarli. Tutti questi monasteri sono stati ristrutturati dopo il 1990, sovente con contribuiti provenienti da altri Paesi buddisti. Sembra che i cinesi nel XV-XVI sec., contrariamente a quanto fecero i sovietici, durante l’occupazione della Mongolia promossero attivamente la proliferazione del buddismo fra tutti i ceti. Molti uomini divennero lama (si parla di metà della popolazione maschile) finendo per indebolire ogni resistenza attiva verso l’occupante. Quando arrivarono i sovietici trovarono i monasteri popolati di monaci (fino a diecimila per i più importanti) e misero in atto una politica di deportazione e sterminio nei loro confronti. Vediamo anche la statua dorata del Buddha Migjid Janraisag (Avalokiteshvara) nel tempio di Migjid Janraisig, alta 26,5 mt., riempita all’interno di sutra, formule di mantra e erbe medicinali. Tutt’intorno si trova un numero incalcolabile di ruote della preghiera. Il fedele, facendo girare tali ruote, è come se recitasse le preghiere in esse contenute, e queste salissero al cielo. Nelle vicinanze si trova anche l’università del Buddismo e, sempre all’interno del complesso, si trovano altri templi.Pranziamo all’Altaj Mongolian Barbeucue, che si traduce in un buffet ricco di carne cruda di vari generi. Lo portiamo agli chefs, i quali lo cucinano all’instante sulla piastra intrattenendo il pubblico in attesa fornendo loro varie acrobazie con le porzioni. Normalmente quello che salta in aria finisce nel piatto del legittimo cliente.Passiamo dai Grandi Magazzini di Stato, quello che qui definiremmo un centro commerciale, un tempo appannaggio soprattutto degli stranieri, oggi meta anche dei locali. Si tratta di un giro esplorativo tanto per vedere le alternative che offre lo shopping locale. Troviamo diversi oggetti che attraggono la nostra attenzione e ci diamo appuntamento per l’ultimo giorno, quando avremo un’idea più chiara di cosa mettere nella valigia per il rientro.Arrivano finalmente le 14,30 e ci spostiamo al Museo di Storia Naturale, ricco di animali endemici impagliati. Fiore all’occhiello del museo sono gli scheletri di dinosauro rinvenuti nel deserto del Gobi. I più recenti hanno 70 milioni di anni. Assai interessanti anche le uova di questi rettili appartenuti ad un’era che stentiamo ad immaginare.La giornata è stata calda ed abbiamo visto diverse persone (soprattutto signore) andare in giro con gli ombrelli aperti per ripararsi dal sole, oppure semplicemente coprirsi con delle borse portadocumenti. Non si capisce se sia per timore delle radiazioni solari o per non abbronzarsi. Come accadeva da noi un tempo, la pelle bianca è indice di classe. Altre invece indossavano una fasciatura sulla bocca, probabilmente nel tentativo di ridurre lo smog assorbito.Rientriamo in hotel per una doccia rinvigorente ed usciamo alle 17,30 per recarci ad assistere ad uno spettacolo di musica e folklore locale. Costumi locali a tinte vivaci, maschere talvolta aggressive ma ricche di significato, canti di gola (o kööhmii) vanto di questo Paese, infanti contorsioniste che riesce difficile catalogare fra giovani artiste o geishe sfruttate, ci calano nella tradizione di questo popolo ricco di storia ed orgoglio. Rappresenta un ottimo sistema per prendere contatto con l’aspetto più edonistico della società.Andiamo a cena al Modern Nomads, dove sperimentiamo il khorkhog, un piatto contenente pietre roventi e costine di montone. Ci accontentiamo di mangiare quest’ultimo, semplicemente delizioso. Convinti che per oggi possa bastare ci rifugiamo per un meritato riposo in hotel. La bella vita è finita, domani inizia l’avventura! Ma non sarà di certo questo a toglierci il sonno e nemmeno i clacson e fuochi artificiali che si sentono provenire dalle strade del centro: la Mongolia ha vinto il suo primo oro olimpico in assoluto, proprio a Pechino e nella disciplina del judo. Più che legittima l’euforia e l’orgoglio nazionale.SECONDO GIORNOLasciamo la capitale in una bella giornata dopo esserci assicurati di aver preso tutto il necessario, anche per i pernottamenti in tenda, e si parte in direzione ovest per proseguire successivamente verso nord. La periferia è costellata da campi ger sorti negli ultimi anni in seguito ai numerosi inverni particolarmente freddi (denominati zud) susseguitisi nei primi anni di questo secolo. Sterminando il bestiame di cui vivevano, i pastori si sono trovati a dover affrontare una ben più triste transumanza verso la città. Hanno così ingrossato le fila della popolazione povera, senza un lavoro che possa dirsi tale, disadattati nel dover condurre una vita che non è la loro: quella del pastore e in aree rurali. Questo ha incrementato l’uso di alcolici come la vodka, che in principio dovevano servire per limitare il dolore di aver perso tutto, in realtà non ha fatto altro che aggravare il disagio. Questo alcolico venne inserito nel tessuto sociale dai sovietici per ammansire la popolazione negli anni ’70 ed è ancora ampiamente diffuso, sebbene da più fonti si afferma che il consumo di vodka sia in declino e che i giovani preferiscono la buona birra di produzione locale. Troveremo molti ubriachi, talvolta molesti nei confronti di altre persone, ma mai aggressivi. Anche qui si vede il carattere pacifico seppure nella piaga dell’alcolismo. Man mano che ci si allontana i quartieri di ger scompaiono per lasciare spazio alle prime praterie con rare tende isolate: finalmente le troviamo collocate nel posto giusto, quello pensato dalla Natura. Mentre procediamo incontriamo prima il crematorio della capitale e quindi il cimitero. La regola religiosa vuole che i corpi vengano cremati prima dell’inumazione. Sarebbe comunque impensabile inumare i corpi nella terra considerando le rigide temperature invernali.Poco prima di Darkhan svoltiamo verso ovest. Proseguendo verso nord, in poche decine di km ci saremmo trovati in Siberia. E’ stupefacente come, pur trattandosi di un incrocio significativo, non vi siano indicazioni di direzione. L’autista fai da te avrebbe sicuramente vita dura non solo nell’orientarsi, ma anche nel scegliere la giusta via. Incontreremo questa mancanza di segnaletica un po’ in tutti gli incroci che troveremo. La strada finora è stata asfaltata sebbene con evidenti buche, ma prendendo per Erdenet migliora. In prossimità delle strade asfaltate si trovano dei caselli che richiedono il pagamento di un pedaggio (di solito sui 5000 T.). La velocità media si aggira sui 90 km/h. Ci fermiamo per qualche minuto a Hötög, villaggio evidentemente progettato e costruito seguendo lo stile sovietico, dove la nostra guida ha vissuto per 4 anni quando era ragazzino e suo padre faceva il poliziotto. La guida ci spiega di essere per metà di etnia bayad e per l’altra metà khalkha. Sua nonna proveniva dall’aimag di Uvs, da dove si è spostata in occasione dell’ultima guerra mondiale, essendo dottoressa militare. Imbocchiamo infine una pista sterrata ed in cattive condizioni che in 35 km porta al Monastero di Amarbayasgalant (foto a sinistra). In realtà si tratta di due e a volte anche tre piste che corrono parallele ad una distanza di pochi metri e di tanto in tanto finiscono per incrociarsi. Sta all’abilità degli autisti scegliere la migliore per incappare in un numero minore di buche. Questo sistema serve a schivare i mezzi che arrivano in senso inverso e a sorpassarne altri. In questo caso bisogno però centrare la pista più rapida in termini di sobbalzi. Sorpassare qualcuno significa anche ingerire quantitativi inferiori di polvere e a scapito purtroppo di chi sta dietro. Si attraversano frequenti guadi, dove incontriamo parecchie auto impantanate con i passeggeri intenti a spingere per farle uscire dall’acqua. Il viaggio dura in tutto 5 ore, di cui buona parte su strade asfaltate. Ma non è il caso di montarsi la testa: d’ora in avanti lo sterrato rappresenterà quasi la totalità del nostro itinerario. Il monastero è uno dei più belli ed importanti della Mongolia. Venne costruito fra il 1727 e il 1737 dall’imperatore manciù Kansu secondo i canoni dello stile cinese. E’ dedicato a Zanabazar, primo imperatore-lama, scienziato e grande scultore, la cui salma venne traslata qui nel 1779. Si percepisce fin da subito che i templi hanno un’origine cinese e se ne ha una conferma nel vedere le preghiere nella stessa lingua. Troviamo il luogo incredibilmente affollato per una ricorrenza religiosa, alla quale si affianca per l’occasione un Naadam (corse a cavallo solitamente montati a pelo e montati a pelo solitamente da ragazzini a partire dai 5 anni che a cui, che i mongoli considerano guidati da ragazzini a partire dai 3 anni, che i mongoli considerano lo sport preferito in estate), del quale riusciamo a vedere l’arrivo in volata. Cerchiamo il ger camp, che si trova ca. 10 km prima del monastero. Pranzo sul tardi con specialità locale, i buuz (involtini di pasta ripieni di montone e cipolla cotti al vapore), dal gusto intenso ma eccezionalmente buono. La ger è gradevole e pulita, con servizi esterni, come sempre accade nei ger camps. Ritorniamo al Monastero per visitarne l’interno in un clima gioioso di festa, anche se le celebrazioni sono ormai terminate. Venditori di airag, altre bevande e giocattoli ornano l’ingresso, mentre all’interno un profumo d’incenso pervade l’aria circostante. La tradizione buddista prevede che vengano fatte delle offerte in onore delle varie divinità, che vanno da piccole somme di denaro agli alimentari (riso, biscotti e pezzi di formaggio). Il tutto conferisce un senso di disordine e sporcizia, ma fa parte della tradizione. Capita anche di trovare delle offerte di denaro poste sugli ovoo, senza che nessuno le raccolga.Cena al campo con involtini alla coreana e bevendo tè, la bevanda che di solito accompagna i pasti. Le mandrie di bestiame sono molto frequenti ed è bello vedere i cow-boys a cavallo mentre le radunano. Forse è una delle immagini maggiormente rappresentative della vita agreste in Mongolia ed effonde un senso di libertà. Il che, per contrasto, spiega il disagio che provano a vivere in città. Visitiamo anche i dintorni del monastero, salendo su una collina la cui cima è arricchita da ovoo e bandierine tibetane, per ammirare il paesaggio da dall’alto. In effetti la vista del Monastero di cui spicca il colore rosso in mezzo al verde delle praterie circostanti e delle basse montagne che si elevano tutt’attorno, offre un panorama incantevole.TERZO GIORNOLa notte scorre via fresca e la coperta spessa ci torna assai utile. Alle 8,45 ci troviamo già ad Amarbayasgalant per vedere le cerimonie nel tempio. C’è già molta gente che si accalca, mentre all’interno i monaci intonano le loro preghiere cantate. Un’abbondanza di dolci, riso ed altri alimenti stanno a significare le offerte verso le divinitàIl cielo è sereno, con qualche velatura alta, mentre ci dirigiamo verso Erdenet , la seconda città della Mongolia, con una popolazione di ca. 70.000 abitanti. Ampi pascoli con numerosi vitelli che amano sostare sulla strada. La città ha una marcata struttura sovietica e se non bastasse, a ricordarcelo campeggia un grande mosaico del volto di Lenin sulla parete di un palazzo. Cerchiamo invano di visitare la miniera di rame che essendo sabato è chiusa ai turisti. E’ una fra le dieci miniere più grandi del mondo e da sola produce il 40% dell’export mongolo, consumando quasi la metà dell’elettricità del Paese. Erdenet trae la propria sussistenza unicamente da questa attività. Visitiamo il monumento dedicato all’amicizia sovieto-mongola: dalle bottiglie rotte deduciamo che funga da ritrovo notturno per gli alcolizzati, i quali implicitamente bestemmiano i sovietici per avere introdotto la vodka. Ne compriamo anche noi una bottiglia per le emergenze freddo che potrebbero coglierci nei prossimi giorni. In 60 di km raggiungiamo Bulgan e qui diamo definitivamente l’addio alla strada asfaltata. Pranziamo in un locale dall’arredamento tanto appariscente quanto pacchiano, in cui le mosche la fanno da padrone assoluto. La strada che si apre davanti a noi è già un acconto dell’inferno. Il tutto, se possibile, viene aggravato dalla costruzione di una strada che in un futuro poco prossimo collegherà U.B. con il nord ovest. Si tratta della cosiddetta Millenium Road. Alcuni scettici sostengono che il nome sia dovuto al fatto che impiegheranno mille anni per costruirla. Le piste che sono nate a fianco sembrano essere state bombardate ed i mezzi pesanti che la frequentano non aiutano di certo a spianarla. La polvere è una compagna costante che impedisce il respiro. Incontriamo un camion carico di persone: ci dicono essere dei carcerati che stando andando al lavoro per la costruzione della strada. Anche su questo punto ci rendiamo conto come la Mongolia sia più avanzata delle nostre “democrazie garantiste”. In altri tratti gli appalti sono stati vinti da imprese cinesi, le quali si sono portati dietro i mezzi meccanici e la manovalanza. Di tanto in tanto incrociamo dei vecchi camion stracolmi di lana ovina.In questa regione l’etnia dominante è quella buriata, la quale preferisce le costruzioni in legno piuttosto che le ger.Sullo sterrato iniziamo a vedere i minivan della UAZ, che tutti dicono essere i più affidabili e caratterizzeranno il paesaggio motorio della steppa. Stesso discorso vale per le jeep E69, brillanti per la resistenza, meno per il comfort. Attualmente la gente predilige le jeep giapponesi in quanto sono più comode ed il prezzo delle russe è aumentato fino ad essere quasi simile ad un buon usato made in Japan.Superiamo il pedaggio sul fiume Sengel, il più lungo del Paese, che da qui deve percorrere ancora un centinaio di km prima di gettarsi nel lago Bajkal in Siberia. Da Bulgan al luogo dove diciamo basta e piazziamo la tenda impieghiamo circa 3h ½ per percorrere ca. 140 km. In tutto abbiamo realizzato 320 km, grazie sostanzialmente alla prima parte di asfalto. Nell’ultimo tratto, essendo finiti i cantieri per la costruzione della nuova strada, riusciamo a recuperare un po’ di velocità e chiudiamo con una media sui 40 km/h. Il luogo dove piantiamo le tende si trova un decina di km a ovest di Houtag Ondor, in prossimità di una ger nomade, dove abbiamo il piacere di conoscere l’ospitale famiglia composta da padre, madre e un bambino di 5 anni con sua sorella. Ci offrono del tè salato con latte (süütei tsai), che assaggiamo con piacere, biscotti e l’aaruul (cagliata di latte essiccato, foto). Quest’ultimo ha la forma di un biscotto durissimo, è salato ed ha un gusto acidulo che è destinato a piacere solo al palato di pochi occidentali. Ci dicono che in questo periodo si nutrono essenzialmente di derivati del latte, in quanto la carne andrebbe rapidamente a male se uccidessero degli animali. Finiscono le scorte di carne secca fatta essiccare in precedenza, mentre in inverno potranno sfamarsi con la carne fresca. Le temperature superano di frequente i -30°C. Di regola in un anno fanno 4 campi diversi e posseggono 500 pecore e 50 cavalli e possono considerarsi benestanti, sebbene i prezzi che gli offrono i mercanti di U.B. quando arrivano a comprare gli animali in autunno siano sempre più bassi. I ragazzi vanno a scuola da settembre a giugno e, non potendo rientrare a casa, si fermano in locali dormitorio che la scuola mette a disposizione. Per la prima volta ci imbattiamo nella proverbiale ospitalità della gente nomade e restiamo meravigliati per la disponibilità che dimostrano nell’accogliere dei forestieri. Quanto abbiamo occasione di sperimentare va ben oltre le già lusinghiere informazioni fornite dalle guide che abbiamo letto. Pernottiamo vicino ad un torrente e prima di cena viene a trovarci un pastore con l’immancabile deel (vestito lungo, simile ad un pastrano) a cavallo della sua moto russa. E’ molto simpatico e con lui diciamo subito le uniche due parole di mongolo che conosciamo, finendo in breve la conversazione. Per fortuna i nostri accompagnatori riescono ad intrattenerlo meglio. Sta tornando a casa, che si trova ad una ventina di km. Vanta di distillare la migliore vodka ricavata dal latte (lo shimin arikh) e ci invita a berne quanta ne vogliamo. La cena avviene al lume di una splendida luna piena, mentre il freddo cala sull’ambiente circostante e s’impossessa delle nostre membra. Bere qualche birra o tazza di tè in più si rivela assai disagevole per le conseguenti uscite verso la toilette. Uscire dal sacco a pelo nel cuore della notte non è una esperienza granché tiepida, ma consente tuttavia di ammirare il silenzio della steppa mentre si espletano i propri doveri fisiologici.QUARTO GIORNOContinuiamo lo spostamento verso Huvsgul sotto un sole che di tanto in tanto si cela dietro un sottile velo di nuvole, ma basta questo per irrigidire immediatamente la temperatura. Andy ci fa notare come Gengis Khan abbia sempre cercato di tenere i mongoli lontano dagli alcolici per evitarne le nefaste conseguenze. Paradossalmente, quasi oltraggiosamente, ora esiste addirittura un marchio di vodka che porta il nome e l’effige del valoroso condottiero medievale. Fin dai primi giorni ci stupisce l’insensibilità ecologica dei mongoli nel lasciare in giro i rifiuti. Vengono semplicemente abbandonati nel luogo in cui non servono più E’ così che lungo le strade si trova ogni genere di immondizia, con forte prevalenza di bottiglie di alcolici. Anche nei giorni a venire resteremo stupiti di come un ambiente così bello venga inquinato da rifiuti lasciati ogni dove. A stupire non è tanto la scarsa igiene che si vede all’interno delle ger, non molto diversa da come vivono i nostri montanari. Non sarebbe del resto possibile mantenere tutto lucido in un ambiente simile. E’ piuttosto l’indifferenza con la quale lasciano ogni genere di rifiuti sul terreno pubblico, senza curarsi almeno di ammucchiarli da qualche parte. Il tutto peggiora poi nelle città e nelle periferie. Sveglia alle 7 e partenza verso le 9.30 dopo aver fatto colazione a base di salumi, purée e cipolle fritte ed impacchettato le tende. Alcuni pastori stanno portando una capra al macello. Sembra una processione, uno tira la capra, mentre un altro segue con un contenitore dove versare il sangue. Ci viene riferito che le capre sono animali molto intelligenti, pertanto si rendono conto e scalpitano quando è stato deciso il loro momento finale, diversamente dalle pecore che conservano così la loro mansuetudine fino al termine della loro vita. Il paesaggio che ci scorre di fianco sembra austriaco, un altipiano alto sui 1300 mt, ricco di lariceti e verdi pascoli. Un cow-boy dorme coricato per terra a pochi metri dalla strada mentre il suo cavallo attende il risveglio del padrone. Alcuni ragazzini cercano di fermare le poche auto per vendere i mirtilli appena raccolti. Li hanno dentro dei barattoli e, non appena ries cono a venderne uno lo versano dentro una borsa. Il vuoto è prezioso.Fermata per sosta idrica a Ih Uul, dove vediamo da fuori un tempietto buddista. La giornata diventa più grigia man mano che saliamo di quota, mentre il verde intorno resta lussureggiante. La pista di tanto in tanto corre nel letto del torrente in secca. Anche qui, come già visto in Australia, si trovano tutta una serie di alberi che ornano i torrenti, i quali si riempiono solo in occasione del disgelo primaverile. Prima di arrivare a Mörön prendiamo qualche goccia di pioggia. Quando arriviamo in città il cielo tende a schiarirsi. Oggi è domenica e molta gente frequenta il mercato, che di solito si chiama mercato dei container, visto l’abbondante uso che ne viene fatto per adibirli a negozio. Un paio di ubriachi si regge in piedi a vicenda, mentre altra gente ben vestita mette in mostra il deel della domenica. Stante il tempo incerto e l’ora non tarda, decidiamo di puntare immediatamente su Khatgal e quindi alla ger sul lago Huvsgul, saltando il campo tendato previsto per stanotte. Si prende una pista che dopo qualche tempo diventa sempre più esile fino a scomparire, in cerca di nuove emozioni più panoramiche. In effetti quello che vediamo riempie la vista e ci fa sembrare meno dure le asperità del terreno. Sono molti gli animali che pascolano nella prateria, fra i quali spiccano i primi yak, animali che esigono temperature fresche anche in estate, e gli hainek, ibrido fra lo yak e la mucca, dal pelo leggermente più corto rispetto al bovino dalle lunghe frange. Su questi altipiani alti 1900 mt. si vedono ancora delle ger, che ci tornano utili per ritrovare una pista, quando ormai pensavamo d’averla persa definitivamente. Essendo un Paese privo di indicazioni stradali, con poco traffico, ma con un intenso reticolato di piste poco battute, le informazioni presso le ger sono di vitale importanza. Del resto più di metà della popolazione mongola vive in questo tipo di casa. E’ così che ci fermiamo presso una gentile signora, la quale ci spalanca la porta di casa sua e ci offre aaruul di pecora e di yak, nonché lo tsuivan, tagliatelle tagliate a mano con carne di montone sminuzzata ricca di grasso e cipolle soffritte. Il tutto viene offerto in una scodella, che successivamente viene sciacquata alla buona per versarvi il tè col latte. Il gusto è molto buono, nonostante la rusticità di tutto quanto ci circonda. Non nascondo che non sia stato facile ingoiare i primi bocconi, ma un non si può e soprattutto non si deve rifiutare quanto viene offerto con tale gentilezza. Prima di offrire del cibo a noi la signora ha messo un po’ di tsuivan in una scodella e l’ha posto su uno scaffale per le divinità, prima ancora ne aveva messo qualche briciola nel fuoco a ricordo dei morti. Una volta fatta l’abitudine anche al gusto misto fra selvatico e dolciastro del montone, non ci sono stati problemi per il resto del viaggio. La famiglia possiede 400 animali, soprattutto capre e yak. Sono di etnia dharkad, che vivono soprattutto nel Khuvsgul settentrionale, in condizioni che in inverno pochi potrebbero sopportare (ci dicono che le temperature raggiungono i – 40/45°C.). Effettuano 4 migrazioni all’anno. Stanno attendendo il rientro della figlia che studia a U.B. per la migrazione autunnale. L’accoglienza particolarmente calda è anche dovuta, oltre alla proverbiale generosità di questa gente, al fatto che eravamo i primi stranieri ad entrare nella loro ger. Uscendo vediamo un bottiglia di plastica da 2 lt. appesa rovesciata con il fondo tagliato. E’ un “lavandino” che si riempie e si apre leggermente il tappo per far scendere l’acqua nella quantità desiderata. La quota sui duemila mt. rende il clima frizzante ma, come per incanto, rispunta il sole e troviamo anche una pista che porta indicativamente nella direzione desiderata. Ci raccordiamo infine sulla strada principale che conduce a Khatgal, senza peraltro che questo ci consenta di aumentare la velocità di crociera, stante i continui sobbalzi. Ci lasciamo alle spalle Khatgal mentre il sole sta tramontando e costeggiamo il Lago Huvsgul passando sul lato occidentale. Anche qui la strada è infame a causa della costruzione di nuova arteria che in futuro raggiungerà comodamente i campi ger dislocati lungo il lago. Arriviamo al nostro campeggio quando sono ormai le 21 ed il buio ha avvolto le foreste che lo circondano, mentre la luna sale ad illuminare il lago come in un film. La cena è servita quasi se fossimo in un ristorante d’elite, ma fortunatamente i piatti non hanno la stessa ricercatezza. Non c’è corrente nella nostra ger e leggiamo qualche riga sul programma di domani al lume di una candela prima di assopirci.QUINTO GIORNOOggi scopriamo quanta poca acqua possa bastare per lavarsi la faccia al mattino, quando ne consumiamo decine di litri in inutili quanto talvolta dannose docce quotidiane. Al piccolo contenitore metallico da ca. 2 litri è attaccato un rubinetto dal quale esce un filo d’acqua che, una volta usata finisce in un secchio e viene eliminata. Un altro secchio serve per immettere acqua fredda che può mischiarsi ad alcune gocce di calda contenute in un termos posizionato accanto. Gli inservienti controllano regolarmente lo status dei secchielli. Finisce così che per una lavata di faccia possa sorprendentemente bastare ca. ½ lt. d’acqua, mentre per i servizi igienici questa risorsa non viene usata. La si fa in WC appositamente creati, sotto i quali si trovano dei contenitori e si ricopre il tutto con della segatura. Non che manchi l’acqua, ma trovandoci vicino ad un lago di vitale importanza per i pochi coraggiosi umani che ci vivono intorno, è importante non inquinarlo. Pertanto tutti i rifiuti vengono portati via. La nostra ger ha due letti (ma nel campeggio ne esistono di più grandi, fino a 6 posti) e consta di 62 listelli che convergono verso la ruota centrale a formarne il tetto.Un generatore a gasolio è in funzione dalle 20 alle 23 ed in quell’orario si possono portare le utenze elettriche nella zona ristorante per la ricarica. Diversamente bruciano legna per la cucina e per riscaldare l’acqua delle docce, quando il pannello solare non basta. Il lago Huvsgul è uno dei più profondi laghi di acqua dolce dell'Asia Centrale (262 m), il secondo più antico del mondo e contiene il 2% delle risorse idriche dolci del mondo, nonché uno dei luoghi più incantevoli della Mongolia, circondato da montagne innevate e fitte foreste. La zona è infatti costituita in gran parte dal foreste di taiga (conifere subartiche). Il lago ghiaccia fin quasi ad un metro e mezzo e non disgela completamente fino a giugno. In inverno diventa un’importante via di comunicazione, anche per i camion più pesanti. E pensare che siamo poco sopra il nostro parallelo.Avendo un giorno di vantaggio su quanto preventivato dal programma, lo destiniamo ad un’escursione sui monti che cingono il lato occidentale del lago. Ci infiliamo nella foresta di larici prestando la massima attenzione a dei riferimenti presi in precedenza. E’ tutto in piano e molto fitto, pertanto bisogna arrivare alla radura situata poco più in alto nel punto esatto. La centriamo con perfezione chirurgica dopo un’ora e dieci di cammino e di lì inizia la salita vera e propria, aprendosi a paesaggi che via via si fanno sempre più ampi. Sotto di noi il lago dimostra la sua grandezza, contornato da splendide lagune che già prenotano i nostri impegni pomeridiani. Raggiungiamo la cresta e la vista spazia sul versante che dà verso l’interno, con la catena montuosa del Saridag, nonché la strada che conduce nei territori degli Tsaatan. La vetta che raggiungiamo con un balzo di 900 mt di dislivello per 1h50’ di fatica si chiama Hirbist Uul (foto), a 2515 mt., ed è la più elevata della zona. In cima si trova un piccolo ovoo, sul quale gettiamo anche noi l’offerta di una pietra ed aggiriamo in senso orario, secondo il costume locale. Alta nel cielo volteggia un aquila e tiene d’occhio i nostri movimenti, ma noi siamo venuti e torniamo in punta di piedi, senza disturbarla. Scendiamo rapidamente sotto un sole limpido per non mancare l’appuntamento prandiale, sfruttando una traccia di sentiero usata dai cavalli quando vengono da queste parti con dei clienti. Il menu prevede gli tsuivan, ma in questo caso le esigenze del turismo impongono allo chef di eliminare il grasso del montone dalla carne. Mentre nella ger nomade di ieri il grasso costituiva una risorsa contro il freddo qui sanno che i sensibili palati occidentali poco gradirebbero un ammasso di grasso intorno alla carne. Facciamo la conoscenza di un ricercatore americano, il quale di professione organizza delle fiere su Gengis Khan. E’ appena arrivato dal deserto del Gobi e ci lascia il nominativo di alcuni suoi conoscenti intenti nella ricerca di ossa di dinosauri. Se dovessimo incontrarli avremo la sua indicazione per farci raccontare delle ultime scoperte in materia.Un’ora e mezza di meritato riposto fuori dalla nostra ger e siamo di nuovo pronti a ripartire per visitare la laguna vista stamattina dall’alto. E’ un luogo che sembra creato appositamente per le esigenze fotografiche, non fosse che il sole di tanto in tanto si cela dietro qualche nube passeggera. Una doccia ristoratrice ed ancora un momento di riposo. Una mandria di yak rientra dal pascolo creando un sipario che vede come splendido sfondo il lago.La cena arriva puntuale alle 19,30. Si tratta di carne più simile ad un ragout pressato e cotto al forno che ad un hamburger, sovrastato dal purée. Parlando con i nostri accompagnatori, che partono da una concezione di nomadismo negli spostamenti, ci chiedono se quando andiamo in montagna spostiamo anche i mobili. Questo no, ma visti i pesanti carichi poco ci manca! Anche stasera la luna riflette la sua luce sul lago, assumendo colori sempre più dorati man mano che si alza nel cielo. Qualche pagina letta al lume di candela ed infine ci si concede un buon riposo ristoratore, aggiungendo però una coperta. Ci troviamo a 1645 mt. e fa freddo. La stufa scalda fino a sembrare una sauna, ma di lì a poco smette la sua preziosa efficacia ed il freddo s’impadronisce del locale.SESTO GIORNOAlle 5 di mattina un’inserviente viene a bussare per accendere la stufa nella nostra ger. Il tepore sviluppato ci dà il coraggio di uscire fuori dal letto alle 6.30. Colazione alle 7. Oggi il programma prevede l’incontro con una famiglia Tsaatan, l’etnia del popolo delle renne. Sono rimasti in 220 e vivono di pastorizia con le renne in una delle sei zone più proibitive ed inospitali del pianeta, vicino al confine con la Siberia e più precisamente con la Repubblica Autonoma di Tuva. Le temperature invernali non di rado superano i -50°, mentre la gente vive in tende coniche formate da tronchi di larici. Non più le ger ma una tipologia abitativa molto più simile a quella degli indiani d’America. Anche i tratti somatici sembrano gli stessi, confermando la teoria che le popolazioni indiane traggono le loro origini dagli asiatici che in tempi antichi migrarono attraverso lo stretto di Bering. In particolare sono proprio i lineamenti dei mongoli a portare ad un accostamento con i loro cugini americani. Anche la lingua, molto gutturale e di gradevole ascolto, sembra foneticamente imparentata con quella dei nativi d’America, sebbene lo chiamino il tedesco dell’Asia. La lingua mongola deriva comunque dal gruppo turco altaico ed ha un suono molto diverso dal cinese. Fino al 1948 si scriveva in verticale con i caratteri uiguri, poi venne adottato l’alfabeto cirillico con alcuni adattamenti necessari per l’espressione di una lingua non slava. Dicono di avere qualcosa in comune con il coreano e con il giapponese. Per un mongolo è meno difficile imparare queste due lingue, mentre scrivere è cosa assai più complessa. Il cinese resta lontano, tanto nella lingua che nella cultura.Percorriamo i 26 km che ci portano alla tenda degli Tsaatan su una strada ricca di sobbalzi. Quando vediamo una tenda conica costruita con tronchi di larice e ricoperta da un telo impermeabile sappiamo di aver raggiunto la nostra meta. Sono già evoluti: in passato ricoprivano le tende con le pelli degli animali. Dal centro del tetto esce il camino fumante di una stufa. Pur essendo forato ci diranno che il calore del camino impedisce alla pioggia d’entrare. Sarà cosi! Entriamo e troviamo una signora vestita con un deel, che in origine doveva essere di colore viola. Ci accomodiamo sul lato destro (sinistro rispetto all’entrata) tradizionalmente riservato agli ospiti, mentre lei occupa la posizione opposta a quella d’ingresso. Dopo alcuni convenevoli che ci scambiamo con la traduzione della guida, ci chiede se abbiamo delle domande da farle. Apprendiamo così che vivono allevando 17 renne. Ha 59 anni e 6 figli, di cui alcuni anche piccoli e restiamo allibiti quando scopriamo di trovarci di fronte ad una sciamana. In quanto tale è anche l’espressione medica della tribù. Prevenendo ogni nostra obiezione ci dice che di ospedali nelle vicinanze non ce ne sono e che i riti sciamanici, a differenza delle medicine occidentali, non hanno alcun effetto collaterale. Mentre noi per curare un organo finiamo sovente per danneggiarne un altro. Troppo facile ma anche difficile per controbattere e lasciamo cadere il discorso. Appesa all’interno della tenda c’è della carne tagliata a liste, messa ad essiccare. Sull’altro lato si trovano delle erbe medicinali anche loro per essiccare. Mentre alle spalle della sciamana vediamo i paramenti che usano durante i loro riti. Riti che vengono celebrati in determinate occasioni come funerali o festività. Il loro dialetto è molto vicino al tuvano, pertanto devono parlare in mongolo, almeno per capirsi con la nostra guida. Ci vengono offerti dei pezzi di pane fritto nel burro e non lievitato, si chiama bortzig. Dall’aspetto sembrano quasi dei babà salati. Se si dimentica l’impatto devastante che potrebbero avere sui nostri fegati già falcidiati dallo stress, potrebbero anche essere buoni. L’ospitalità vuole inoltre che ci vengano offerte delle costine di renna bollite e servite fredde. Ci limitiamo ad un assaggio, mentre i nostri accompagnatori non disdegnano di banchettare. Dentro ad un wok appoggiato direttamente sul fuoco della stufa fanno cuocere del tè in foglie, vi versano il latte delle loro renne prelevato da una bottiglia di coca cola (riciclare è una necessità prima ancora che una scelta ambientalista), lo colano per separare le foglie di tè e ce lo servono dentro delle scodelle. Superiamo con coraggio la vista del colino e delle tazze e beviamo l’intruglio.Parlando delle renne che abbiamo incontrato in quantità in un precedente viaggio nella terra dei Lapponi, ci chiedono se non sarebbe possibile fargliene arrivare alcune. La loro razza si sta indebolendo a forza di continui accoppiamenti consanguinei e la statura diminuisce. La tribù ha in tutto poco più di mille renne, certo non molte se si pensa che è quasi l’unica fonte di sussistenza. Altro problema è rappresentato dai giovani, sempre meno disponibili ad affrontare una vita di sacrifici come questa. La naturale conseguenza è il loro esodo verso le città. E’ solo parzialmente vero quanto disse un capo Tsaatan: qui nessuno è obbligato a restare, per questa ragione nessuno se ne andrà. Una particolarità di chi segue la religione sciamanica sta nelle sepolture: non seppelliscono i morti ma lasciano che vengano divorati dagli animali, attribuendo un significato diverso a seconda che a divorarli siano animali di terra o uccelli.I bambini frequentano la scuola a Khatgal da settembre a giugno, per le vacanze estive restano con la famiglia. Anche per attendere ai lavori di loro competenza. Quello che da noi si definirebbe sfruttamento minorile lì si chiama educazione al lavoro. Altra lezione che mandiamo in memoria.Si trovano con la tenda vicino al lago per il campo estivo, ma il resto degli Tsaatan vive nelle zone più interne raggiungibili unicamente dopo giorni di cammino a cavallo. Si intuisce chiaramente che questa famiglia è già abituata ad incontrare dei turisti. Ci chiedono 5000 T. per poter scattare delle foto all’interno della tenda, ma resta il fatto che riusciamo a scoprire una cultura ancora più remota di quella delle altre etnie mongole. Le molte sigarette viste fumare durante l’incontro e qualche bottiglia di vodka abbandonata all’interno della tenda ci fanno intuire che una sorta di contagio l’hanno comunque avuto. Hanno uno stile di vita leggermente superiore agli altri della loro etnia grazie alle entrate dei turisti. In un sacchetto che pende al fondo della tenda si trova un cellulare, presente ovunque laddove ci sia la copertura. Gli uomini passano il tempo a bighellonare giocando a carte mentre i bambini giocano allegri, raccogliendo fiori.A poca distanza si trovano alcuni banchetti che offrono artigianato locale: manufatti in osso, guanti e ciabatte ricavati con lana di cammello ed altri souvenirs.Sulla via del ritorno chiediamo al nostro autista di lasciarci alla laguna di ieri dove terminiamo il servizio fotografico rimasto incompleto per la comparsa di qualche nuvola. Durante pranzo apprendiamo che la grande muraglia cinese non è stata costruita per difendersi dalle armate di Gengis Khan, bensì dagli assalti degli Unni, i quali alcuni secoli prima popolavano la Mongolia ed avevano dimostrato velleità di conquista del vicino cinese.Il menù prevede un minestra di pomodori e gli squisiti buuz. Passeggiata verso sud per vedere gli yak al pascolo, mentre si stagliano con il lago sullo sfondo. Il sole ci riscalda ancora qualche minuto fuori della nostra ger mentre facciamo una partita con gli scacchi appena acquistati, la scacchiera è naturalmente in feltro, mentre il re non poteva che essere rappresentato da Gengis Khan. La cena prevede spaghetti al ragout. Ebbene sì, sono endemici di questa parte del mondo se vennero importati da Marco Polo. Alle 19.30 abbiamo visto il sole tramontare dietro le montagne. Dopo pochi minuti il cielo si è oscurato fino ad iniziare a piovere con fulmini che proiettano degli effetti scenici sul lago e sulla foresta che lo circonda. La stufa accesa, la ger illuminata dalla luce fioca di una candela e la pioggia che cade sul telo esterno rendono l’atmosfera surreale. In questo momento non vorremmo essere altrove.SETTIMO GIORNOUn giro a cavallo di un’ora lungo il lago ci restituisce un senso di libertà, che il canto del wrangler vestito con l’abito tradizionale rende ancora più suggestivo. Si pranza alle 12 in punto per essere pronti alle 14. Altre due ore in groppa al cavallo, tanto è stata bella l’esperienza mattutina. Ad accompagnarci stavolta c’è anche il figlio del wrangler. Ha 7 anni e quando è in sella dimostra una padronanza come se sul cavallo ci fosse nato. Ha una gestualità da adulto per imporre al cavallo cosa deve fare, poi quando scende torna un ragazzino come tutti gli altri.Questo ci fa capire il perché del successo di Gengis Khan. Ma è anche vero il detto che ricorda come i regni conquistati a cavallo non possano essere amministrati restando a cavallo. Costeggiamo nuovamente il lago e rientriamo passando per la foresta. Ci invita nella sua ger, straordinariamente pulita ed ospitale, dove non compaiono bottiglie di vodka. Ci viene offerto dello yogurt di yak (tarag o tarikh) e non esito a fare il bis non appena se ne presenta l’occasione. Hanno una piccola televisione in bianco e nero con tanto di parabolica appoggiata per terra fuori della ger, che alimentano con un pannello solare collegato ad una batteria da auto. Quando è ora, collegano le pinze ai morsetti, si vede una scintilla e la TV si accende. Facciamo conoscenza con la sua signora e con lei riusciamo a comunicare a gesti e con il poco inglese che conosce, mentre il marito esce a spaccare legna. Scopriamo che lui ha il titolo di Elefante dell’aimag di Khuvsgul, l’onorificenza più alta guadagnata nelle gare di lotta libera. La stazza imponente infatti faceva supporre che non fosse un danzatore classico, ma solo vedere le sue foto dove mostra i muscoli dopo una gara impone il massimo rispetto. Le medaglie sono appese al fondo a testimoniare l’orgoglio del padrone di casa, trentasettenne. Sono di etnia dharkad. La signora, che ha 43 anni ma ne dimostra persino di più, ci dice che questo è il campo estivo, per l’inverno andranno in montagna. Parendo un controsenso e temendo di non avere capito bene ci facciamo ripetere l’asserzione, ma è proprio così. D’inverno vanno in montagna dove fa un po’ più freddo ma nevica di meno e gli yak possono trovare erba con maggiore facilità. Dispongono di un parco animali composto da 49 yak e 89 pecore. Il figlio a settembre andrà a scuola a Khatgal e vi resterà fino a giugno, quando raggiungerà i genitori nei pascoli estivi lungo il lago. Il poveretto avrà un piccolo incidente la sera stessa: mentre sta spostando alcuni cavalli, altri gli passano davanti ed i suoi tendono a seguirli. A questo punto il piccolo cerca invano di trattenerli scivolando per terra e scorticandosi. Solo quale graffio, ma l’attento quanto severo ma nel contempo amorevole padre gli vieta di piangere di fronte ad altri. Non si addice ad un uomo! In effetti fierezza ed orgoglio dovrebbero essere una virtù, ma ormai tendiamo a considerarli valori superati dal relativismo.Riprendiamo i cavalli e facciamo ritorno al nostro campo consci d’aver vissuto una giornata di vera libertà. A tal proposito, in serata incontriamo una signora americana ma nativa della Germania Est, la quale ci racconta di essere scappata 40 anni fa dalla Turingia. La fuga è avvenuta fra mille traversie insieme a suo padre, lasciando a casa il poco che avevano. Lo stesso genitore le aveva fatto promettere di non tornare mai più in quella terra ingrata, ma lei, una volta caduto il Muro e non essendoci più suo padre, è ritornata a far visita ai parenti rimasti ed ai luoghi in cui ha vissuto l’infanzia.Lo chef per cena propone un risotto con carne e verdura, con insalata di carote e aglio tritato. Qualche alitata ci servirà per attizzare il fuoco della stufa! Per cena assaggiamo nuovamente lo yogurt che abbiamo già gustato nel pomeriggio con marmellata di mirtilli, ma è sempre un piacere. Ed è questa la risposta migliore a chi sostiene ancora che in Mongolia si mangia male. Un cielo sereno e fresco accompagna la serata.OTTAVO GIORNOAnche stamane passano ad accendere la stufa nella ger per farci trovare l’ambiente caldo quando ci svegliamo. Oggi c’è il vento ed è un’esperienza che ci mancava ancora. Il fresco si trasforma rapidamente in freddo ed il cielo inizia a coprirsi. Dall’interno della ger sembra che fuori ci sia una grossa ventola accesa. La sistemazione è solidissima e non si muove minimamente, persin meglio di una casa dove ci può essere il rumore esercitato dal vento sui vetri. Ci consideriamo fortunati, avere tre giorni consecutivi di bel tempo sull’Hovsgul è cosa rara. A noi è riuscito e abbiamo cercato di sfruttare appieno l’opportunità offertaci. Osserviamo da alcuni giorni come la gente sia scevra da cerimoniali. Si saluta cordialmente quando si vede ma quando ci si congeda non è necessario un rito di commiato. Si possono avere comunque ottime relazione anche senza tante formalità. Lo stesso quando si dà o riceve qualcosa. Non ci sono particolari salamelecchi, basta un grazie, sapendo che se qualcuno ha dato è perché intendeva farlo e l’espressione di riconoscenza non richiede tanti giri di parole. Aiutarsi è una cosa doverosa ed avviene così, naturalmente.Partiamo all’alba delle 9,10 per raggiungere Khatgal in poco più di un’ora (sono sempre 26 km!). Raggiungiamo Mörön in ulteriori 100 km di strada leggermente migliore. Andiamo al locale mercato dove veniamo in contatto con la vita quotidiana degli abitanti della città. E’ di particolare interesse la zona dedita alla macelleria, dove spiccano le vesciche di montone dalle quali si ricavano degli otri e le teste di montone incellophanate con dei gusti. Solo più da far bollire. i montoni prima di essere macellati devono avere almeno due anni d’età. Uccidere un animale prima di quella data viene considerato uno spreco inutile. I negozi offrono poca verdura, soprattutto quella a lunga conservazione, in particolare patate (750 T./kg) e cipolle. Quasi tutte le case sono in legno con annesso cortile (hasha).Visitiamo il monastero di Danzandarjiaa Khiid e pranziamo qualche decina di km a sud, lungo le sponde del fiume Delger, dove incontriamo i francesi lasciati stamattina al ger camp, mentre sono intenti a desinare.Parlando lungo il viaggio con Andy è curioso notare come quando gli diciamo che il problema maggiore che assilla la nostra società sta proprio nel cervello, non riuscire ad avere dei valori solidi, ci chiede se neanche la religione possa più rappresentare per l’occidente un rifugio edificante.Chi lavora come dipendente paga i contributi per la pensione e sanità, mentre gli vengono detratte le imposte dal salario. I maggiori problemi legati alla sicurezza sono rappresentati dagli incendi che si sviluppano nelle ger. Essendo di materiale infiammabile le scintille provocate dalle stufe possono provocare disastri. Anche i bambini corrono molti rischi al contatto con la stufa, tant’è che spesso vengono legati ad una certa distanza onde evitarne il contatto. Nella nostra società si configurerebbe il reato di sequestro di persona! I pompieri della capitale effettuano la maggior parte dei loro interventi nei campi ger della periferia. Il nome della prossima tappa è Shine Ider Soum (foto) che si traduce in giovane e nuovo, soum sta invece per distretto, una suddivisione dell’aimag, che rappresenta la provincia.Proseguiamo fino al passo Khindavaa, posto a 2350 mt. di quota, con un paesaggio altalenante di ampie vallate che si possono definire altipiani, alternandosi a colli sui 1800/2000 mt. Le praterie sono molto verdi e puntinate da rare ger bianche in mezzo a vasti greggi di animali. Vicino al paese di Shine Ider, lungo una collina vediamo un cimitero nel senso tradizionale che intendiamo solitamente, con pietre poste come lapidi. Il tempo inizia a guastarsi fino ad iniziare a piovere verso il tardo pomeriggio. E’ incredibile come fino a che non piova il paesaggio resti straordinariamente fotogenico, con luci come fari che filtrano fra le nuvole. Ci avviciniamo ad una ger per chiedere il permesso di campeggiare nelle vicinanze. Ci viene accordato ed andiamo a sistemare le tende in prossimità di un ricovero d’emergenza per animali (pecore e capre), costituito da tronchi intrecciati. L’interno è palquettato da ogni genere di escrementi caprini, ma ci torna di grande utilità quando il vento aumenta e diventa impossibile cenare fuori. La cuoca allestisce una cucina all’interno e prepara il makh, tagliando le costine di montone farcite di grasso, comprate al mercato di Mörön. E’ il piatto più classico della tradizione mongola. Le mette a bollire con patate, carote e cipolle, mentre fuori la situazione peggiora fino a piovere copiosamente, di stravento ovviamente. Siamo ad una quota di 2065 mt.Intanto arrivano anche i francesi che piazzano le tende a qualche centinaio di metri da noi. Hanno ricevuto l’offerta di trascorrere la notte in una ger di nomadi ed hanno rifiutato per non disturbare. Se ne pentiranno più tardi, quando la loro tenda verrà sferzata dal vento e dalla pioggia.Nel frattempo cala la notte e ci rischiariamo a lume di candela e di una torcia. Ceniamo nel ristorante improvvisato con le costine bollite di montone. Una volta estratte dalla pentola, la cuoca vi aggiunge della pasta e ci gustiamo una minestrina agli aromi di montone. Bisogna solo spicciarsi, altrimenti il grasso sfreddato forma una spessa coltre sulla superficie rendendola solida e pertanto imbevibile. Forse non è propriamente il pasto suggerito da tutti i dietologi, ma in quelle condizioni risulta particolarmente utile e gradito. Stante l’imperversare del maltempo si decide di portare le tende all’interno e trasformare così il ristorante in hotel. Il profumo, al quale ci siamo ormai abituati e forse siamo perfino impregnati, non è di quelli più ambiti dalle signore dell’alta società, ma il freddo esterno è ben peggio. Non che dentro faccia caldo, tant’è che dormiamo nei sacchi a pelo con tanto di coperta, calzamaglia, pantaloni e pile. Per concludere infilo una maglietta solo per coprire la testa e riparare l’unica parte esposta. Ci ricordiamo infine della bottiglia di vodka comprata alcuni giorni fa e rimasta nella jeep per le occasioni d’emergenza. Questa lo è, e la finiamo in un amen con alcuni quadretti di cioccolata. Nonostante tutti questi espedienti la notte trascorre lenta, con frequenti risvegli dovuti al freddo.NONO GIORNOSebbene dormire sia poco più di un’opinione, quando fuori inizia a vedersi il chiaro pare un miracolo. Esco fuori dalla tenda, e quindi dall’ovile cercando di muovere le membra lentamente, come se fosse un disgelo. Inizio a camminare verso l’alto come spinto da una necessità superiore. E’ quella di rimettere in circolazione un po’ di sangue. Raggiungo una modesta elevazione e mi metto a correre all’impazzata per ristabilire un minimo di tepore corporeo. Il raffreddore che era incipiente fino a ieri è diventato una vera e propria realtà. Il sole sta per sorgere imperioso e freddo, mentre il silenzio e le dolci ondulazioni delle colline ci parlano dei tempi in cui questi luoghi erano battuti dalle orde di Gengis Khan. Dopo pochi minuti mi raggiunge Bruna ed insieme commentiamo i rigori della notte. Osserviamo stupiti i nomadi che iniziano le loro attività mattutine riportando le greggi al largo e mungendo gli yak. Ci pare incredibile come questa gente possa muoversi con noncuranza del freddo, anzi, quella che per noi è una mattinata gelida, per loro è semplicemente l’inizio di una giornata estiva. L’inverno deve ancora venire, e sarà cosa ben diversa da quella che noi soffriamo adesso. Kambah ci dice che quando è uscito ha dovuto grattare il ghiaccio che si è formato sul parabrezza.Nel frattempo gli accompagnatori hanno preparato la colazione all’esterno e Kambah ci offre una scena che fino a pochi giorni fa avremmo semplicemente definito disgustosa. Ha avanzato una costina di montone e l’ha lasciata sul cofano della jeep, tant’è che mi faccio la figura di chiedere se qualcuno ha anche pensato alla colazione dei cani lasciandola lì. Lui invece la prende e ne spolpa la carne mista al grasso, lasciandola cadere amorevolmente nella tazza del tè. Non avevamo capito, ma ora è tutto chiaro e lo sconcerto iniziale diventa quasi ammirazione. La giornata è bella e partiamo che sono le 9. Passiamo dai francesi per vedere come sono sopravvissuti e li troviamo svegli da poco ed intirizziti quanto mai. Avrebbero ancora un paio di pernottamenti tenda ma ci chiedono l’indirizzo del prossimo ger camp. L’esperienza gli è bastata e ritengono che ad una prossima potrebbero anche non sopravvivere. La loro guida, una ragazza, ha dormito nella sua canadese e sembra abbastanza reattiva, mentre il loro autista ha accettato di buon grado l’ospitalità offerta dai nomadi.Si parte in direzione della provincia di Arkhangay. Il paesaggio continua ad altalenare delle belle montagne basse (l’altezza media della Mongolia è di 1580 mt. slm). A poche decine di km dalla partenza vediamo dei cumuli di pietre che sono tombe di epoche antiche, risalenti a oltre mille anni fa. Giungiamo a costeggiare il fiume Ider fino al momento in cui dobbiamo superarlo con un ponte di travi in legno, la cui vista ci gela ancor più della notte appena trascorsa. Prima di attraversarlo ci raccomandiamo a tutti i santi di nostra conoscenza e, una volta giunti sull’altra sponda, alleggeriamo il carico psicologico con alcune foto all’opera dello scampato pericolo. Vediamo dei boschi di larici secchi e ci viene detto che la causa sono degli insetti che stanno distruggendo intere vallate. Sembra che sia stato trovato un rimedio ma lo scempio rimane. A metà mattinata ci fermiamo in una gher per un tè salato ed assaggiamo il burro di yak (rinomato per la sua carica di lipidi) con gallette di aaruul. I padroni di casa sono contenti dal momento che ci vedono mangiare di gusto. Di solito vedono degli stranieri molto schizzinosi che avanzano quanto loro offrono gentilmente. E’ proprio il caso di dire che restiamo tutti soddisfatti. Sono ancora nel campo estivo ed a breve si sposteranno in quello invernale. L’ambiente è pulito e pensiamo di sdebitarci della loro generosità regalando loro alcuni oggetti che abbiamo portato all’uopo, in particolare per i bellissimi bambini. A loro volta i nomadi, per tramite delle delicate mani dei loro figli, ci offrono ancora dell’aaruul da portare con noi durante il viaggio. Risaliamo una vallata per giungere ad un colle, incrociando dei camion, molti dei quali sono carichi di assi di legno e non ci spieghiamo come riescano a restare in piedi nonostante la strada ed il carico. Sono di solito dei vecchi Ural di fabbricazione sovietica; stupisce poi come riescano a scendere con i rimorchi. La strada si dipana tra monti e vallate, e dal punto più alto si può godere di un panorama splendido, con boschi di larici che si alternano a praterie. In breve raggiungiamo il bellissimo lago Lago Terkhin Tsagaan circondato da crateri di vulcani spenti, il più "giovane" dei quali è il Khorgo. Il Vulcano Khorgo ha un diametro di 200m. e una profondità di 100 mt. I torrenti di lava provenienti dal vulcano hanno bloccato il fiume Terkh, formando il lago. Ci sistemiamo nel ger camp quando ormai sono le 13,45, situato a pochi metri dal bacino posto a 2080 mt. di quota, sotto un vento freddo che inibisce l’azione solare. Si pranza nel ristorante del camp con un ragout di carne con patate fritte. Il vento diminuisce leggermente e ci spostiamo di una decina di km per vedere il cratere del Khorgo. Facendo il giro lungo il bordo del cratere il vento è molto forte ma la vista è appagante del sacrificio. Rientriamo per fare qualche foto dall’alto del ger camp ed un po’ di relax prima di cena. Facciamo la conoscenza con una coppia di genovesi ed una guida che parla italiano. Si chiama Zulaa ed è una studentessa ventiduenne appassionata dell’Italia tanto da studiare la nostra lingua all’università di U.B. Ci offre quella che qui chiamano la vodka mongola, ovvero latte fermentato con una gradazione di ca. 12°. Della vodka ha solo il colore trasparente ma è buona anche se conserva sempre un retrogusto abbastanza marcato di prodotto caseario. Nel frattempo arrivano anche i francesi, ben contenti di non dover più campeggiare in tenda. Vediamo una semifinale di box alle olimpiadi, che vede vincere il concorrente mongolo e qualificarsi per la finale. Una passeggiata digestiva mentre il vento si sta chetando e riassaporiamo il piacere di dormire in una ger calda.DECIMO GIORNOIl fuochista si presenta in ritardo ma il freddo è in qualche modo gestibile. La guida resta addormentata e dopo colazione dobbiamo attenderlo per tre quarti d’ora prima di partire. Cosa che avviene alle 9.10 h. Il Paesaggio dell’Arkhangay è meno bello di quello del Huvsgul. Gli altipiani sono più piatti ed il paesaggio diventa più monotono, mentre l’erba assume delle tinte più giallastre. Significativo di come sia più arido. I boschi lasciano lo spazio a praterie sterminate mentre spariscono i torrenti. Il cielo risulta velato anche se non ci sono dubbi in merito alle precipitazioni.Ci fermiamo per vedere la gola formata dal fiume Chuluut, un vero canyon scavato dal tempo. Nelle vicinanze si trova il Zuun Salaa Mod, l’albero dei cento rami, ricoperto di sciarpe di preghiera ed offerte di vario genere, che il nostro pensiero non può non accostare ad un grande mucchio d’immondizia. A metà mattinata facciamo uno stop in una ger di nomadi, come la fermata che faremmo per prendere un caffè al bar. Sembra quasi d’essere invadenti ma il costume e quello, inoltre tanto noi che gli accompagnatori lasciamo dei regali quando non un contributo in denaro. Del resto questo è l’unico modo per renderci conto della vita che fanno gli indigeni ed aprirci alle reciproche culture. Anche qui ci accolgono volentieri e ci fanno assaggiare l’airag, il latte di giumenta fermentato. E’ fresco ed ha un gusto acidulo frizzante da poterlo paragonare ad una gazzosa, stante l’inevitabile retrogusto di latte. Il tutto accompagnato dagli immancabili aaruul. Impariamo anche che una volta tolto il burro si prepara l’airag con il latte rimasto, rimestandolo e facendolo così fermentare. Si aggiunge dello yogurt, si rimescola il tutto
Dopo il viaggio dell’anno scorso avevo promesso o minacciato di tornare e l'ho fatto. Un viaggio intitolato “Mongolia spirituale”: mi immaginavo lunghi silenzi negli immensi spazi di questo meraviglioso paese, serate passate a discutere la vita, la religione, la storia di questo popolo. Mi sbagliavo, ho passato 16 meravigliosi giorni con gente scelta in lungo e in largo d’ Italia: Trani, Roma, Rimini, Bologna, Bergamo, Milano, Bolzano con una spruzzatina di britannica brianzola, un’aggiunta di ghiaccio, bene shakerato, ed ecco la compagnia che Federico ha scorrazzato per più di 2000 km nel centro e nord della Mongolia.Mi ricordo due giorni nella meravigliosa valle di Tzagaan Zalaa a nord di Karakorum, accampati vicino la gher di un’ospitale famiglia di nomadi. L’alzarmi prestissimo per salire su un monte sovrastante il nostro campeggio aspettando l’alba, e l’arrivo del cavaliere Mongolo che radunava i cavalli. Una passeggiata nella stessa valle circondati da cavalli e da yak con i loro piccoli appena nati.La famiglia di nomadi che ci hanno lasciato libera la loro gher perché faceva troppo freddo per mangiare all’aria aperta.Il loro bimbo che ha imparato in pochi secondi a smontare una macchinina con grande gioia e giocava a calcio con noi, lui contro tutti, mandando la palla in discesa per farci correre di più.L’incontro emozionante con Padre Ernesto e Suor Giovanna alla missione della Consolata ad Avaikheer con tutti i bambini felicissimi di incontrare questi pazzi Italiani che in una giornata di vento freddissimo, hanno partecipato a una partita di calcio nella quale non si capiva chi giocava contro chi, figuriamoci chi ha vinto. L'importante era partecipare...Il vulcano di Khorgo dove quest’anno insieme con altri spericolati sono scesa nel cratere, dentro di me ripetevo “qui non esiste il 118” ma la tentazione era troppo forte e l’emozione in fondo era grande. La risalita, faticosa, faceva parte del gioco!Viaggiando dal Karakorum verso il lago Khuvsgul tutto era completamente diverso dall’anno scorso. Prima perché il percorso lo stavamo facendo al contrario ma soprattutto perché non pioveva e le strade erano secche, polverose immagini asciutte delle stesse strade fangose seguite l’anno prima. Poi si vedeva…. si vedeva tutto il meraviglioso, armonioso, dolce, affascinante panorama di colline e laghi.La fortuna di assistere a una gara di cavalli, una vera festa paesana per i locali e l’opportunità di mescolarci con loro e logicamente di fare tante foto.Perfino Khuvsgul ci ha dato il benvenuto con il sole!! Era talmente bello che in tre abbiamo fatto una lunga passeggiata nel bosco per poi scendere lungo il lago. Peccato che per superare un promontorio abbiamo dovuto fare una piccola camminata nell’acqua gelida, ma così gelida, che dopo 30 secondi non sentivamo il dolore dei sassi sotto i piedi. Peccato che dopo quel promontorio ce ne fosse un altro, poi un altro ancora e l’acqua ci arrivava fino alla vita. Incoscienti? No, se l’avessimo ritenuto pericoloso saremmo tornati indietro, credo… o forse anche il cervello si era congelato! E stato un’avventura che ricordiamo con piacere ma che non consigliamo a nessuno. La spiritualità stava nei monasteri, Gandan a Ulaanbaatar, Shankhiin Khiid piccolino e affascinante appena fuori Karakorum, il maestoso Erdene Zuu a Karakorum e Amarbayasgalant a nord di UB dove abbiamo assistito alla funzione del mattino cosa che, pur non capendo, trovo sempre mistica. Che cosa dire del rituale della sciamana? Possiamo essere scettici ma era comunque coinvolgente. Anche nel vedere il fervore con il quale i Mongoli assistano lascia in me un rispetto per questa antica forma di religione. La stessa spiritualità l’ho anche sentita durante la visita al Museo delle Belle Arti dove ci sono delle splendide statue eseguite da Zanabazar e i suoi allievi oltre a stupende tankha. Da non perdere……C’era anche un altro “spirito”, quello contenuto nelle bottiglie di vodka, consumato a dovere per brindare a numerosi compleanni, un matrimonio, un anniversario di matrimonio, il viaggio, l’amicizia... giuro che non abbiamo esagerato!Ricordo i nostri bravissimi driver che ci hanno trasportato sani e salvi ed hanno diviso il viaggio con noi partecipando anche ad un filmato per “forza Lecco” (http://www.youtube.com/watch?v=XSbhE-TB124), come il nostro bravissimo cuoco e Dulam che ha organizzato tutto e fatto da guida ed interprete. Mi sono dimenticata di qualcuno? Certo che no. Grazie a Federico la nostra “guida spirituale” e “amministratore del condominio”. Un grosso grazie a voi, cari compagni di viaggio, di avventure e disavventure. Certo, c’erano anche dei disagi, ma di fronte alla ricchezza del bagaglio umano, culturale, spirituale e di amicizia che abbiamo assorbito, non hanno nessuna importanza.La Mongolia ha tanto da offrire a chi vuole cogliere un’ideologia e dei valori di vivere che noi abbiamo purtroppo dimenticato o addirittura mai conosciuto.Certo, ci tornerò. Ancora. L’ho promesso a me stessa.
La Mongolia che ho visto ce l’ho ancora negli occhi, coi suoi colori incredibili. Ma, più di tutto, mi ha spiazzato la vastità dello spazio aperto, che mi ha fatto immaginare, forse per la prima volta, l’idea di infinito e di libertà assoluta. Certo, anche l’architettura sovietica delle città ha il suo fascino, ma, chissà perché, tutti preferiscono la natura e gli animali… Ma ci ho pensato io a dare un po’ di dignità al recente passato! Per me questo viaggio ha significato molto.Mi ha fatto capire che il mondo merita di essere visto, toccato, annusato di persona.Che la nostra visione della vita, per forza di cose tipicamente “occidentale-urbanizzata-nevrotica”, non è detto che sia la migliore.Che fare la pipì all’aperto è una goduria.Che ci sono anche dei giornalisti simpatici…I compagni di viaggio sono stati incredibili, pazzi, incoscienti, qualcosa che va oltre la simpatia del momento.Ce ne siamo resi conto tutti.Sono convinto che quello che si è creato tra di noi resterà.“Niente marijuana né pasticche,noi si assume solo il due di picche…”
La Mongolia è una serie di cilindri che girano, ognuno con una preghiera dentro che si diffonde nell’aria, e tutte le parole che le compongono salutano, avvolgono, inebriano e talvolta stordiscono chi le incontra. Hai come la sensazione, talvolta, di udirle queste preghiere, di udirne anche solo una mezza frase, e ti rinfranchi per il senso di pace che ti da. Altre volte vedi una parola passare e non sai da dove viene né dove va, ma sai di aver incontrato un piccolo filamento di una magica rete che ti avvolge e di cui fai parte dal momento che sbarchi dall’aereo e che si chiama, comunemente, Mongolia.La Mongolia è, anzi sono, tanti, tanti animali che la posseggono, la brucano, la passeggiano in modo pacifico e apparentemente scontato. La Mongolia sono tanti tantissimi cavalli, sono capre e pecore, sono yak e aquile, sono formiche e scoiattoli, sono corvi e cani, lupi e marmotte. La Mongolia sono anche persone, ma al di fuori delle città, dove non ci sono recinti, tutti questi si confondono e si distinguono senza disarmonie, senza il bisogno di accordi scritti per vivere insieme quell’immenso territorio che al contempo li divora e li ospita.La Mongolia è un bambino che cammina in mezzo al nulla. Sembra che non sappia da dove viene né dove va. Sembra deciso nel passo ma incerto nella meta. Sembra che stia bene nel verde in cui si trova, sembra parte di quel che gli accade, sembra un po’ solo, e chi osserva teme, giudica, prova a intuire se ce la farà ad andare in un posto sicuro, magari piacevole, senza sapere che quel posto lo ha già trovato. La Mongolia è un uomo col suo cavallo, una relazione piena, intensa, fatta di gesti e poche parole, che ispira grande serenità, quasi invidia, per come si svolge senza interruzioni, senza discussioni, senza il timore che la relazione stessa finisca male o s’interrompa bruscamente. E’ un ponte, fra due esseri viventi, di cui si vedono le sembianze ma non i pilastri, di cui si ammira la solidità ma non se ne capisce la fatica e forse per questo ci fa sentire al sicuro.La Mongolia è l’interrogativo sereno di chi prova a giocare con poco e si diverte con ancora meno. La Mongolia è un padre chinato accanto al proprio figlio, non lo abbraccia, lo rispetta, lo affianca e lo custodisce mentre prova a guardare lontano.La Mongolia è colore che rischiara il grigiore degli edifici russi, è il sorriso che spalanca il cuore di chi lo riceve, è la speranza di tanti bambini che vivono con semplicità e dignità le difficoltà, pur non sapendo se queste scompariranno, se gli adulti avranno di meglio da offrirgli, se potranno sorridere e giocare almeno fino a sera. La Mongolia è qualcuno che cerca di aiutarli, è molti che rischiano di dimenticarli.La Mongolia è un posto dove alcune cose sembrano più preziose del solito. I sassi la ricoprono, eppure disposti in un certo modo divengono sacri. L’acqua, in molte zone, è una rarità. Quando appare disegna strade che sembrano percorsi di vita. La Mongolia è un intreccio di strade, solchi, canali e vallate, scie e creste, che insieme disegnano un immenso reticolato di forme. Ogni direzione sembra sensata, ma sono poche quelle giuste. Solo i mongoli sembrano sapere quali sono. E se non lo sanno tentano. E se sbagliano riprovano. E’ normale, inutile arrabbiarsi. La Mongolia è il cuore pulsante dell’Asia. Un cuore lento e silenzioso, che un tempo ha risuonato così forte che in tutto il mondo, o quasi, se ne sentivano i battiti, le vibrazioni vitali. La Mongolia un tempo era buona parte del mondo conosciuto. Oggi il mondo non conosce la Mongolia, mentre lei si affaccia e bussa timidamente alla porta delle nazioni. La Mongolia è la capacità di muoversi con calma nella campagna e la terribile e sfacciata frenesia dei movimenti cittadini. Vecchi e nuovi mezzi si sfidano, come in una gara in cui i cavalli, per una volta, stanno a guardare.La Mongolia è il paesaggio che ti stupisce. Quando non te lo aspetti, sei avvolto nei ricordi o distratto dai sobbalzi del tuo mezzo di trasporto, ti richiama a sé con maestosità e semplicità, attraverso il letto di un fiume, lo sguardo di uno yak, una corsa di cavalli, il volo di un’aquila, un canyon. La Mongolia è il cratere di un vulcano spento che si gode il meritato riposo. La Mongolia è acqua che si scioglie per pochi mesi all’anno e si lascia toccare come liquido che bagna, e non come strada che unisce, sponde lontane dello stesso lago. La Mongolia è terra di motociclette che rendono meno lento, ma non sempre più agile, il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, da una gher a una casa, da una tenda all’altra, dal bestiame al mercato. La Mongolia è tradizione che ti osserva ma non si impone, che si lascia guardare e talvolta annientare, è il colore di molte vesti che per molti secoli hanno reso importanti ed egualmente differenti i tanti gruppi etnici. La Mongolia è un padre, una madre e un figlio su una motocicletta lenta e rumorosa che timidamente attraversa un ponte. La Mongolia è l’orgoglio con cui posano per farsi fotografare. La Mongolia è un bambino che invece di giocare vende erba cipollina al mercato. La Mongolia è un monaco buddista che prega perché non vengano più i russi a sterminare quelli come lui, perché possa continuare a pregare come indicano i libri sacri, e perché Buddha, che è di casa da tempo, possa continuare a vivere nei bellissimi templi rimasti in piedi e nelle anime dei mongoli che amano vivere pacificamente. La Mongolia è un Ovòo in pietra o in legno, piccolo o grande, colorato, a volte coloratissimo, che sta lì, a ricordare agli uomini che passano, quanto tutto ciò che lo circonda sia speciale, sacro, da rispettare e onorare, in modo semplice ma deciso, come solo un cumulo di pietre può fare, e diffuso, costante, come di fatto accade in tutto questo paese.La Mongolia è un incontro con le lande sterminate dell’animo umano: belle, immense da non vederne la fine, difficili da percorrere, affascinanti da visitare, impossibili da non amare, bisognose di persone che le vogliano rispettare. Questo è quel pezzettino di Mongolia che sono riuscito a raccontare, è un pezzettino di quel che ho visto, di quel che mi è successo, e tutto questo sarà sempre e solo un pezzettino di quell’immensità di cose ed emozioni che è la Mongolia.Anche le persone che incontri andandoci o con le quali fai il viaggio sono la Mongolia in quel momento. Io ne ho incontrate di meravigliose, mi sento fortunato di aver conosciuto questo paese anche attraverso i loro occhi.La Mongolia è una serie di cilindri che girano, ognuno con una preghiera dentro che si diffonde nell’aria, e tutte le parole che le compongono salutano, avvolgono, inebriano e talvolta stordiscono chi le incontra. Hai come la sensazione, talvolta, di udirle queste preghiere, di udirne anche solo una mezza frase, e ti rinfranchi per il senso di pace che ti da. Altre volte vedi una parola passare e non sai da dove viene né dove va, ma sai di aver incontrato un piccolo filamento di una magica rete che ti avvolge e di cui fai parte dal momento che sbarchi dall’aereo e che si chiama, comunemente, Mongolia.La Mongolia è, anzi sono, tanti, tanti animali che la posseggono, la brucano, la passeggiano in modo pacifico e apparentemente scontato. La Mongolia sono tanti tantissimi cavalli, sono capre e pecore, sono yak e aquile, sono formiche e scoiattoli, sono corvi e cani, lupi e marmotte. La Mongolia sono anche persone, ma al di fuori delle città, dove non ci sono recinti, tutti questi si confondono e si distinguono senza disarmonie, senza il bisogno di accordi scritti per vivere insieme quell’immenso territorio che al contempo li divora e li ospita.La Mongolia è un bambino che cammina in mezzo al nulla. Sembra che non sappia da dove viene né dove va. Sembra deciso nel passo ma incerto nella meta. Sembra che stia bene nel verde in cui si trova, sembra parte di quel che gli accade, sembra un po’ solo, e chi osserva teme, giudica, prova a intuire se ce la farà ad andare in un posto sicuro, magari piacevole, senza sapere che quel posto lo ha già trovato. La Mongolia è un uomo col suo cavallo, una relazione piena, intensa, fatta di gesti e poche parole, che ispira grande serenità, quasi invidia, per come si svolge senza interruzioni, senza discussioni, senza il timore che la relazione stessa finisca male o s’interrompa bruscamente. E’ un ponte, fra due esseri viventi, di cui si vedono le sembianze ma non i pilastri, di cui si ammira la solidità ma non se ne capisce la fatica e forse per questo ci fa sentire al sicuro.La Mongolia è l’interrogativo sereno di chi prova a giocare con poco e si diverte con ancora meno. La Mongolia è un padre chinato accanto al proprio figlio, non lo abbraccia, lo rispetta, lo affianca e lo custodisce mentre prova a guardare lontano.La Mongolia è colore che rischiara il grigiore degli edifici russi, è il sorriso che spalanca il cuore di chi lo riceve, è la speranza di tanti bambini che vivono con semplicità e dignità le difficoltà, pur non sapendo se queste scompariranno, se gli adulti avranno di meglio da offrirgli, se potranno sorridere e giocare almeno fino a sera. La Mongolia è qualcuno che cerca di aiutarli, è molti che rischiano di dimenticarli.La Mongolia è un posto dove alcune cose sembrano più preziose del solito. I sassi la ricoprono, eppure disposti in un certo modo divengono sacri. L’acqua, in molte zone, è una rarità. Quando appare disegna strade che sembrano percorsi di vita. La Mongolia è un intreccio di strade, solchi, canali e vallate, scie e creste, che insieme disegnano un immenso reticolato di forme. Ogni direzione sembra sensata, ma sono poche quelle giuste. Solo i mongoli sembrano sapere quali sono. E se non lo sanno tentano. E se sbagliano riprovano. E’ normale, inutile arrabbiarsi. La Mongolia è il cuore pulsante dell’Asia. Un cuore lento e silenzioso, che un tempo ha risuonato così forte che in tutto il mondo, o quasi, se ne sentivano i battiti, le vibrazioni vitali. La Mongolia un tempo era buona parte del mondo conosciuto. Oggi il mondo non conosce la Mongolia, mentre lei si affaccia e bussa timidamente alla porta delle nazioni. La Mongolia è la capacità di muoversi con calma nella campagna e la terribile e sfacciata frenesia dei movimenti cittadini. Vecchi e nuovi mezzi si sfidano, come in una gara in cui i cavalli, per una volta, stanno a guardare.La Mongolia è il paesaggio che ti stupisce. Quando non te lo aspetti, sei avvolto nei ricordi o distratto dai sobbalzi del tuo mezzo di trasporto, ti richiama a sé con maestosità e semplicità, attraverso il letto di un fiume, lo sguardo di uno yak, una corsa di cavalli, il volo di un’aquila, un canyon. La Mongolia è il cratere di un vulcano spento che si gode il meritato riposo. La Mongolia è acqua che si scioglie per pochi mesi all’anno e si lascia toccare come liquido che bagna, e non come strada che unisce, sponde lontane dello stesso lago. La Mongolia è terra di motociclette che rendono meno lento, ma non sempre più agile, il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, da una gher a una casa, da una tenda all’altra, dal bestiame al mercato. La Mongolia è tradizione che ti osserva ma non si impone, che si lascia guardare e talvolta annientare, è il colore di molte vesti che per molti secoli hanno reso importanti ed egualmente differenti i tanti gruppi etnici. La Mongolia è un padre, una madre e un figlio su una motocicletta lenta e rumorosa che timidamente attraversa un ponte. La Mongolia è l’orgoglio con cui posano per farsi fotografare. La Mongolia è un bambino che invece di giocare vende erba cipollina al mercato. La Mongolia è un monaco buddista che prega perché non vengano più i russi a sterminare quelli come lui, perché possa continuare a pregare come indicano i libri sacri, e perché Buddha, che è di casa da tempo, possa continuare a vivere nei bellissimi templi rimasti in piedi e nelle anime dei mongoli che amano vivere pacificamente. La Mongolia è un Ovòo in pietra o in legno, piccolo o grande, colorato, a volte coloratissimo, che sta lì, a ricordare agli uomini che passano, quanto tutto ciò che lo circonda sia speciale, sacro, da rispettare e onorare, in modo semplice ma deciso, come solo un cumulo di pietre può fare, e diffuso, costante, come di fatto accade in tutto questo paese.La Mongolia è un incontro con le lande sterminate dell’animo umano: belle, immense da non vederne la fine, difficili da percorrere, affascinanti da visitare, impossibili da non amare, bisognose di persone che le vogliano rispettare. Questo è quel pezzettino di Mongolia che sono riuscito a raccontare, è un pezzettino di quel che ho visto, di quel che mi è successo, e tutto questo sarà sempre e solo un pezzettino di quell’immensità di cose ed emozioni che è la Mongolia.Anche le persone che incontri andandoci o con le quali fai il viaggio sono la Mongolia in quel momento. Io ne ho incontrate di meravigliose, mi sento fortunato di aver conosciuto questo paese anche attraverso i loro occhi.
Ciao a tutti lettori di mongolia.it,molti di voi saranno sicuramente già stati in Mongolia, quindi sapranno meglio di noi tutte le bellezze di questo incredibile paese e nei nostri racconti ritroveranno, speriamo con piacere, sensazione già note. Per chi, invece, non ci fosse mai stato, lo invitiamo a riflettere seriamente e a programmare un viaggio: se noi in 8 giorni ne siamo rimasti stregati, cosa potrebbe succedere in due settimane?Siamo entrati in Mongolia Lunedì 10 Agosto 2009 dalla frontiera di Tsaganuur, il passaggio è stato agevole grazie all'organizzazione del nostro rally che ci avevo rilasciato una specie di “passaporto per il veicolo”. Cento metri dopo l'entrata ci siamo lasciati andare con un urlo liberatorio: non solo durante il precedente mese in viaggio, ma anche per tutto l'anno avevamo sognato questa terra e finalmente ce l'avevamo fatta, l'avevamo raggiunta in macchina partendo da Milano; contenere la gioia sarebbe stato impossibile. Poco dopo abbiamo dovuto prendere la prima decisione: prendere la via a Sud attraverso il deserto del Gobi, o scavalcare le montagne e passare a Nord, dove le piste sarebbero state molto più ardue e il clima più rigido, ma il paesaggio molto più vario? Rispettando il nostro motto, Exploro Ergo Sum, ci avventuriamo per la via settentrionale e subito ne veniamo ricompensati: passiamo attraverso un canyon strettissimo, con un piccolo fiume e qualche yak a farci compagnia. In corrispondenza delle gher i bambini escono subito festanti, ci salutano correndo e con dei sorrisi che non dimenticheremo mai. Dopo qualche chilometro affrontiamo il primo guado, 70 cm e una forte corrente: 4x4 inserite, marce ridotte e il Massif passa senza incertezze. Per il primo giorno pensiamo sia abbastanza, troviamo uno spiazzo adatto (ma ci si potrebbe fermare davvero ovunque) e campeggiamo. Il giorno dopo ci si apre dinnanzi il paradiso: dopo qualche ora di guida molto impegnativa per valicare una catena montuosa arriviamo al lago di Uureg Nuur, spettacolo immenso: uno specchio di acqua calmissimo incastrato tra montagne altissime che partono direttamente dalla sua riva, un bagno rinfrescante poi ci riposiamo sulle sue rive: proprio quello di cui avevamo bisogno. Arriviamo a Ulaangom, passiamo la notte in un piccolo albergo e il giorno dopo raggiungiamo il parco nazionale del Chiargas Nuur, facciamo una piccola tappa alla sorgente in cima alla montagna, poi piantiamo la tenda a pochi metri dall'acqua. Subito, dopo appena due giorni in Mongolia, veniamo invitati a cena da una famiglia che campeggiava lì vicino. Sapevamo della leggendaria ospitalità di questo popolo, ma provarla direttamente è stato bellissimo: ci hanno offerto di tutto, carne appena cucinata, noodles, verdure e quant'altro ci fosse in tavola. Abbiamo ricambiato con quanto potevamo: una piccola confezione di Nutella ciascuno! Il giorno dopo un'altra famiglia nel piccolo paese di Songino, dove ci eravamo fermati per fare benzina, ci ha invitato nella propria Gher a bere latte con loro per ripararci dal freddo, infatti fuori stava nevicando! Ci trovavamo talmente a nostro agio in quella Gher che abbiamo deciso di passare il pomeriggio con loro e di piantare la nostra tenda lì vicino, loro hanno apprezzato e si sono notevolmente aperti nei nostri confronti, ci hanno mostrato la laurea del fratello in economia e altri cimeli di famiglia. All'indomani abbiamo raggiunto il lago di Telmen Nuur, la famiglia ci aveva avvisato che avremmo trovato un clima molto rigido, quindi sulla strada abbiamo raccolto della legna e prima di andare a dormire abbiamo acceso un bellissimo fuoco. Ecco mentre seduti per terra ascoltavamo il crepitio del fuoco mischiarsi con il suono delle onde del l ago abbiamo realizzato quanto tutte le fatiche passate per arrivare fino in Mongolia, le infinite ore nelle varie frontiere, ma anche tutto quanto avevamo fatto per organizzare il viaggio durante l'anno, fossero il “prezzo” da pagare per poter assistere a uno spettacolo del genere. Il giorno dopo passiamo un valico di 3000 metri, la montagna ci accoglie prima con grandine, poi addirittura con una tempesta di neve! Campeggiamo sulle rive del lago di origine vulcanica nel parco nazionale del Khorgo-Terkhiin Tsagaan Nuur, la temperatura esterna è di circa 5 gradi, quello dell'acqua forse anche meno, ma uno di noi, Tommaso, decide lo stesso di fare il bagno! Quella sera fa talmente freddo che cuciniamo in macchina e prima di dormire riscaldiamo la tenda con il fornelletto! Il giorno successivo arriviamo a Tsetserleg, la città è molto carina, sembra incastrata tra le montagne, e in cima alla collina è dominata da un bellissimo tempio, che visitiamo: è uno dei pochi a non essere stati distrutti dal regime sovietico. La mattina dopo partiamo di buon'ora: è il grande giorno dell'arrivo a Ulaanbaatar, vogliamo quindi prendercela comoda per farlo durare il più a lungo possibile. La strada è in pessime condizioni: dove c'è, è piena di buche, dove non c'è le piste parallele sono piene di fango per le piogge dei giorni scorsi. Nel giorno dell'arrivo, però, le buche non ci danno per nulla fastidio, anzi siamo tristi quando troviamo asfalto se pensiamo a quanto ci mancherà ogni singolo sobbalzo una volta tornati. Entriamo a UB che è notte fonda, ma il contrasto con il resto della Mongolia è talmente netto che ci abbaglia fin da subito. Ci basta poco, però, per capire che la terra è sempre la stessa, o per dirla come i mongoli: “Che Gengis Khan è sempre Gengis Khan”: infatti mentre cerchiamo un ostello per passare la notte un ragazzo ci offre il suo telefono cellulare e ci fa da traduttore per chiamare la reception e chiedere indicazioni.Dopo pochi minuti siamo già in un letto: un lusso rispetto ai giorni precedenti, ma i nostri pensieri sono ancora lassù, sulle montagne che ci hanno fatto compagnia per una settimana insieme a fiumi e laghi, nelle Gher delle famiglie che ci hanno accolto e in qualsiasi emozione vissuta in questo splendido paese.Non sappiamo ancora quale sarà il nostro prossimo viaggio, chissà se in Africa, in India o in Sudamerica, quello che è certo è che una parte del nostro cuore è rimasta in Mongolia e sarebbe impossibile per noi non andare mai più a trovarla, quindi... alla prossima!Tommaso, Giovanni e Lorenzo
Fase di discesa. Guardo fuori dal finestrino in attesa, non so di cosa.Quando finalmente riesco a vedere oltre le nuvole, mi sento letteralmente abbracciata.Da un verde assoluto, morbido e confortante.Da un verdissimo abito di velluto che veste di calore le curve della Mongolia.Da quel momento in poi mi sono sentita a casa.E non ho mai smesso di sorridere.
Altay, 23 ottobre 2009Abbiamo fatto una piccola deviazione e abbiamo dormito ad Altay, questa cittadina a 3000 metri di altitudine dove tira un vento che fai fatica a stare in piedi! Per venire all'internet point ho fatto una fatica che non vi immaginate neanche. La polvere e il vento hanno reso l'impresa difficilissima! A parte questi due particolari qui abbiamo trovato il primo albergo veramente figo a un prezzo veramente moderato (20.000 tukruk che sono tipo 18 euro), con doccia super soddisfacente. Ora ripartiamo verso il sud e piano piano arriveremo di nuovo alla capitale! E poi finalmente il grande Gobi! Baci a tutti dall'alta quota, ViolaOlgii, 21 ottobre 2009Ciao a tutti, siamo al giro di boa; fino ad adesso abbiamo percorso 2400 km e oggi si riparte verso il sud. il Grande Gobi dove le temperature saranno un po' più calde... Non so quanto sarà facile comunicare perché non toccheremo più città grandine, ma solo paesini e dormiremo nelle gher con i nomadi. Baci a tutti, ViolaOlgii, 18 ottobre 2009Ciao a tutti!! Siamo di ritorno a Olgii, questa cittadina ai confini del mondo... anche se noi siamo riusciti ad andare ancora più in là!!! La scalata dei monti dell'Amicizia neanche a parlarne... too frozen! Neanche gli amici super eroi speleologi penso che l'avrebbero fatto! Siamo stati tre giorni ai confini con la Cina e la Russia per vedere queste famose montagne di 4300 metri; è stato impossibile salire, non siamo arrivati neanche al campo base perché troppo freddo, troppa neve e già è tanto se l'abbiamo viste da qualche chilometro di distanza. Una sera siamo stati ospiti di una famiglia kazaka e la seconda sera da una famiglia di etnia tuvan. Il vento gelido ci ha messo un po' alla prova, così come la strada per arrivarci (7-8 ore per fare 120 km) ma adesso abbiamo riconquistato l'albergo qui di Olgii con tanto di doccia semi calda dove staremo fino a domani l'altro per ritrovare un po' di regolarità e pasti all'occidentale (fornelletto in camera, patate riso, the con i Mc vities farciti di miele). Ci voleva un break dal the con latte di giumenta e formaggi homemade di yogurt acido e cacio fermentato! Il nostro autista è un super eroe visto che è riuscito a guadare dei fiumi con acqua altissima e a scalare dislivelli impossibili con il suo minivan; non parla un'acca di inglese infatti mi è toccato imparare un po' di mongolo a me e insegnargli un po' di rudimenti di italiano che ha imparato subito!!! Sono bravi i mongoli a imparare le lingue perché la loro lingua è piena di suoni e accentazioni... imparano l'accento toscano subito!! Domani penso visita al market affollatissimo e giro per il paesino a piedi.. Vi bacio tutti, a presto ViolaOlgii, 15 ottobre 2009Incredibile ma vero... sono riuscita a trovare un internet café in questo paese veramente lontano da tutto. Siamo in mezzo ai monti innevati vicino alla Russia, qui sono tutti kazaki con gli occhi chiari e sono un po' diversi dai mongoli in effetti... Il viaggio prosegue bene; oggi finalmente doccia calda (si fa per dire!). Questi ultimi giorni sono stati veramente belli: siamo stati ospiti nelle gher dalle famiglie mongole ogni sera. Qui ti ospitano ti danno da mangiare e cercano di essere più gentili che possono. I pasti sono tutti a base di latte caldo di cavalla con il té nero, zuppa di montone con patate, carote e spaghetti fatti lì per lì... veramente spettacolare! Per non parlare di queste specie di coccoli con dischi di formaggio di capra fatti essiccare da loro. La sera poi ci scappa anche la vodka mongola che non si capisce bene con che cosa sia fatta. Sembra piuttosto sake'! Si dorme per terra sui nostri super materassini al caldo della loro stufa sistemata in zona centrale della gher. Oggi stiamo qui in questo paese e poi domani andiamo verso il confine RussiaCina (estremo ovest della mongolia), sempre che ci sia il passo aperto e non abbia nevicato troppo. Poi da domani l'altro iniziamo a scendere verso le zone più calde (Gobi) e verso scenari nuovi e sicuramente spettacolari come quelli visti finora. Baci a tutti e non vi invidio per niente là in italia! Salute tutto ok a parte un timido raffreddore che è il minimo per queste zone. Baci, ViolaUlaanbaatar, 8 ottobre 2009Ciao a tutti. Siamo nella capitale da ieri. Per ora tutto bene, la città è grandina e affollatissima; il sole non ci ha abbandonato anche se la sera fa un bel freddo nordico (ma secco). Stasera ultima sera qua e poi domani si parte per la grande avventura col nostro super autista che abbiamo già incontrato ieri all'aeroporto. Il vero viaggio inizia domani e non vedo l'ora!Cercherò di scrivervi anche da domani ma non so se sarà possibile... Non vi preoccupate per ora sembra un paese tranquillo e ospitale. Qua siamo sei ore avanti, quindi buona giornata a tutti!!! A presto, ViolaItalia, 4 ottobre 2009Ciao a tutti! Martedì parto per la Mongolia e proverò a dare mie notizie come posso e quando posso... Posti strani laggiù, non si sa mai...! Un bacio forte a tutti e a presto! ViolaItalia, 23 settembre 2009Ciao Federico! Grazie per la prontezza della risposta e per il tuo interessamento. Da quello che hai scritto e da come ti esprimi si capisci che c'è tanta passione per la Mongolia, quindi è stato inevitabile andare in libreria e cercare la tua guida. L'abbiamo comprata ieri e già mi piace. Ogni giorno che va avanti più ci avviciniamo alla partenza, e i preparativi fervono! Non è facile immaginarsela veramente la Mongolia perché da quello che si è letto è proprio un altro mondo, e per lo più lontano. Non vediamo l'ora! Viola e Saverio
3 VOLI, 15 ORE DI CAMION E 10 ORE DI CAVALLO, IL PRIMO ACCAMPAMENTO TSAATAN. UN ALTIPIANO FRA LE MONTAGNE, 2 HURTZ FUMANTI, UNA TRENTINA DI RENNE CHE CI VENGONO INCONTRO, UNA VENTINA DI CAVALLI LIBERI, UN GREGGE DI PECORE NERE, 3 CANI TIPO ALASKANI. PAESAGGIO IRREALE CHE RICONOSCO COME QUALCOSA CHE HO SEMPRE VISTO. “UN UOMO CHE RIESCE AD UCCIDERE UN LUPO E’ UN GRANDE UOMO;UN UOMO CHE RIESCE A VEDERE UN LUPO E’ UN BUON UOMO;UN UOMO CHE NON RIESCE A VEDERE UN LUPO NON E’ UN UOMO”.OGGI MI HANNO REGALATO UN DENTE DI LUPO, UN MOLARE.MI SONO SEMPRE CHIESTA DA COSA NASCE L’ADORAZIONE DEI POPOLI NOMADI PER IL LUPO. PROBABILMENTE DAL RISPETTO PER UN AVVERSARIO CHE CONOSCONO PROFONDAMENTE. I NOMADI SONO CACCIATORI E ALLEVATORI, NELLA LORO VITA L’INCONTRO CON IL LUPO E’ COSA CERTA. I LUPI SONO BEN ORGANIZZATI, HANNO UN FORTE SENSO DELLA DISCIPLINA, SONO PAZIENTI, VELOCI ED INTELLIGENTI, SANNO LEGGERE I SEGNALI DELLA TERRA E PARLARE COL CIELO. SI DICE CHE IL VALORE CHE I MONGOLI HANNO DIMOSTRATO IN GUERRA PROVENGA DAL LORO CONFRONTO CON IL LUPO E CHE ABBIANO APPRESO DAI LUPI LE LORO TATTICHE DI BATTAGLIA.SEMBRANO UN PO’ ASSENTI, IN REALTA’ GODONO DI UNA PROFONDA SERENITA'. LA SERENITA' DI CHI CREDE DI ESSERE AL SUO POSTO, CON LE PERSONE CHE CONOSCE E A FAR CIO' CHE CREDE GIUSTO. COMBATTONO CON IL FREDDO, CON LA NATURA E LE MALATTIE MA LA DIGNITA' NON LI ABBANDONA IN NESSUN MOMENTO. CREDONO NEL CORAGGIO E NELLA LEALTA’, SONO FORTI, APERTI, ORGOGLIOSI E SI SPOSTANO SEGUENDO IL TEMPO, I PASCOLI E CIO' CHE DICONO LORO GLI SPIRITI.IN INVERNO SI PROTEGGONO DAL VENTO SPOSTANDOSI NELLA FORESTA, IN ESTATE SI MUOVONO SULL’ALTOPIANO A 2000 METRI.I CONTINUI SPOSTAMENTI RIDUCONO GLI OGGETTI, LE COSE E GLI ANIMALI ALL’ESSENZIALE, A CIO’ CHE E’ STRETTAMENTE NECESSARIO, NON C’E’ ACCUMULO. FORSE STA IN QUESTO LA LORO PACE.NON CI SONO I PANNOLINI, SOLO PEZZE DI STOFFA PER ASSORBIRE LA PIPI’, LE QUALI VENGONO SPESSO CAMBIATE ED ASCIUGATE AL FUOCO. OGNI TANTO LA MAMMA PORTA IL SUO BAMBINO FUORI DALLA HURTZ, GLI LEVA I PANTALONI E LO TIENE SEDUTO, SOLLEVATO SULL’ERBA PER QUALCHE MINUTO. HO TROVATO SORPRENDENTE COME LA MAMMA CONOSCESSE COSI' PROFONDAMENTE I PIANTI E I TEMPI DEL SUO BAMBINO DA NON FARLO MAI SPORCARE NEI PANTALONI. LEI E’ RIMASTA ALTRETTANTO SORPRESA PER LA MIA MERAVIGLIA.LE RENNE SONO ANIMALI MOLTO DOCILI E DESIDERABILI. ALCUNE NOTTI HO SMANIATO DI PORTARNE UNA IN TENDA PER DORMIRCI INSIEME, E NON SOLO PER IL FREDDO. HANNO UN BUON PROFUMO, SIMILE A QUELLO DEL CANGURO O DEL CONIGLIO E UN ALITO FRESCO. SPROFONDARE LA MANO NELLA LORO PELLICCIA E’ ACCOGLIENTE E RASSICURANTE.AD OGNI PASSO LE UNGHIE FANNO UNO SCRICCHIOLIO E QUANDO CORRONO FANNO IL RUMORE DI UN FUOCO CHE SCOPPIETTA. LA SPESSA PELLE SULLA SCHIENA SI MUOVE COME SE FOSSE STACCATA DALLE OSSA, SICCHE’ RISULTA NON FACILE MONTARLE SENZA RIBALTARSI. GLI TSAATAN CON IL LORO LATTE FANNO UNO SPECIALE FORMAGGIO MOLTO NUTRIENTE E IN GRADO DI RISOLVERE I PROBLEMI INTESTINALI. LE RENNE NON VENGONO ABBATTUTE E LA LORO CARNE VIENE MANGIATA SOLO IN CASI ECCEZIONALI, AD ESEMPIO IN CONSEGUENZA A UNA BRUTTA FRATTURA.
Io e mia moglie Antonella abbiamo voluto impostare il viaggio in Mongolia in modo, per quanto possibile, alternativo, sebbene percorrendo uno degli itinerari classici. Pertanto abbiamo dormito per più della metà del periodo nella nostra tenda ed in luoghi di sosta scelti sul momento. Esperienza molto bella, soprattutto nel deserto del Gobi.Gli episodi più significativi, dal punto di vista etno-culturale, sono stati quelli vissuti a contatto diretto con le famiglie nomadi, dove abbiamo assaporato per qualche giorno il vero quotidiano degli autoctoni. Abbiamo visto parecchi animali selvatici e vissuto l'esperienza d'assaggiare una marmotta da poco cacciata, cucinata nel classico modo: con le pietre roventi.Un momento straordinario è stato quello della partenza da una delle gher, dove l'anziana della famiglia ha "benedetto" il nostro mezzo con del latte, ponendolo sulle 4 ruote e lanciandocelo dietro mentre pronunciava non sappiamo bene quali frasi d'auspicio. Una serata particolarmente suggestiva, è stata attorno al falò con guida e interprete, raccontandoci storie di spiriti delle montagne e almas degli Altai.Un fatto toccante è stato conoscere un nomade che ha subito la perdita dei suoi capi di bestiame, ad eccezione di una sola mucca, durante uno dei famosi rigidi inverni dell'inizio di questo secolo. Quel giorno era particolarmente affranto, perchè un branco di lupi gli aveva ucciso un puledro nato da poco.L'ospitalità mongola non l'abbiamo constatata soltanto nelle gher, ma anche nelle cittadine, nei mercati, in qualunque momento di contatto con la popolazione.Come ultimo vissuto in terra mongola, abbiamo assaporato l'atmosfera antica e magica di alcuni giochi del Naadam.La cosa che più ci è rimasta è il senso di libertà, determinato dai grandi spazi e dall'assenza di proprietà privata. Qui in Italia ormai ci sentiamo strettissimi (in tutti i sensi).
Mongolia terra di nomadiUn paese di spazi immensi con una natura selvaggia …Un popolo nomade generoso e ospitale …Un viaggio indimenticabile in un mondo antico …La Mongolia è un paese che colpisce per i suoi spazi immensi, per la sensazione di vuoto così lontana dalla nostra realtà quotidiana. I pastori nomadi vivono nelle gher, le tradizionali tende bianche di feltro, e l’incontro con la loro civiltà costituisce l’aspetto più interessante del viaggio; l’ospitalità è sincera, ogni occasione è buona per offrire qualcosa all’ospite di passaggio. In un mondo sempre più globalizzato, dove tutti si stanno appiattendo sul modello occidentale, la Mongolia rappresenta ancora un ritorno alle tradizioni antiche, con i nomadi che vivono quasi come ai tempi di Gengis Khan. Appena si lascia Ulaan Baatar, la moderna capitale, la natura regna incontaminata: verdi praterie si estendono sterminate, punteggiate qua e là solo dai bianchi puntini delle gher. Salendo verso nord si raggiunge il lago Khuvsgul, circondato da montagne coperte da foreste di larici siberiani e prati ammantati di fiori selvatici; le stelle alpine da noi così rare sono brucate tranquillamente dalle capre. Il sud è il regno dell’immenso deserto del Gobi, il più settentrionale del mondo. La lunga striscia delle dune di Khongoryn Els, rallegrata dalla presenza dei “veri” cammelli, quelli con due gobbe, costituisce una delle immagini più belle del paese.La Mongolia è uscita da poco più di un decennio dal lungo tunnel del regime comunista filo sovietico. Gli anni delle purghe staliniste sono stati tremendi: gran parte dei monasteri buddisti è stata distrutta e i monaci trucidati o deportati in Siberia. Il periodo post-comunista è stato altrettanto difficile: sono venute meno le garanzie sociali offerte dallo stato con la “classica” conseguenza dell’aumento della disoccupazione. Il paese per tirare avanti deve contare sugli aiuti internazionali. La vita è dura sia per chi vive in città che per i pastori delle campagne. A Ulaan Baatar migliaia di bambini orfani vivono per strada rifugiandosi nel sottosuolo durante i gelidi mesi invernali, i salari sono bassi, anche se la situazione sta lentamente migliorando. Nelle campagne le temperature toccano punte di cinquanta gradi sottozero e i nomadi rischiano di perdere il bestiame, unico mezzo di sopravvivenza in una terra selvaggia dove è impossibile qualsiasi coltivazione.Con il crollo del regime comunista, i mongoli si stanno riappropriando delle proprie tradizioni religiose, legate a un buddismo lamaista contaminato da elementi di sciamanismo. I monasteri sopravissuti sono stati riaperti al culto mentre altri sono in fase di restauro o ricostruzione. Alcuni sono veramente affascinanti: basti pensare ad Amarbayasgalant sperduto in una verde vallata. Naturalmente sono ricomparsi anche i monaci, ancora poco numerosi rispetto al passato, quando la Mongolia era uno stato teocratico. Assistere alle preghiere è un’esperienza intensa ed autentica.Il turismo è limitato, ostacolato dal pessimo stato della rete viaria. Solo un paio di strade è asfaltato e le piste devono essere percorse con mezzi a quattro ruote motrici. L’assenza di qualsiasi indicazione e i ridotti trasporti pubblici rendono indispensabile affittare un mezzo con autista. I campi di gher per turisti sono invece piacevoli e le possibilità di campeggio libero davvero infinite: piantando la propria tenda vicino alle gher dei pastori si è certi di essere invitati a casa loro e vivere uno spaccato di vita nomade. Naturalmente non bisogna abusare dell’ospitalità e contraccambiare sempre con qualche regalo. Il turismo, anche se limitato alla breve estate, può rappresentare una grossa risorsa ma c’è da augurarsi che il paese rimanga immune agli effetti devastanti del turismo di massa.Io e Stefania abbiamo visitato la Mongolia (era il nostro viaggio di nozze!), affidandoci a un’agenzia segnalataci dall’ottimo sito www.mongolia.itEd ora il diario di viaggio. In Mongolia abbiamo seguito il seguente itinerario di massima: Ulaan Baatar – lago Khuvsgul – lago Terkhiin Tsagaan – Kharakorum – deserto del Gobi – Ulaan Baatar25-26 giugno: Roma – Francoforte – Pechino – Ulaan BatarArrivo ad Ulaan BaatarRaggiungiamo Ulaan Baatar con un volo da Pechino della Miat, la compagnia di bandiera mongola. All’aeroporto ci accolgono l’autista e la guida. E’ tardi e c’è solo il tempo per raggiungere l’appartamento dove trascorreremo la prima notte. Si trova in un edificio fatiscente, protetto da una porta blindata che ci raccomandano di tenere ben serrata!!27 giugno: Ulaan Batar – verso il monastero di AmarbayasgalantUlaan BaatarIniziamo il giro turistico con il monastero di Gandan, formato da una serie di edifici scampati alle distruzioni comuniste. In un tempio i monaci siedono su due file, una di fronte all’altra. Pregano suonando grossi tamburi e piatti di metallo; voluminosi libri dalla forma allungata sono avvolti in panni. Intorno ai vari templi si trovano le ruote della preghiera, caratteristiche del buddismo tibetano; i fedeli pregano facendole girare una dopo l’altra. Un imponente edificio dall’aspetto moderno ospita una gigantesca statua di Budda in piedi, ricostruita di recente dopo che l’originale fu distrutto dai comunisti. Nelle pareti tutte intorno, dentro vetrine, campeggiano una miriade di statue di divinità.Il Palazzo d’Inverno era la residenza del lama-re d’inizio novecento. Attraversiamo una serie di splendidi padiglioni di legno. Gli interni sono decorati piacevolmente e il colore dominante è il rosso. Il complesso si è salvato perché trasformato in museo ed ospita un’interessante collezione. Raffinati arazzi recano rappresentazioni di divinità dalle molteplici braccia e teste. Nel tempio finale 21 statuette di bronzo sono opera di Zanabazar, il famoso lama vissuto nel seicento. Raffigurano Taras, divinità femminile dalle tette tornite, seduta all’orientale con una gamba piegata. Il giro termina con l’edificio a due piani, residenza del lama-re. Gli oggetti conservati sorprendono e fanno pensare ad un raffinato principe, non ad uno spartano monaco buddista. Una pelliccia è realizzata con le pelli di decine di volpi; i letti del re e della regina sono elaborate strutture di legno a baldacchino. Non mancano le curiosità come la foto di un elefante regalato al re, dopo una marcia di tre mesi dalla Russia. Splendide vesti testimoniano la raffinatezza dell’epoca.Prima di lasciare la città scaliamo la collina Zaisan, dominata dal monumento ai caduti eretto dai russi. Retorici mosaici raffigurano il pantheon del mondo sovietico: soldati in uniforme schiacciano i simboli del nazismo mentre astronauti, operai e contadini fraternizzano. Sul retro un mucchio di pietre è il nostro primo incontro con gli ovoo, i tradizionali tumuli di pietre retaggio dei culti sciamanici. Dal monumento la vista spazia, oltre il fiume, sulla città circondata da colline; gli edifici moderni di stile sovietico e le fabbriche con le loro ciminiere non ingentiliscono certo il panorama.In viaggio verso il monastero di AmarbayasgalantAlle tre e mezzo lasciamo Ulaan Baatar, attraversando un paesaggio di verdi colline punteggiate qua e là dal bianco delle gher, le tradizionali tende di feltro dei nomadi mongoli. Ci fermiamo per qualche foto e subito un pastore a cavallo viene a salutarci mentre un gruppo di mucche pascola tranquillo. Proseguiamo verso nord e dopo tre ore, alle porte di Darkhan, lasciamo la strada diretta verso la Russia e pieghiamo in direzione di Erdenet. Il paesaggio è molto più monotono: una piatta distesa si estende brulla e anche le gher sono scomparse. La Mongolia è “il paese del cielo blu” ma oggi il tempo è nuvoloso e persino uno spruzzo di pioggia sembra porgerci il suo saluto poco rassicurante. Carichiamo due poliziotti: sarà un passaggio oppure una scorta? Scendono poco dopo a Khotol, una striscia di condomini davanti ad una fabbrica bianca. Superiamo un fiume e il paesaggio torna verde, una vallata chiusa da basse montagne. Unici segni dell’uomo, la linea elettrica e la striscia d’asfalto luccicante per il sole frontale. I tralicci sembrano i soli “alberi” di questa regione. La luce della sera esalta i colori della valle: brillanti strisce gialle e verdi sono chiuse dal verde cupo delle colline. Un tratto più brullo ed anche il marrone arricchisce la tavolozza dei colori. Alle otto e mezzo abbandoniamo l’asfalto prendendo una sterrata che si dipana tra colline verdissime. In cima ad una salita un ovoo c’invita ad una sosta; impariamo dal nostro autista a compiere tre giri intorno e a lanciare sassi sul mucchio, come vuole la tradizione. Dopo un’ora raggiungiamo il campo turistico; le gher sono disposte entro un recinto e l’effetto è molto suggestivo. Le tende sono bianche con le parti di legno dipinte d’arancione e il comignolo della stufa che sbuca nel mezzo. La linea elettrica è tagliata e così manca la luce a rendere l’atmosfera più autentica. Il sole scompare dietro le colline e subito la temperatura scende bruscamente; non mi resta che coprirmi un po’ e sfruttare la luce solare residua per preparare le cose per la notte.Nella gher ristorante siamo in pochi, poiché la maggioranza degli ospiti coreani consuma il pasto con le proprie provviste. Ceniamo insieme all’autista e alla guida con un piatto di carne con il sugo, tagliata a striscioline. Durante il giorno abbiamo avuto modo di conoscere Erden, la nostra guida. E’ uno studente di 22 anni e parla un ottimo inglese: è stato, infatti, un anno a Pittsburgh negli Stati Uniti (ma anche in Cina ed Ungheria). Ci racconta tra l’altro qual è la situazione del paese dopo la caduta del comunismo; molte cose sono migliorate ma poi ci parla solo di ciò che è peggiorato (disoccupazione, privatizzazioni, ecc.). Erden sembra un ragazzo preparato e curioso: ci chiede notizie sull’Italia e i paesi del mondo che abbiamo visitato.Il primo giorno in Mongolia volge al termine e la mente corre alle immense distese verdi che abbiamo attraversato: la sensazione degli spazi vuoti è quella che più mi ha colpito in questa giornata.28 giugno: Monastero di Amarbayasgalant - ErdenetMonastero di AmarbayasgalantLa sala del tempio principale è affascinante: l’ambiente è diviso da pilastri dipinti di rosso ricoperti da stendardi colorati mentre il soffitto a cassettoni è decorato con figure dorate di draghi. Nella “navata centrale” due file di panche, una di fronte all’altra, sono destinate ai monaci, anzi ai lama, ma è tardi e l’ora della preghiera è passata. Il seggio del lama più anziano reca ancora le offerte mentre sulle panche vuote giacciono, piegate, tuniche gialle e rosse, insieme a buffi copricapo a cresta. Nella parete in fondo una selva di statue forma uno schieramento compatto; in una vetrina la statua realistica di un lama tutto abbigliato sembra sul punto di alzarsi dopo la preghiera. Il canto degli uccelli rende il luogo ancora più mistico.Dalle colline dietro il monastero, la vista spazia sull’immensità del paesaggio, un’ampia valle verdissima. Il monastero in basso sembra un plastico; un cavaliere solitario sfreccia sul suo destriero. Il silenzio è rotto solo dal canto lontano di qualche uccello appollaiato sui tetti del monastero. Il solito mucchio di sassi forma una macchia di colore con le sciarpe azzurre che si stagliano sul verde delle montagne. Solo le mosche ronzano dispettose disturbando la quiete del luogo. Camminando sul crinale raggiungiamo un secondo tumulo più in alto. La valle in basso è cosparsa qua e là dai bianchi puntini delle gher e dalle anse isolate di un ruscello. I tetti di tegole smaltate del monastero luccicano al sole. L’immensità dello spazio verde mi stupisce: nel terzo millennio esistono ancora luoghi incontaminati come questo! Il cielo si è riempito di nuvole e appare più basso come raccontano nei libri; il vento che ha preso a spirare sembra volere contribuire alla piacevolezza di questo paradiso verde. Le mosche sono scomparse e il silenzio regna sovrano.La visita del monastero è stata emozionante: nessun turista ma anche pochi monaci. Un vecchio lama malfermo era condotto nel tempio da due persone per le preghiere. Un giovane monaco ci ha accompagnato nei vari edifici, aprendoli giusto per noi. Vive nel monastero da due anni per studiare, lontano dalla famiglia. Nel padiglione subito dopo l’ingresso ritroviamo i quattro Protettori già incontrati nel Palazzo d’Inverno di Ulaan Baatar. Le statue colorate sono ancora più grandi. Ciascuna reca in mano un simbolo, un topo, un serpente, una spada e uno strumento a corda; sotto i piedi schiacciano figure umane, un serpente e una tartaruga. Erden cerca di spiegarci la simbologia ma il significato mi sfugge. Tornati nel tempio principale il ragazzo solleva una botola e sotto il pavimento compare una riserva d’acqua, alimentata dalla pioggia convogliata dal tetto attraverso le colonne. Proseguiamo il giro dei vari edifici nella corte posteriore. In un padiglione dedicato alla dea della longevità colpisce la solita moltitudine di statuette in serie dalle vesti dorate che recano nelle mani giunte una corona. Nell’edificio centrale, attorno ai tre Budda del Passato, Presente e Futuro, alcuni mobili in legno contengono libri avvolti entro panni. I rotoli sono disposti nelle celle dell’armadio. Uno stendardo reca una svastica, simbolo arcano; un altro rappresenta il Dio della Cronologia dalle 12 braccia, con una corona di teschi sopra la testa e una cintura di volti umani alla vita. All’esterno, coronato dalla ruota del Dharma attorniata da due gazzelle, una scritta cinese ricorda che il tempio fu fondato da un re manchu. Un padiglione ospitava la tomba di Zanabazar ma oggi rimane solo la sua statua, fatta ricostruire dal Dalai Lama negli anni novanta; gli occhi spalancati esprimono uno sguardo infantile.Tornati al campo turistico pranziamo gustando strisce di stomaco, dumpling e pesce fritto. Chiudiamo con una “Fiesta” (gli unici dolci del nostro soggiorno in Mongolia saranno merendine confezionate importate da ogni parte del mondo).ErdenetL’Hotel Selenge è un classico albergo di stile sovietico; ci assegnano una camera de luxe con rosoni stuccati sul soffitto e mobilio di design moderno. Contrariamente alle attese si lascia apprezzare. Ceniamo poco lontano al “Millionaire Cafè” dove una portata costa appena un euro (Stefania sceglie una zuppa di carne e verdure, io riso e carne).Sono ancora le otto e, sempre scortati da Erden, passeggiamo lungo la strada principale. La città è completamente priva d’attrattive e i condomini dell’epoca comunista sono brutti e fatiscenti. La gente invece veste con gusto all’occidentale. In giro si vedono alcuni barboni e ubriachi. Erden ci sconsiglia di uscire da soli più tardi. Nei giardini della piazza principale si gusta un barbecue all’aperto mentre i bimbi giocano intorno alla fontana. Le femminucce sono belline, in particolare una con due codini, mentre i maschietti vivaci si mettono subito in posa per essere fotografati accettando di buon gusto di “battere il cinque”. Terminiamo la passeggiata davanti ai ritratti di Marx e Lenin che campeggiano su due palazzi, retaggio dell’era comunista finita senza toni troppo bruschi.Siamo nella terza città della Mongolia, sorta nei pressi di una gigantesca miniera di rame e ne approfittiamo per stabilire i contatti con l’Italia. All’ufficio postale una telefonata di un minuto costa 1000 tugrik (un euro valeva circa 1300 T), la valuta locale: la procedura è un po’ lenta ma l’audio buono. In un Internet Cafè mandiamo alcune e-mail approfittando del collegamento veloce (200 T per mezzora).29 giugno: Erdenet – Bulgan – vulcano Uran UulDa Erdenet a BulganNella periferia di Erdenet la gente abita nelle gher, protette da palizzate di legno. Lasciamo la città su una sterrata piena di buche in mezzo a paesaggi brulli. In alcuni tratti fervono i lavori per asfaltare la strada fino a Bulgan ma per ora non c’è traccia di pavimentazione. Il traffico pesante è intenso per gli standard mongoli. Dopo due ore siamo a Bulgan, dove al posto delle solite gher troviamo casette fatte di grossi tronchi di legno. Pranziamo in un “ristorantino” accompagnando le tradizionali schiacciate ripiene di carne e i dumpling, con il tè mongolo (una miscela di tè, latte e sale). Si dice che se una donna mette molto sale nel tè vuol dire che è incinta; i prossimi giorni osserverò attentamente i dosaggi di Stefania.In viaggioLa steppa in questa regione è secca, poca erba spelacchiata, e questo ci spiega Erden è un brutto segno per il prossimo inverno quando non ci sarà da mangiare per il bestiame. Compaiono gli alberi e il paesaggio diventa più montano. Il fondo della valle torna verdissimo con un manto di fiori gialli. Ci fermiamo in cima ad una salita, presso un gruppo di capanne di legno e due ovoo. Una specie di grossa baita è già ultimata, un’altra è in costruzione: ospiteranno un hotel e un ristorante. Tre mongoli riposano all’orientale, accucciati sulle gambe. Ci offrono l’airag, bevanda leggermente alcolica di latte di giumenta fermentato. Sopraggiungono due motociclisti occidentali: sono tedeschi ma uno di loro vive a Venezia e parla italiano. Con le loro vecchie moto sono in viaggio da cinque settimane; dall’Italia hanno attraversato Slovenia, Ungheria, Ucraina e Russia. Complimenti!Vulcano Uran UulDopo la discesa, sbuchiamo in un’ampia conca; in lontananza si scorge il basso cono dell’Uran Uul, un vulcano spento. Improvvisamente il driver lascia la pista e procede in mezzo alla prateria. Ha scorto in lontananza un gruppo di cavalieri e punta verso di loro. Si stanno preparando per la versione locale della festa nazionale, il Naadam; alcuni indossano vesti tradizionali. Un uomo dallo sguardo severo porta un caratteristico cappello; altri il deel, una lunga tunica blu o rossa. Un bambino cavalca senza sella; parteciperà alle corse della festa. Con il nostro pulmino facciamo da traguardo ad una galoppata di gruppo.Le sorprese non sono finite: lasciati i cavalieri, ci fermiamo in una gher per visitare una famiglia nomade. Entriamo facendo attenzione a non calpestare la soglia; nell’ambiente circolare regna un po’ di confusione come a casa nostra. Sui lati due brande, con le gambe stranamente poggiate sopra barattoli, segnano le zone per gli uomini e le donne, mentre in fondo due specie di tatsebao recano le foto di famiglia. Ci accomodiamo sulla bassa panca sistemata davanti al tavolo. La padrona di casa ci offre subito il burro da prendere con biscotti duri allo yogurt, molto dolci. Segue poi una ciotola piena di yogurt (speriamo bene!). La notizia del nostro arrivo si sparge e sopraggiungono altri ospiti dalle gher vicine. Un uomo a torso nudo è accompagnato dal nipote; la sua notevole pancia è fermata da una fascia che sembra trattenere un’ernia. La sua mole, ci spiega Erden, è giustificata dal fatto che era un lottatore, come ora è suo figlio e come diventerà il nipote seduto al suo fianco. Sul petto reca un tatuaggio di cavallo; il ragazzo ha un sorriso bellissimo con il quale contraccambia sempre i miei. Il lottatore ci mostra orgoglioso una serie di regali ricevuti da italiani: bottigliette di Chianti, Martini e gin. Me le porge con la mano destra e sto ben attento a riceverle con entrambe le mani. Come segno di benvenuto procediamo anche ad un piccolo rituale, proprio come nel film “La storia del cammello che piange”: ci passiamo una boccetta dalla quale si estrae un pennello per cospargersi un dito con il tabacco. Per sdebitarci offriamo i nostri piccoli doni, un pacco di caramelle per la padrona di casa, bon bon e penne per i bambini. Ormai il ghiaccio è rotto e faccio i miei complimenti al lottatore per i suoi stivali: sono veramente massicci, con la punta ricurva e una fascia decorata. Terminata la visita, ci scambiamo i “Bayartee” e seguiamo la padrona di casa impegnata nella mungitura delle cavalle. La tecnica è molto semplice: un uomo si avvicina con il puledro alla giumenta e la signora passa alla mungitura (sempre da sinistra). Poi tocca al cucciolo.Il campo turistico è molto vicino, poco lontano dal vulcano. Ci aspetta un’altra notte in una gher, la tipica abitazione dei nomadi mongoli. Si tratta di una capanna circolare con il tetto conico; su un’intelaiatura di legno con pareti a reticolo e pali per il soffitto, viene posto il rivestimento di feltro, ottimo isolante. Al centro si trova un’apertura circolare dalla quale esce il comignolo della stufa. La porticina esterna, colorata in modo vivace, si apre verso sud per sfuggire ai freddi venti del nord. All’interno i due pali simboleggiano l’uomo e la donna, con l’apertura centrale che rappresenta la loro unione; separano la parte maschile e femminile della gher, quest’ultima naturalmente con la cucina. La capanna è facile da montare ed è quindi la residenza ideale per una popolazione nomade.Leggende mongoleErden ci racconta alcune leggende mongole. C’erano una volta sette soli e faceva molto caldo. Un arciere provetto, Erkhii, aveva otto frecce e decise di abbattere i soli con il suo arco. Vi riuscì subito con i primi sei ma al settimo tiro la freccia colpì la coda di una rondine di passaggio. Questo spiega perché le rondini hanno la coda con due punte. L’arciere decise di inseguire l’ultimo sole e promise che se non fosse riuscito a colpirlo si sarebbe tagliato il pollice delle mani, sarebbe vissuto in montagna e non avrebbe più bevuto acqua pura. Avrebbe anche tagliato le zampe anteriori al suo cavallo. Iniziò l’inseguimento ma il sole stava tramontando e non fece in tempo. Mantenne il voto fatto e divenne la marmotta mentre il suo cavallo divenne il saltellante topo mongolo.Un’altra storia racconta che gli animali dovevano decidere quali fra loro avrebbero fatto parte dei dodici segni zodiacali. Sarebbero stati i primi dodici a vedere sorgere il sole la mattina seguente. Il cammello era tutto contento, convinto che dall’alto della sua figura avrebbe visto l’alba per primo mentre il topo era triste perché così piccolo pensava di non avere speranza. Il cammello propose al topo di gareggiare insieme. La notte dormirono. Il cammello sedette guardando verso oriente mentre il topo si mise sopra il cammello rivolto nella direzione opposta. Al mattino il sole si riflesse sulla montagna prima ancora di sorgere e il primo a vederlo fu proprio il topo che avvertì gli altri animali. Il cammello così fu escluso dai dodici segni dello zodiaco.30 giugno: vulcano Uran Uul – lago KhuvsgulIn viaggio verso il lago KhuvsgulAlle sette e venti lasciamo il campo turistico salutati dalla famiglia del proprietario (mamma, papà, figlio e figlia). Ci aspetta il tragitto più lungo di tutto il viaggio. Procediamo lungo la valle di un fiume: la striscia di verde si raccoglie intorno alle acque. Davanti ad una gher una ragazzina bolle il latte di giumenta per preparare l’airag: è vergognosa e al mio arrivo si ritira un attimo nella gher per prendere un giubbino. Percorso un altro tratto, incrociamo un gregge con un cammello al seguito per il trasporto dei bagagli. I pastori, come al solito, controllano la situazione dall’alto dei loro cavalli, impugnando un lungo scudiscio. Dopo due ore dalla partenza raggiungiamo Khulag Unde, scavalcando su un lungo ponte il Selenge, il fiume più importante della Mongolia. Proseguiamo un bel tratto fino ad un nuovo splendido incontro con un folto gruppo di cavalieri. L’autista anche questa volta punta deciso verso di loro; scopriremo più tardi che fino al 1993 è stato anche lui un nomade. Erden ci racconterà che il minivan è suo e lavora solo d’estate. Cavalli e cavalieri, inclusi numerosi bambini, sono molto fieri; non è facile fotografarli perché non stanno mai fermi, girano in tondo e voltano la testa.Ripartiamo: il paesaggio è la solita successione di praterie, ora per la maggior parte molto secche; non mancano i tratti pietrosi. Attraversiamo anche una conca coltivata, fatto quasi incredibile per i mongoli che considerano sacrilego persino fare un buco nella terra. Il pranzo oggi è al sacco: panino e noodles, naturalmente con la carne. Viaggiamo in mezzo ad un gran polverone finché ci fermiamo in cima ad una salita. Sopraggiunge il pulmino degli olandesi, già incontrati al monastero e all’ultima sosta per i cavalli. Il nostro autista approfitta dell’aiuto del collega per smontare la ruota posteriore sinistra, estrarre tutta una serie di pezzi e lavarli con il gasolio. Niente di grave ci rassicura Erden ma prevenire è meglio che curare!Sono le quattro passate e ci aspetta ancora un lungo percorso. Durante il cammino diamo un passaggio a tre ragazzi. Mi lancio in qualche domanda in mongolo: chiedo come si chiamano ma mi rispondono con tre suoni gutturali incomprensibili. Alla domanda “quanti anni hai ?” per fortuna rispondono con le mani. La più piccola è decisamente carina con due fessure al posto degli occhi e il visetto schiacciato; ha 14 anni mentre il ragazzo ne ha 16 e la più grande 17. Per sdebitarsi del passaggio ci offrono lo yogurt che portano in una tanica. Lo versano nelle nostre tazze da viaggio ed è veramente saporito. Dal frasario della Lonely Planet estraggo una frase augurale: “Mal sureg targam tastai yu !” (“spero che i tuoi animali stiano ingrassando bene !”). Sono tutti contenti per il mio augurio anche l’autista mentre Erden mi fa i complimenti per la pronuncia.Al benzinaio di Moron, capitale del nord, incrociamo alcuni motociclisti: hanno delle grosse moto coreane ma indossano il deel con una fascia arancione che lo stringe in vita. Erden è di Moron e approfitta dell’occasione per visitare la sua famiglia; ci presenta la mamma e alcuni dei suoi nipoti (sono sette fratelli!). Ci offrono tè e biscotti e siamo ben lieti di fare la loro conoscenza.Ultima tirata di tre ore fino al lago Khuvsgul; raggiungiamo Khatgal, un paese pieno di sporcizia con misere case di legno circondate da palizzate malmesse. Una strada in discesa ci porta finalmente al lago: è tutta un susseguirsi di sassi e procediamo saltellando a passo d’uomo, degna conclusione della lunga giornata. Il campo turistico, “Khuvsgul Dul Tour Camp”, è il primo sulla sponda del lago e, anche se una penisola ne impedisce una visione più ampia, il luogo è affascinante con le nuvole rosse per il tramonto che si riflettono nelle acque. Siamo tornati nel circuito turistico: la nostra gher ha la corrente elettrica e il ristorante è ospitato in una grossa costruzione di legno. Interrompiamo la dieta a base di carne gustando pesce di lago alla cinese.1 luglio: lago KhuvsgulTsaatan FestivalPer risalire il lago dal nostro campeggio dobbiamo tornare verso il paese e prendere una sterrata che si dirige a nord internamente, in certi tratti seguendo letteralmente il letto asciutto di un fiume. Prendiamo a salire in mezzo ad un bosco ed ecco dall’alto comparire nuovamente il lago. Una discesa in picchiata ci porta fino alla riva per raggiungere il “Dalai Tour Camp” dove è in programma lo Tsaatan Festival.Gli tsaatan, in lingua mongola la parola significa uomini-renna, sono una popolazione nomade così chiamata per la loro caratteristica di allevare questi animali. Sono ridotti a poche centinaia e vivono in una regione ad ovest del lago Khuvsgul. Il festival è dedicato a loro anche se sono presenti poche famiglie e la maggioranza degli attori è mongola. L’avvenimento riveste una certa importanza tanto che è onorato dalla presenza dei ministri del turismo e dei trasporti, giunti con l’elicottero parcheggiato sul prato vicino al lago (loro si sono evitati il massacro delle strade mongole). Il biglietto costa 14.000T, un vero prezzo per turisti. Lo spettacolo deve ancora cominciare ma dietro le quinte gli artisti sono già pronti insieme ad un gregge di renne. Gli animali attirano subito la nostra attenzione. Sono buffi e docilissimi: si lasciano carezzare le corna, quelle dei maschi maestose con le loro ramificazioni. Ci aggiriamo tra renne e figuranti, incuriositi dagli animali e dai costumi tsaatan. Finalmente dopo i pomposi discorsi delle autorità, tutto il mondo è paese, lo spettacolo ha inizio. Un gruppo di bambine sgambetta simulando, anche grazie al costume, il cavalcare delle renne. La musica tintinnante e l’allegria delle bambine riscaldano subito il pubblico. Nella prosecuzione si alternano vari balli e canti di gruppo. In particolare stupisce un solista che oltre alla “ordinaria” voce umana ne possiede una seconda, simile ad uno strumento musicale, proveniente dal profondo dello stomaco e dalla gola. Si tratta di una stupefacente forma di canto tradizionale. Nello spettacolo non manca la ragazzina contorsionista con il suo groviglio d’articolazioni.Il pranzo al sacco del campeggio è abbondante quanto i pasti seduti a tavola (finiremo proprio per ingrassare in questo viaggio). Sorge qualche incertezza sul proseguimento della giornata. Erden non è molto prodigo di consigli e sembra volere stroncare ogni nostra iniziativa. Alla fine riusciamo a convincere lui e l’autista a proseguire per la strada lungo il lago. Vorremmo, infatti, allontanarci dalla folla di turisti attratta dal festival ed esplorare qualche angolo caratteristico. Bastano pochi chilometri per riguadagnare la tranquillità, anche se non mancano i campi turistici. Sulla riva erbosa, oltre ai soliti splendidi cavalli, incrociamo dei bovini alquanto pelosi: si tratta di buffi incroci tra yak e mucca. Dopo un breve tratto, l’autista parcheggia davanti ad una gher. Qui vivono due ragazze e i nostri accompagnatori sembrano fare un po’ i “molliconi”; procedono ad un baratto di cassette musicali ma per fortuna non perdiamo i “Ricchi e Poveri”, pezzo forte della colonna sonora dei giorni passati! Naturalmente veniamo invitati anche noi nella gher e come al solito finiamo per mangiare (gustoso il formaggio).Promontorio di JankhaiSeduto sull’estremità del promontorio nel silenzio più assoluto, ammiro lo spettacolo della natura. Verso sud una corona di dolci colline ricoperte di foresta avvolge le acque placide. Di fronte i monti Saridag, più alti, sono coperti dagli alberi, solo fino ad una certa altezza mentre più in alto il grigio delle rocce sembra sorreggere i nuvoloni che avanzano. Verso nord il lago si apre come un mare e la sponda non s’intravede nemmeno. Quale contrasto tra il piombo del cielo da un lato e l’acqua marina dall’altro! Mi levo le scarpe ed immergo i piedi: l’acqua è gelida. Il promontorio termina con una punta di sassi ma prima ospita un bel boschetto dove sorge un piccolo campeggio di gher. Un gruppo di cavalli ha scelto quest’oasi di pace, mentre qualche “audace” ha piantato la propria tenda sull’istmo che separa una delle due lagune dal lago.Panorama sul lagoSulla via del ritorno per il campeggio ci fermiamo al passo, in prossimità del solito cumulo di sassi e, consigliati da un gruppo di italiani, intraprendiamo una ripida salita fino alla cima della montagna. La vista spazia finalmente su una larga porzione del lago, inclusa l’isola che sorge al suo centro. Nel paesaggio spicca il promontorio di Jankhai con le acque delle lagune che formano due macchie di colore in contrasto con l’azzurro del lago.Ritorno al campeggioIn paese ci fermiamo davanti ad un food store; sembra di essere in un film western con i cavalli “parcheggiati” davanti al negozio. Il paese mi sembra meno squallido di ieri e le costruzioni di legno lungo la strada principale completano l’effetto da Far West.Memori del giorno precedente per evitare l’infernale discesa verso il campeggio, preferiamo proseguire a piedi. Il sole splende ora in un cielo terso e la visione è da fiaba: i “mezzi” yak pascolano su un prato verdissimo mentre le acque del lago si sono accese di varie tonalità d’azzurro, un mare dal turchese al blu.A cena, oltre l’immancabile carne, gustiamo una zuppa di carne (!!) nella quale s’intingono pezzetti di pane fritto, piatto tipico mongolo. Raggiungiamo poi la sottile striscia che si allunga in mezzo al lago; un campeggio sorge sul promontorio mentre sulla punta due pescatori armati di canne s’immergono nell’acqua con i loro stivaloni. Poche decine di metri ci separano da un minuscolo e basso isolotto.2 luglio: lago KhuvsgulPrima settimana di viaggioUna settimana di viaggio, un momento di riflessione. La Mongolia è un paese unico: gli spazi immensi sono spopolati e la sensazione di vuoto colpisce chi, come me, è abituato a tutt’altra vita. I nomadi con le gher, i costumi e le tradizioni costituiscono l’aspetto più interessante: la loro ospitalità è sincera ed ogni occasione è buona per offrire qualcosa. Quale sarà il meglio per il loro futuro? Una vita di difficoltà in mezzo ad una natura selvaggia e crudele oppure la “comoda” vita di città ad Ulaan Baatar in cerca di un lavoro? Il nostro autista quando ha perso il padre ha abbandonato il college ed ha vissuto quattro anni da nomade. Alla fine però ha venduto tutto il bestiame e si è comprato una macchina iniziando un nuovo lavoro. La millenaria tradizione nomade è forse destinata a sparire con il tempo? Le parole sagge di Erden sembrano tranquillizzarmi: i nomadi hanno molti figli e la natura non ha spazio per tutti (sembra strano in una paese così vasto ma è così), per cui è un bene se solo alcuni continuano con la vita nomade.La natura è l’altro elemento che stupisce il viaggiatore. Nella Mongolia centrale i paesaggi verdissimi ricordano certi scenari del nord Europa. Salendo verso nord invece le praterie diventano sempre più brulle fino all’incredibile “oasi dell’oceano del lago”. Il paesaggio qui è meno originale, meno vicino all’immaginario della Mongolia ma sicuramente splendido. Nei prati i fiori selvatici formano macchie di tutti i colori, dall’arancione al giallo, dal viola al celeste. Le stelle alpine da noi così rare sono brucate tranquillamente dalle capre.Gita in barcaIl lago ha i suoi colori per ogni ora del giorno. Questa mattina le acque immobili hanno assunto le tonalità più cupe della sponda orientale in ombra. Erden dorme beatamente e così ci arrangiamo per conto nostro aggregandoci al giro in barca del gruppo di italiani in viaggio con la nostra stessa agenzia. Sono in cinque e per alcuni di loro si tratta del secondo viaggio in Mongolia.In barca risaliamo il braccio meridionale fino ad un promontorio dove il lago si allarga trasformandosi in un oceano (il lago meritò questo titolo nell’epoca manchu perché ha più di cento affluenti). Dalla barca i monti Saridag ci appaiono con il loro curioso manto di foreste: lingue di alberi scendono dalle rocce brulle fino al lago, torrenti di verde che confluiscono nell’azzurro delle acque. Rivedo, navigando, i luoghi di ieri: il passo con il sentiero per arrivare in cima, la penisola di Jankhai con gli alberi. La giornata è soleggiata; solo una nuvola poggia sulle vette più alte. La sua forma mi ricorda una nave mentre Stefania, ormai entrata nello spirito del viaggio, suggerisce un cappello mongolo. Attracchiamo su uno stretto promontorio, una mini Bellagio. Le nuvole sopra l’altra sponda si riflettono nelle acque turchesi della caletta sotto di noi e le montagne sullo sfondo completano il quadro. Sulla punta non manca il solito ovoo. Di fronte il lago si apre in una distesa immensa, un mare davanti a noi, ma lo sguardo non può che tornare alle acque della caletta, pennellate di turchese; una striscia immobile in mezzo alle increspature sembra un fiume che scorre nel lago.Gita a cavalloIn cima alla montagna la vista è meravigliosa, uno spettacolo indimenticabile, il più bello del lago. Il ramo meridionale sotto di noi appare una tavolozza di verde, blu, azzurro e turchese: una visione che credevo fosse possibile solo nei mari tropicali. L’isolotto vicino al nostro campeggio sembra un atollo di sabbia strappato ad un’altra latitudine. Tutto intorno, il manto dei larici siberiani avvolge in un abbraccio la macchia colorata delle acque.Due spartane sdraio di legno accolgono le nostre membra dopo la cavalcata; sceso da cavallo le ginocchia erano a pezzi ma ora tutto è a posto. In due ore, procedendo al passo, abbiamo attraversato una foresta ammantata di fiori variopinti. E’ stata la mia prima esperienza a cavallo e il giro accompagnato dalla guida mongola è stato divertente, un’esperienza alla quale non potevamo rinunciare nel paese dei cavalli.3 luglio: lago Khuvsgul – Moron – Shine IderKhatgal – MoronA Khatgal facciamo benzina; la pompa manuale funziona ruotando una manovella. Sopraggiungono due moto russe da fuoristrada, vecchie ma possenti. Percorsi pochi chilometri ci dobbiamo fermare perché una gomma è sgonfia. L’autista estrae una pompa da bicicletta con la quale recuperiamo un po’ di pressione al prezzo di una notevole fatica di braccia.All’ufficio postale di Moron, dove giungiamo all’ora di pranzo, ci connettiamo ad internet per segnalare in Italia la nostra esistenza (linea un po’ lenta, 420T per mezzora). Insieme alle strade principali asfaltate ritroviamo quindi un elemento di modernità. Per il resto Moron non è che un grosso agglomerato di case in cemento o legno; una spianata funge da piazza principale con al centro un monumento dedicato all’eroe locale.Per pranzo siamo ospiti della famiglia di Erden. I rapporti tra familiari mi sembrano diversi dai nostri: non si fanno troppe smancerie, anche quando non ci si vede da tanto tempo, mentre si bada molto alle azioni, a preparare un pranzo, offrire un tè. Insieme alla mamma di Erden, al fratello aspirante poliziotto e a una sorella, abbiamo modo di assaporare la cucina casalinga: noodles con carne fresca e secca, patate e carote, seguiti da maxi dumplings (buuz). Davanti alla casa è parcheggiata la Hyundai della sorella ed Erden non si lascia sfuggire l’occasione per fare un giretto al volante.Dopo i saluti, facciamo una puntata al mercato acquistando caramelle e sigarette per i nomadi che incontreremo nei prossimi giorni. La maggioranza della gente veste all’occidentale ma alcuni anziani indossano il deel con stivali di tipo militare sovietico. Ai margini della città è stato ricostruito un monastero buddista: una ruota della preghiera è ricavata da un bidone di latta.Moron – Shine IderLasciamo Moron seguendo l’omonimo fiume, lungo una pietraia. Le montagne prive di vegetazione formano macchie di vari colori. E’ una giornata molto calda; diamo un passaggio ad un mongolo che cammina solitario. E’ molto timido ed evita i nostri sguardi. Percorriamo un lungo tratto, prima di giungere alla sua abitazione (come avrebbe fatto a piedi con quegli stivaloni invernali?!). Con qualche acrobazia il minivan raggiunge direttamente la capanna di legno: l’autista vuole procedere ad una riparazione e il mongolo ha una lunga barra d’acciaio necessaria per l’operazione. E’ proprio vero che in campagna ci si aiuta gli uni con gli altri. Con Stefania ne approfittiamo per spostarci dai vicini dove in un recinto è in corso la tosatura delle pecore: un pastore con le forbici sta togliendo la lana ad una pecora con tre zampe legate, tagliandola tutta insieme come se si trattasse di un cappotto. Lungo la strada incroceremo vari camion stracolmi di manti di pecore. Gli acquirenti vengono direttamente sul posto per le compere all’ingrosso. Nel frattempo la riparazione procede e veniamo invitati nella capanna di legno, intrattenuti da una signora anziana, una giovane e una bambina, alla quale regaliamo una manciata di caramelle. Questa zona appare molto secca ma i nostri ospiti sono generosi anche se poveri.La strada prende a salire in mezzo a boschi per poi spianare in una verde distesa circondata da colline. Il paesaggio prosegue in un’alternanza di aree brulle e verdi. Ci fermiamo verso le sette per la cena al sacco. Superate colline e vallate, dopo le nove raggiungiamo finalmente il villaggio di Shine Ider.In tenda presso Shine IderPer la notte ci accampiamo nelle vicinanze di Shine Ider, ad una “distanza di cortesia” da un gruppo di gher. Il montaggio della tenda ci pone qualche problema per il forte vento che si scatena proprio in quel momento. Il sole prossimo al tramonto illumina le montagne e il paese in lontananza, sopra il quale splende un tratto d’arcobaleno. Il verde della prateria tende quasi al giallo. Sopraggiungono i nomadi per invitarci nella loro gher. L’ospitalità è un principio fondamentale nella cultura di questo popolo. Entriamo in una piccola gher, veramente misera. Erden traduce alcuni brani della conversazione. La famiglia ha perso quasi tutti gli animali durante l’inverno e per questo si è avvicinata al villaggio. Attratti dalla curiosità sopraggiungono a frotte i vicini. Cerchiamo di fare qualche domanda, tradotta da Erden, per entrare nella conversazione, ma non è facile. Questa volta non abbiamo a che fare con persone abituate ai turisti. I loro sguardi non incrociano mai i nostri; mi sento trasparente come se non ci fossi, una sensazione provata già altre volte questi giorni. Naturalmente ci offrono tè mongolo e yogurt che noi contraccambiamo con una busta di biscotti. Dopo un po’ i vicini sembrano perdere interesse nei nostri confronti: in una gher hanno la televisione e sta per iniziare un film, spettacolo evidentemente più interessante di quello che noi possiamo offrire! Incuriositi andiamo anche noi nell’altra gher: è più grande, con tre letti e molto più ricca con tappeti per terra e sulle pareti; anche la mobilia, al solito tutta colorata, è particolarmente bella. Hanno un generatore alimentato dal vento grazie al quale possono guardare la televisione mongola che sta trasmettendo un film russo in bianco e nero. Ormai si è fatto tardi, dopo una lunga giornata in pulmino: non ci resta quindi che salutare tutti e ritirarci nella nostra tenda.4 luglio: Shine Ider – lago Terkhiin TsagaanMattino in tendaAlle otto il sole splende già alto illuminando la verde vallata con le gher. Sopraggiunge un nomade per offrirci il tè mongolo che accettiamo volentieri. E’ il capofamiglia della gher visitata ieri sera e nonostante la modesta condizione non rinuncia ai principi dell’ospitalità. Contraccambiamo con sigarette e altri biscotti. E’ interessato alla macchina fotografica digitale di Stefania e in particolare alle foto di animali.In viaggio verso il lago Terkhiin TsagaanDopo i saluti, alle nove passate riprendiamo la marcia verso sud, fermandoci subito presso un antico “monumento funebre”, formato da quattro pietre disposte agli angoli di un quadrato. Una seconda sosta è presso un ovoo dalla forma di tempietto, costruito in ricordo di un tempio distrutto dai comunisti. Erden ci racconta che suo nonno materno era un famoso cacciatore, esperto anche di medicina tradizionale. Era buddista e fu rapito dai comunisti senza fare più ritorno, un destino toccato a molte persone durante le purghe staliniste.A metà mattinata raggiungiamo il fiume Ider Gol che scavalchiamo su un ponte di legno poco rassicurante, raggiungendo un paese il cui nome mongolo significa “felicità”. Poco oltre sorge il “Jarkal Jigur Tourist Camp”, davanti al quale incontriamo di nuovo il gruppo di italiani intenti a fare il pediluvio in una pozza d’acqua calda. La loro guida ci consiglia di cospargerci con il latte di cavalla bianca, ottimo per la pelle.Per pranzo ci fermiamo in una gher lungo la strada. L’interno è piacevole con tappeti e mobili dipinti. Vi abita una signora anziana con una nipote ma, come al solito, gli ospiti di passaggio sono numerosi, in particolare un folto gruppo di ragazzine. Ci offrono tè mongolo e formaggio ma i loro sguardi sfuggono ai nostri rivolgendosi sempre ad Erden. Una ragazzina acerba ma carina non resiste però a lungo e comincia a gettarmi occhiate interessate. Per pranzo ci preparano dei noodle fatti in casa: l’impasto d’acqua e farina viene trasformato in una sfoglia sottile dalla quale le ragazze tagliano i noodle. La padrona di casa accende il focolare e procede alla cottura. Nel frattempo Erden c’insegna un paio di giochi mongoli, basati su piccole ossa di caviglia di capra. Le ossa fungono da dadi e le quattro facce simboleggiano capra, pecora, cavallo e cammello. Il primo gioco è simile al nostro “saltacavallo”, il secondo consiste nel lanciare per aria una catenina e riacchiapparla al volo dopo avere riempito la mano con le ossa. I noodle sono pronti e ci vengono serviti in brodo insieme a carne secca (e molti capelli!). L’autista, che si era sdraiato per terra schiacciando un pisolino, si risveglia prontamente. Al pranzo partecipa anche un cavaliere appena giunto, dal volto e dalle vesti tipicamente mongoli (come farà a non scoppiare di caldo con gli stivali russi e il deel). Dopo pranzo, assistiamo alla mungitura delle pecore da parte delle ragazzine; ormai il ghiaccio è rotto e le foto digitali di Stefania suscitano un gran clamore. Ci facciamo scrivere l’indirizzo in mongolo da Erden per potere spedire qualche foto.Lago Terkhiin Tsagaan: seduti su un promontorio a picco sul lagoIl campeggio sorge su un promontorio che termina con una roccia a picco sul lago. Dalla cima ammiriamo il panorama, illuminato dalla luce della tarda serata. Il paesaggio è completamente diverso dal Khuvsgul: verdi montagne circondano lo specchio d’acqua, punteggiate qua e là dalle gher dei campi turistici. Davanti al nostro campeggio una stretta spiaggia di sabbia rappresenta una rarità per la Mongolia. Un paio di pescatori è all’opera, uno con una canna da lancio, l’altro semplicemente con un filo che lancia lontano e ritira.5 luglio: lago Terkhiin TsagaanVulcano KhorgoIn cima al vulcano Khorgo si ammira il profondo cratere spento. Le rocce laviche scure e la profonda depressione sono impressionanti. E’ tutta una pietraia, piena di leggere rocce porose, ma, un tempo, la forza dell’eruzione generò la colata lavica, oggi ricoperta dagli alberi, che si estende nella piana verso il lago. Siamo arrivati fin qui sobbalzando nel pulmino sopra la colata e salendo una scala di gradini in cemento costruita per agevolare i visitatori. In cielo volteggia in ampi giri un’aquila. Percorriamo l’orlo del cratere, ammirando in lontananza le acque del lago; dal punto più alto s’intravede anche il nostro campeggio.Le grotte di Shar Nokhon, vicino al vulcano, sono una delusione, nient’altro che voragini nella roccia lavica della colata.Gita a cavalloIl pomeriggio decidiamo di fare un giro a cavallo di un paio d’ore. Dal campo turistico procediamo lungo la riva del lago con un’andatura molto tranquilla, quasi sonnolenta, ma quando facciamo capire al nostro accompagnatore che vorremmo andare più veloci, parte al trotto e, viste le mie scarse capacità di cavallerizzo, finisco per rimbalzare sulla sella. Ripresa la lenta andatura al passo, mi sembra invece di essere uno di quei feriti che venivano trasportati legati in sella ad un cavallo, come leggevo nei libri da ragazzo.Dopo la tempestaSiedo davanti alla nostra gher di fronte al lago. Dopo la grandinata, un arcobaleno si staglia sui nuvoloni scuri. Le acque agitate dal vento sono di piombo ma qualche montagna in lontananza splende per la luce del sole. Il tempo è molto variabile in questa stagione e il cielo racchiude questa mutevolezza, con pennellate di colore che sembrano l’opera di un pittore impressionista. Alcuni nuvoloni striati richiamano il pelo dello yak, altri più bassi velano le montagne mentre squarci d’azzurro si fanno largo qua e là; l’oro del sole al tramonto si trasmette alle nuvolette ormai isolate a ponente.6 luglio: lago Terkhiin Tsagaan – Tsetseterleg – terme di TsenkerDal lago Terkhiin Tsagaan a TsetseterlegRiusciamo ad anticipare di un’ora la partenza, alle otto, in modo da visitare anche il monastero di Tsetseterleg non incluso nel programma. Superato il vulcano Khorgo, raggiungiamo il villaggio di Tariat, scavalcando il fiume su un ponte di legno. Diamo un passaggio ad un viandante: indossa un deel marrone chiaro, stivali e un cappellino da polo! I capelli bianchi proseguono in due basettoni uniti da una striscia di barba sotto il mento. La pelle scura indica una vita da nomade passata sotto il sole. Come altre persone alle quali abbiamo dato un passaggio siede di fronte a noi ma volge la testa per guardare la strada o evitare i nostri sguardi. Si sta recando ad assistere alle corse dei cavalli di un festival locale. Poco oltre incrociamo una colonna di nomadi: si stanno trasferendo con tutte le loro cose, gher incluse, a bordo di carri trainati da yak. L’immagine della lunga fila nella prateria con le montagne sullo sfondo è emozionante, rovinata solo un po’ dal pensiero che lo spostamento è motivato da un documentario.Alle dieci raggiungiamo il canyon del fiume Chuulut che scorre tra pareti verticali per svariati chilometri, formando un solco profondo nella piana, ma noi ci limitiamo ad ammirarne un breve tratto. In mezzo ad un bosco di larici, sorge l’Albero dei Cento Rami, un vecchio ed imponente esemplare avvolto da una moltitudine di panni azzurri, pieno d’offerte. Uno scoiattolo fa capolino tra le pietre poste ai suoi piedi.Attraversiamo un’ampia vallata, seguendo una sterrata che è una vera pacchia rispetto a quelle dei giorni scorsi, anche se il nostro autista a volte preferisce le piste laterali. Lungo la strada gruppi di bambini vendono bottiglie di airag e l’autista non si lascia sfuggire l’occasione. Una piccola tenda occidentale offre loro un riparo dal sole dove nascondersi appena cerco di fotografarli. Due maschietti si esibiscono per noi in un “incontro di wrestling”. Questa regione di verdi praterie ha un aspetto più ospitale ma meno pittoresco; la strada è sollevata su una massicciata e parzialmente asfaltata.All’ora di pranzo, superato il villaggio di Ikh Tamir, ci fermiamo presso la roccia di Taikhar Chuluu. Isolata nella campagna, ha dato luogo a varie leggende; oggi nei suoi paraggi sorge un “prosaico” campo turistico. Pranziamo al sacco all’ombra del pulmino.Monastero di TsetseterlegIl monastero nella città di Tsetseterleg era formato da un vasto complesso d’edifici che ospitava 2500 monaci, com’è testimoniato dalle foto scattate da un tedesco all’inizio del novecento. Anche qui però è caduta la mannaia del comunismo ed oggi sopravvivono solo gli edifici intorno ad una corte. E’ una fortuna che siano stati conservati per ospitare un museo. Gli interni di legno sono affascinanti ma la collezione è addirittura sorprendente. Nella prima sala al piano terra è ricostruita un’intera gher, a differenza di quelle attuali arredata con mobili tradizionali: credenze dipinte e letti intarsiati, insieme a vari utensili tra cui un grosso contenitore per l’airag. Un carro trainato da uno yak trasporta una gher smontata, proprio come quelli osservati nella carovana di questa mattina. Una scala di legno conduce al piano superiore (tutto è in legno senza l’utilizzo di chiodi), dove l’esposizione prosegue con splendide teiere intarsiate d’oro, vestiti tradizionali (impressionante l’acconciatura di una donna con due “trecce laterali” che la costringevano a dormire a pancia in su), una sella per cavallo, una maglia di ferro dell’epoca di Gengis Khaan, borsette per la polvere da sparo, un set di coltelli e bacchette “da viaggio”. La saletta in fondo contiene una raccolta di strumenti musicali: corni lunghi più di due metri, strumenti a corda con teste di drago o cigno e una specie d’arpa! Passiamo poi al tempio “privato” del lama perfettamente arredato tanto che l’assenza dei monaci si avverte netta. Un plastico, ricostruito grazie alle foto del tedesco, illustra la struttura originaria del monastero. A fianco degli edifici sopravissuti si trovava il tempio principale del quale oggi rimane solo lo scheletro.Vicino al complesso antico è stato costruito un nuovo tempio ma a quest’ora è chiuso e dobbiamo accontentarci di fare qualche giro alle ruote della preghiera. Scaliamo invece la collina dietro il museo, sormontata da un tempietto in rovina. Dalla cima si gode un bel panorama sulla città, circondata dalle montagne (il suo nome significa “giardino”). Alcuni quartieri si estendono sulle pendici delle colline e almeno da lontano, con la loro struttura regolare di basse casette, forniscono un’impressione piacevole, ben diversa dai fatiscenti palazzi del centro.Mercato di TsetseterlegIl mercato della città è interessante. Il settore all’aperto è formato da container addossati l’uno all’altro che fungono da negozi. In giro si vedono diverse persone con il vestito tradizionale. Un edificio ospita il mercato alimentare, diviso esattamente a metà tra i settori macelleria e latticini. La sfilata di carne esposta sui banconi fa una certa impressione; alcune donne sono impegnate a fare a pezzi un bue. In un paese di carnivori non sorprende trovare un settore così ben fornito con la gente che si accalca per comprare interiora e i più svariati pezzi di carne, portandoli via semplicemente in una busta di plastica. Tra i latticini ritroviamo i prodotti dei nomadi: formaggi di tutti i tipi, biscotti di yogurt ed airag a volontà.Da Tsetseterleg alle terme di TsenkerIn viaggio sul pulmino, mentre scrivo qualche riga, Stefania esclama sorpresa: “Ma ha nevicato?!”. Alzo gli occhi e il paesaggio è tutto imbiancato. Il nubifragio della città in campagna si è trasformato in una grandinata: chicchi grossi come acini d’uva coprono tutta la prateria! L’estate mongola è veramente piena di sorprese.Proseguiamo in una regione verdissima, con la strada resa fangosa dalla pioggia. Sembra di essere in una valle dell’Eden, con l’acceso contrasto tra il verde lucente dei prati e quello scuro delle foreste sulle colline. I cavalli galoppano liberi; qua e là si scorgono aironi cinerini e strane papere con una macchia gialla sul petto. E’ l’ora della mungitura; pecore e capre sono ammassate nei recinti, pronte per l’operazione.In fondo alla valle si trovano alcune sorgenti d’acqua calda, sfruttate da due campeggi turistici. Ci sistemiamo nello “Juulchin Tsenker Tourist Camp”. A parte le cameriere in minigonna vertiginosa e tacchi a spillo e la televisione con musica a tutto volume nella gher ristorante, tutto il resto sembra costruito sapientemente: bagni caldi con piscina separati per uomini e donne e una posizione idilliaca fra una collina boscosa e una con verdi prati percorsi da greggi e mongoli a cavallo. Sembrerebbe quasi di assistere ad un cartone animato ambientato in una valle tirolese, se non fosse per le gher del campo turistico al posto delle baite e i mongoli con deel a cavallo invece dei tirolesi in pantaloni corti e pon pon sui calzettoni. Una buffa casa di legno, con i tetti spioventi e le pareti oblique, richiama ulteriormente la nostra Europa alpina.7 luglio: terme di TsenkerDopo la burrasca di ieri, la mattinata è soleggiata e luminosa. Ne approfittiamo per una passeggiata nella valle. Raggiungiamo un primo gruppo di gher dove ci accolgono un paio di bambini che salutiamo con il solito “Sainbainuu”. Quattro cavallini sono legati ad una corda, mentre qualche adulto è bloccato da solo ad un palo (sarà una punizione o una dieta?!). Davanti ad una gher è parcheggiata una motocicletta mentre sul tetto è steso il formaggio a stagionare. I contrasti tra modernità e mondo pastorale proseguono con una gher dotata di parabola e pannello solare mentre davanti in un recinto i cavalli agitano le code per allontanare le mosche. E’ difficile credere che questo paradiso terrestre possa trasformarsi in un mondo inospitale con temperature polari; i ricoveri di legno per l’inverno, vuoti in questa stagione, sembrano volercelo ricordare. Davanti ad essi un gruppo di ossa segnala qualche passato banchetto. Ci sediamo all’ombra del bosco sulle pendici di una collina, trovando un po’ di refrigerio nella calda giornata. La pace è quasi totale, disturbata solo dalle mosche che ronzano intorno fastidiosamente.Nel pomeriggio saliamo sulla collina che domina il campeggio; dall’alto la vista sulla valle è completa con il ruscello serpeggiante nel mezzo, ma le mosche non concedono tregua, impedendo qualsiasi sosta contemplativa. Raggiungiamo in basso le sorgenti d’acqua calda, ormai imbrigliate da vasche di cemento e condotti ad uso dei campeggi. Siamo in un’area apprezzata proprio per le sue acque termali ed è ormai giunta l’ora di approfittarne. In un edificio i bagnanti hanno a disposizione delle basse e scomode docce (molto in voga in Giappone) e una vasca con l’acqua tiepida. All’esterno invece c’è una piccola piscina piena d’acqua calda solforosa ed è un piacere sguazzarci dentro. Unico disturbo le solite fastidiose mosche, molte delle quali galleggiano morte sul pelo dell’acqua. Per completare il momento di relax mi stendo su una sdraio di legno, questa volta insieme a Stefania dato che per il resto non è possibile nessuna commistione tra i sessi. Consigliati da Erden ci cospargiamo la pelle di airag e momentaneamente le mosche ci lasciano in pace.Considerazioni sui campi turistici di gherSono strutture accoglienti e piacevoli, caratterizzate da gher confortevoli. Unico neo nei campi più grandi, l’effetto turismo (per esempio nell’abbigliamento delle cameriere) e la cucina spesso frutto di una tragica combinazione mongolo occidentale in base alla quale si mangia sempre carne preparata per i gusti “moderni”.8 luglio: terme di Tsenker – KharakorumStoria di passate distruzioniLasciate le terme, attraversiamo i paesi di Tsenker e Khotont. Una coppia in moto trova lo spazio per trasportare anche una pecora con le zampe legate. A mezzogiorno siamo a Kharakorum che ci appare una città di baracche con una grossa fabbrica giapponese.Kharakorum era la capitale dell’impero mongolo ma oggi nulla resta a ricordare quei tempi poiché la città fu rasa al suolo dai cinesi; sulle sue rovine fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il più importante della Mongolia, formato da ben 65 templi ma arrivarono i manchu e portarono nuove distruzioni. Nell’ottocento parte del complesso fu restaurata ma passò un altro secolo e toccò alle purghe staliniste. Oggi lo spazio all’interno delle vaste mura, movimentate da 108 stupa, è quasi vuoto: solo un recinto con tre templi si è salvato perché destinato a diventare un “museo dell’epoca feudale”. Della gigantesca gher che ospitava le assemblee rimane solo la traccia sul terreno mentre il tempio principale fu distrutto dai comunisti negli anni quaranta ed è in programma la sua ricostruzione. Una gher è destinata alla raccolta dei fondi: al suo interno, mentre quattro monaci salmodiano, si vendono souvenir ed accettano offerte. Insieme agli oggetti antichi mi colpisce un telefono rosa accanto ad un cellulare.Il monastero Lavin Sum è stato già ricostruito in stile tibetano, squadrato senza i tetti spioventi dell’architettura cinese. Al nostro arrivo l’ora della preghiera è passata e i novizi seduti sui banchi sorseggiano tè mongolo; davanti a loro conchiglie bianche e fogli abbandonati con preghiere in tibetano. Dal soffitto a cassettoni pendono stendardi colorati mentre, in fondo, tra le molte statue campeggia un Budda vestito con un mantello tutto dorato che reca tra le mani una fotografia in bianco e nero di qualche lama famoso (forse il re lama d’inizio novecento?). I libri delle preghiere, avvolti in panni gialli, sono posti su una ruota girevole che i fedeli provvedono a muovere. Seguendo il precetto buddista percorro il giro in senso orario. Le pareti sono ricoperte dalle tipiche pitture mongole su stoffa, i thangha, nelle quali lama dallo sguardo mistico dominano piccole figure mostruose poste ai loro piedi. In un angolo una statua rappresenta Mahakala, mostruosa divinità con la pelle blu, quattro braccia, una corona di teschi e una cintura di volti umani. Sotto i piedi schiaccia una figura umana.Nell’area recintata si trovano gli edifici sopravvissuti alle passate distruzioni, tre templi affiancati con tetti dall’impronta cinese coperti da tegole verdi smaltate. Al loro interno la selva di statue confonde le idee ma l’effetto è molto bello. Sono rappresentati il Budda Storico, il Budda Presente e il Budda Futuro, insieme ad altre divinità dall’aspetto mostruoso e lama, accompagnati da oggetti dal significato mistico come gli otto simboli del buon auspicio (parasole, coppia di pesci, ruota del Dharma ad otto raggi, ecc.). Draghi avvolgono le loro spire attorno alle colonne. In particolare mi colpiscono le offerte di dolci decorati fatti di burro, grasso e polvere.Nel negozio del monastero non mancano gli oggetti interessanti e finiscono per acquistare un Mahakala dipinto su stoffa, dall’aspetto antico.In giro per Kharak
Salve a tutti scrivo per dare un contributo sincero della bellezza della Mongolia, a quasi cinque anni dal nostro viaggio. Mi chiamo Leonardo e sono stato in Mongolia nel settembre del 2005. Quando partimmo io e la mia compagna non sapevamo assolutamente a cosa andassimo incontro. Arrivati all’aeroporto di Ulanbaatar fummo accolti dalla guida e dall’autista. Saremmo stati insieme per tutto il viaggio. Appena lasciato l’aeroporto ci accorgemmo subito che il paesaggio intorno a noi era diverso. Sembrava di essere in un altro pianeta. Esistevano pianure e all’improvviso montagna. Nessun albero, mai!!! Tanta erbetta fina tipo pratino all’inglese. Arrivati ad Ulanbaatar ci scontrammo con il caos del traffico della capitale. Le auto hanno sia la guida a destra che a sinistra. Lasciammo la capitale il giorno seguente. Le tappe di spostamento erano mediamente di 450 km. Quando attraversavamo la steppa si vedeva un paesaggio pianeggiante verde con una linea dell’orizzonte lontanissima. Ci fermavamo a metà percorso ogni giorno per mangiare. Scendendo dall’auto sentivamo un piccolo sollievo dato dal sole, ma appena passava una minima folata di vento la temperatura scendeva bruscamente. Se sfortunatamente si ci posizionava sottovento il “profumo” del montone che bolliva in pentola era estenuante… La cosa più bella, tra le tante, che ho visto sono state le dune del deserto del Gobi raggiunte cavalcando un cammello insieme con il suo proprietario. L’altra cosa che mi ha affascinato è stato vedere il canyon dove sono stati trovati i resti dei dinosauri. Sembra di tornare indietro nel tempo. Anche i colori del paesaggio sono particolari. Si sente l’acqua che scorre e sembra di entrare all’interno della storia, la storia meno conosciuta dall’uomo. Quando nel museo della capitale ci si trova di fronte allo scheletro del dinosauro è come trovarsi davanti alla Gioconda di Leonardo al Louvre di Parigi. Lascia un senso di vuoto, un senso di non appartenenza ad un certo tipo di realtà. Esteticamente la capitale risente notevolmente dell’influenza passata del regime dell’ex URSS. Entrando però nei locali come i pub ci si accorge che la tendenza è effettivamente cambiata con arredamenti e modi di essere tipicamente nostrani. Sono recentemente nati centri commerciali e negozi alla maniera occidentale. Le persone, i Mongoli, sono cordialissimi. Quando due mongoli si trovano spersi nella steppa sicuramente si fermano e si offrono reciprocamente aiuto. Essere in difficoltà negli spostamenti è facile in Mongolia. Non esistono strade asfaltate, ma solo sentieri sterrati. Cartelli che indicano la direzione non ci sono e neanche distributori per fare rifornimento. Da un paese all’altro (ci sono centinaia di chilometri di distanza) il telefonino non prende. Alla luce di tutto questo è naturale per un Mongolo fermarsi e sentire se qualche altro Mongolo, che incontra durante uno spostamento, ha bisogno di aiuto. Da noi è molto difficile!!!Il paese merita di essere visto. E’ un’esperienza culturale estrema, ma importante. Per quanto mi riguarda ho realizzato un sogno coltivato fin da piccolo.Leonardo Carnesecchi
04.08.09 MALPENSAPartenza da casa alle 5:30 dopo una notte insonne, è troppa la tensione. La sera precedente è stata spesa da Massimo dove abbiamo cenato in compagnia di amici e brindato al successo del viaggio. A casa, poi, gli ultimi febbrili preparativi.Nel bagaglio mancano cose fondamentali: medicine, prodotti per l’igiene personale, soldi e documenti, debbo concentrarmi nonostante la stanchezza, mi riposerò domani sul lungo volo di 10 ore che ci porterà in Mongolia. Paura!!! Accendo casualmente il cellulare e arriva perentoria una chiamata di Meuccio: “Gnèssa un kànker ! La partès mia ! Ciàma un taxi !” si sente solo questo monologo in cui è impossibile inserirsi, sembra una frase registrata che non accetta repliche. Si sente in sottofondo il motorino d’avviamento che esala gli ultimi respiri e un salmodiare blasfemo...non rimane tempo da perdere, i minuti sono contati, non posso perdere il treno, cerco l’elenco del telefono nel blob che mi circonda e incredibilmente lo trovo. Ora addirittura un overbooking, troppa grazia, arriva un taxi bello capiente, una Fiat Multipla e contemporaneamente la telefonata di Meuccio che giura di avere riesumato la Bentley...non posso crederci ! Carico bici e zaino lasciando incredulo l’autista sulla mia destinazione: Mongolia!!!!! Laconico il suo commento: “I màat in mia tòt dèinter !!!”(...) Angelo, che è salito a Modena, mi aiuta a caricare la bici, cerco di dormire nel tragitto in treno ma lo stress accumulato è troppo e non mi permette di chiudere occhio. Niente carrelli a Milano Centrale per caricare bici e bagagli, roba da terzo mondo, ci arrangiamo usando le braccia lasciate libere dagli zaini.L’ultimo tratto che ci separa dall’autobus navetta per Malpensa lo facciamo con le bici caricate su di un carrello di fortuna fornito da un indiano che si guadagna la giornata con qualche spicciolo.All’aeroporto incontriamo Enrica, insegnante d’informatica di Pinerolo, cittadina a due passi da Torino. E’ vedova da quindici anni, madre di due ragazzi di 27 e 30 anni e, nonostante abbia superato da un po' la cinquantina, ha uno spirito davvero invidiabile, un mix di entusiasmo e dolcezza davvero raro. (...) Arriviamo a Mosca verso le ore 18 locali, il clima è gradevole, nubi, sole, tanto verde tutto attorno all’aeroporto. Dall’alto avevamo intuito la grandezza della capitale circondata da tante piccole cittadelle che costituiscono il cosiddetto Anello d’Oro. Due passi all’interno dell’aerostazione poi alle 20:30 imbarco per Ulaan Baator, 4600 km più a est, cinque ore di volo con arrivo previsto l’indomani alle sette del mattino. Il Boeing 747 con i suoi 48 metri di apertura alare sta volando sicuro verso la sua destinazione……domani, con un po’ di fortuna, toccheremo il suolo mongolo.05.08.09 ULAAN BAATORSono le 5:30 e l’alba ha tinto di un rosso e arancio drammatici il cielo mongolo coperto da grandi nubi nere…speriamo bene! Tra mezz’ora dovremmo atterrare a Ulaan Baator, poi vi racconterò. Alle 6:15 landing perfetto e alle 7 siamo già fuori dall’aeroporto Genghis Khan.(...) Verso le 12 svegliamo Angelo e facciamo due passi in centro, dobbiamo recarci a cambiare valuta e poi al ristorante dove abbiamo il primo approccio con la cucina mongola. Non male, carne e verdure saporite, solo il bere è tragico, latte con tè e sale, provare per credere! (...) Cosa dire di Ulaan Baator ? Intanto il significato di questo strano nome e cioè Rosso Eroe, in onore del soldato sovietico liberatore della patria mongola. Ha poco meno degli abitanti dell’intera Mongolia e subisce ogni anno un incremento demografico. Quando negli anni 1990-91 avvenne lo smantellamento dell’impero sovietico la Mongolia, la cui economia era fortemente legata ad esso, ebbe un grande crollo e la lusinga di trovare lavoro nella capitale indusse molta gente a urbanizzarsi Tutt’ora il fenomeno persiste con un tasso di disoccupazione del 20% e uno dei tassi alcolici pro capite più alti al mondo. Il governo è purtroppo incapace di scoraggiare questa tendenza.Raccogliamo ciò che rimane delle nostre energie e azzardiamo una visita al Museo di Storia Mongola, dobbiamo arrivare a sera resistendo alla tentazione del sonno per adattare il nostro fisico al cambiamento d’orario, qui siamo sei ore più avanti che in Italia. Gli oggetti esposti al museo sono molto interessanti ma l’attenzione richiede uno sforzo enorme, siamo alle corde e così decidiamo di rincasare dopo avere fatto spesa al supermercato. (...)06.08.09 ON THE ROAD km 338 sul vanNon metto la sveglia, sono già le sette, dobbiamo sbrigarci !!! Ci affanniamo ma, tra colazione e preparativi, abbiamo quasi un’ora di ritardo. Portare in strada bici e zaini dal nono piano è una bella impresa, l’ascensore fa quello che può…. e noi pure ! Usciamo da Ulaan Baatar in direzione ovest, rimango sorpreso dalle dimensioni della città che ospita circa un milione di abitanti dei due e mezzo dell’intero paese, dice l’autista che per attraversarla si devono fare cinquanta km, incredibile. (...)Riprendiamo il largo per il lontano ovest sfruttando i pochi km di asfalto mongolo…..per il resto del viaggio ci attendono solo piste, è inutile consumare i copertoni delle nostre MTB in questo tratto.Incontriamo una famiglia mongola in bicicletta, padre, madre e un ragazzino che sono partiti solo il giorno prima dalla capitale con l’intento di raggiungere l’Europa attraverso tutti i paesi dell’Asia Centrale. Tre, forse cinque anni, bellissima prospettiva, ci percorre un brivido di timore o forse d’invidia pensando a quante genti conosceranno ! Sono di professione artisti, lui calligrafo e lei pittrice, fortunato loro figlio ad avere due genitori così fuori dalle righe, chissà quanti ricordi bellissimi custodirà per sempre. Ci regalano una maglietta con i colori della nazionale mongola di calcio, Enrica li ricambia con un paio di pantaloncini che sfila dal suo zaino. (...)Di nuovo sul furgone, dopo alcuni km compaiono dune sabbiose che ci fanno pensare a come deve essere il paesaggio del Gobi molto più a sud. Bello scorcio ma troppo poco genuino, non siamo abituati a condividere situazioni del genere con i turisti di turno che salgono sui cammelli, forse i nostri accompagnatori non ci capiranno ma….impareranno a conoscerci !Vogliamo accamparci soli, nello spazio infinito, è una dimensione che ci affascina perché così rara da noi in Italia, rifuggiamo ogni contatto con il consueto almeno a queste longitudini.Così, una dozzina di km prima di Kharkorin, decidiamo di montare il campo. Ci sono una bella tenda da adibire a mensa e ricovero delle bici e due tendine a igloo nelle quali dormire.Angelo si dimostra un ottimo meccanico e rimette in sesto la bici di Enrica, pezza sulla camera d’aria posteriore e cambio da registrare, tutto eseguito a regola d’arte, complimenti !Poi tutti a tavola, la cuoca ci ha fatto dei bocconcini di carne con verdure davvero buoni e delle penne multicolori, pasta di origine russa. Tristi, insipide e un po’ scotte, sarà la qualità scarsa del grano o la disabitudine a cuocerle, il convento non passa altro.Dopo cena la luna piena ci regala un paesaggio incantevole, domani sarà una bellissima giornata.La cuoca e il suo piccolo indossano i loro del, caldi abiti tradizionali mongoli, fatti a mano e davvero molto belli e si congedano dal gruppo.Buona notte, domani finalmente si pedala!!!!!07.08.09 KHARKHORIN km 52 in biciSveglia alle 6:30, abbiamo dormito male, la pioggia sui teli della tenda fa rumore e soprattutto non siamo abituati a giacere sulla nuda terra, dura la vita da nomadi ! (...)Finalmente si muovono le bici, mi sembra strano essere di nuovo in viaggio sulle mie gambe, non uso la MTB dall’estate del 2006, i miei copertoni hanno ancora i segni delle strade himalayane.I muscoli rispondono a meraviglia, gli allenamenti fatti a casa con la bici da corsa e il tanto correre a piedi sotto il sole infuocato mi hanno temprato a sopportare qualsiasi fatica !Bellissimo il paesaggio, ovunque mandrie di cavalli, yak, pecore, capre e montoni disseminate su di un tappeto verde uniforme che a volte sembra il panno di un biliardo. Gli alberi sono assenti, il rilievo è dolce e si ripete all’infinito alternandosi a valli amplissime solcate da fiumi, si ha davvero l’impressione che questa terra non abbia confini. Ci credo che questo cielo abbia protetto i cavalieri più abili e coraggiosi che il mondo abbia mai conosciuto !!!La bici è efficientissima, l’unico inconveniente è la borsa sul manubrio, l’attacco lascia proprio a desiderare, Angelo giustamente mi riprende, avrei dovuto consultarlo, il suo fissaggio è da manuale.Pazienza, sistemo provvisoriamente la borsa sul portapacchi posteriore e riprendo a pedalare.Dopo 12 km raggiungiamo Kharkhorin o Karakorum, l’antica capitale. Necessitando di un centro di potere più ampio e stabile per controllare il vasto impero, il figlio di Genghis Khan, Ogedei Khan, ne ordinò la costruzione. La città fu dotata di templi consacrati a tutte le principali religioni e attrasse operai specializzati provenienti da tutta l’Asia e persino dall’Europa. Quest’epoca d’oro durò solo 40 anni dopodiché Kublai Khan scelse come capitale l’attuale Pechino. Dopo il crollo dell’impero mongolo Karakorum fu abbandonata e poi distrutta dai soldati mancesi. Sulle ceneri dell’antica capitale sorse nel 1586 il primo monastero buddhista della Mongolia, l’Erdene Zuu che inglobò al suo interno i pochi resti di Kharkhorin. Decidiamo così di visitare questo antico monastero che un tempo comprendeva un centinaio di templi, ospitava 300 gher all’interno delle mura e accoglieva un migliaio di monaci. L’Erdene Zuu arrivò indenne fino al 1937, anno in cui, causa le purghe staliniane, furono risparmiati solo tre dei templi e un numero imprecisato di monaci scomparve. Rimangono le antiche mura e i 108 stupa che le dominano. (...)Assistiamo a una breve recita dei monaci e poi torniamo al van perché comincia a piovere sempre più insistentemente. Copriamo le bici e ci rifugiamo nel furgone a mangiare qualcosa. Verso le 14 possiamo ricominciare a pedalare sperando nella clemenza del tempo. Il paesaggio è fantastico, seguiamo costantemente un fiume sulle cui sponde ci sono un’infinità di gher e di famiglie nomadi con i loro animali. Siamo nella valle dell’ Orkhon. Dopo quattro ore di pedale ci accampiamo e ceniamo con appetito, la cuoca ci ha preparato il piatto mongolo per eccellenza, verdure bollite e crude, carne di bue essiccata e spezzettata, pasta fatta a mano, più completo e nutriente di così non si può. (...) Buona notte sotto il crepitio della pioggia, preoccupante ma anche molto poetico.08.08.09 VALLE DELL’ ORKHON km 0…..ahimè !!!Piove, governo ladro !E’ vero che di tanto in tanto una giornata di riposo serve…..speriamo però che non continui, altrimenti che palle !(...) Così passiamo la mattinata in chiacchiere o nello scrivere le cartoline già comprate nella capitale.Io ho un bel daffare con i miei 50 indirizzi e relativi francobolli, ho esagerato ?!? Va beh, non importa, anzi me ne occorrerebbero altre 13 che comprerò strada facendo.Il pomeriggio lo passo seduto nel van dormicchiando accanto al piccolo Sumyaa, il piccolo mongolo che ci divertiamo a coccolare a turno. (...) Speriamo solo non si ripeta la pioggia, ma vedo che di ora in ora le nostre speranze vengono disattese da un maltempo incessante, non ci rimane che coricarci, leggere o compilare l’amato diarioOra però sono le 22 e mi sto assopendo, spengo la mia luce frontale e mi abbandono alle braccia di Morfeo e al tintinnio della pioggia.09.08.09 VALLE DELL’ ORKHON km 75 in biciNon ci posso credere, c’è il sole, sembra un miracolo, il cielo è come nelle cartoline !!! Anche il morale s’innalza come la luce sull’orizzonte, non vediamo l’ora di pedalare.Ma prima la colazione, c’è un ospite inatteso, un ragazzo a cavallo che si ferma per un tè e una fetta di pane con la marmellata. Ha 14 anni e cavalca da quando ne aveva 7, è orgoglioso del proprio cavallo, ha già la fierezza di un adulto. Approfitto di questa facile preda fotografica per cogliere i particolari della sella in legno e delle staffe, le stesse che hanno permesso ai cavalieri mongoli di cavalcare e nello stesso tempo scoccare le loro precisissime frecce.Via, si parte ! Ieri temevamo una sosta forzata anche più lunga, ora ci attende un altopiano assolato macchiato dalle ombre delle nubi sfilacciate che danno risalto a ogni fotografia.Poi mandrie di cavalli, yak, capre e pecore completano un paesaggio che l’occhio fa fatica ad abbracciare tutto, talmente è immenso, paragonabile solo alla vastità del mare, un mare d’erba.Seguiamo il fiume Orkhon che disegna le sue anse su questo altopiano creando la vita tutt’attorno.Le gher si contano a centinaia, i mandriani del nuovo millennio tengono a bada gli animali con motociclette di fabbricazione russa o cinese, il romanticismo di un tempo cede il passo alla tecnologia, il progresso lusinga e illude anche le genti di queste remote valli. (...) Ci fermiamo per un pranzo frugale presso una delle tante tombe circolari dell’ Età del Bronzo di cui non rimane che la base di sassi. Una mezz’oretta…..poi in bici di nuovo, non possiamo sprecare questa bella giornata !Continuiamo a seguire il fiume per tutto il pomeriggio e alle 17 giungiamo alla tanto decantata cascata, secca per dieci mesi all’anno e solo ora ricca d’acqua. Ha un salto di 22 metri, i nostri accompagnatori ce la mostrano con orgoglio, a noi fa tenerezza….. pensando a quelle alpine.Ci chiedono “Ne avete in Italia ?” e noi non infieriamo “ Sì, qualcuna l’abbiamo vista” e parliamo d’altro. (...)Alle 18:45 c’è già la cena pronta, incredibile, nemmeno mia zia 85enne va a mangiare così presto, ma bando ai commenti, la cuoca chiama e noi corriamo. L’appetito c’è sempre ma non siamo in Italia, qui usa il monopiatto con tutto ciò che necessita all’organismo, macchè due o tre portate, non siamo mica al Grand Hotel ! I cappelletti e il lambrusco li sognerò, così sorriderò soddisfatto nel sonno.Ora non rimane che compilare il diario e coricarci perché domani è di nuovo una giornata intensa e senz’altro ricca di belle cose come quella appena trascorsa e noi dobbiamo avere energie fresche.Sono le 22:15,sento il fragore del fiume, che bello addormentarsi con i rumori suadenti della natura!Dimenticavo... buonanotte !10.08.09 VERSO TSETSERLEG km 42 in biciIl cielo sembra di nuovo clemente, non c’è una nube e l’azzurro è veramente da tela impressionista.In compenso spira un vento gelido che m’induce a pensare a quanto sia dura la vita del nostro pastore errante per le steppe dell’Asia Centrale!Dopo colazione carichiamo le bici sul furgone, facciamo pochi metri e già una sorpresa ci attende.Una famiglia ci accoglie nella propria gher con una cortesia davvero squisita.La gher forgia il carattere dei mongoli, le sue dimensioni limitate costringono le famiglie a condividere tutto, è un buon modo per annullare inibizioni e intimità.Una gher può essere eretta in circa un’ora e viene facilmente smontata e trasportata. La forma circolare e il tetto basso sono adatti a creare una difesa dal vento, la porta è sempre rivolta verso sud come protezione dai venti che soffiano soprattutto da nord.. Il feltro utilizzato per la gher in genere è prodotto dai pastori stessi, spesso alla fine dell’estate, con la lana delle loro greggi. Ci vengono offerte tante cose, sappiamo bene che non è gentile rifiutare, almeno un assaggio va fatto. La prima bevanda è terrificante, mi sfugge lo sguardo d’intesa tra Enrica e Angelo, così mi ritrovo a sorseggiare questa brodaglia primordiale lasciata praticamente inviolata dalle loro bocche !Bella tattica, tocca a me ingoiare qualche sorso di quell’airag che, a ragione, tanto spaventa il turista.Avrei quasi preferito una bella purga con olio di fegato di merluzzo come mi era capitato in Norvegia. La seconda bevanda mi rassicura, è vodka, mi torna il sorriso sulle labbra. Mi passano ora dei biscottini o meglio mattoncini a base di formaggio. Sono fatti con burro e farina, hanno il peso specifico di una stella di neutroni ! Ho scattato un reportage sull’interno e gli arredi della gher immortalando suppellettili, fotografie di famiglia, un altare con le offerte. Ora mi dedico a ritrarre papà, mamma, figlia e un bellissimo bimbo di pochi mesi raccolto dalla culla per mostrarcelo.Ci accomiatiamo regalando un pacco di zucchero a queste meravigliose persone, sperando di incontrare altre belle famiglie nei giorni a venire…..siamo fiduciosi, visto la proverbiale ospitalità mongola. Ripartiamo facendo per 25 km la strada a ritroso, preferiamo non usare le biciclette.La strada verso nord che abbiamo deciso di seguire ci costringe a questa breve inversione di rotta,non siamo riusciti a convincere i nostri accompagnatori a percorrerne altre vie forse più logiche ma a loro sconosciute. Facciamo sosta in un villaggio per rifornire il van di benzina e la nostra cucina di provviste, la cuoca decide cosa occorre e noi paghiamo, questi sono gli accordi. C’è davvero solo l’essenziale in queste povere botteghe, il lusso non serve da queste parti.Incrocio un ubriaco che parla un idioma incomprensibile e mi rincorre con una bottiglia di vodka, non posso bere, devo pedalare, prova a farglielo capire... o forse è lui che chiede un rincalzo... boh !?Tutti di nuovo sul furgone, ne approfittiamo per guadagnare slealmente il dislivello di circa 300 metri e portarci a quota 2040 in un paesaggio alpino davvero bello, prati a perdita d’occhio macchiati qua e là da boschi di abeti e larici. C’è una fioritura incredibile, tantissime stelle alpine, anch’io ne raccolgo alcune per ricordo, non so resistere alla tentazione. (...)Le strade non hanno indicazioni, ci sono tantissime piste che a volte corrono parallele, altre volte s’intersecano disegnando grafici infiniti sulla prateria. Qual è la direzione giusta ? Boh, vedrai che prima o poi il furgone ce la indicherà ! Se fossimo in autosufficienza sarebbe un bel problema, ci vorrebbe un satellitare, non abbiamo neanche mappe dettagliate del territorio, non se ne trovano, forse non occorrono agli indigeni, solo a qualche stupido occidentale ! Facciamo quattro salite impegnative tra i 1750 e i 2040 metri, nell’ultima il terreno sconnesso mi costringe a usare i rapporti più agili della mia KTM.Riesco a scollinare, ho lasciato alle spalle Angelo ed Enrica che arrivano una quindicina di minuti più tardi spingendo le biciclette. L’allenamento che ho fatto a casa è stato scrupoloso, le gambe per ora rispondono a meraviglia, speriamo continuino ! Ora una bella discesa fino a un guado dove una mandria di cavalli si sta abbeverando. Attraverso la poca acqua mentre Angelo mi fotografa tra quegli animali così fieri e vigorosi. Poco dopo decidiamo con i nostri accompagnatori di trovare uno spiazzo per le tende, sono quasi le 18 e pedaliamo da quattr’ore su percorsi impegnativi.Da lì a poco appoggiamo le bici e aiutiamo l’autista a montare la tenda cucina e i nostri igloo. (...). Dal nulla si materializza un gruppo di cavalieri dall’infinito mare verde, qui è così, senti tremare la terra e sei colto di sprovvista, ti sono gìà addosso, fortuna non sono armati come un tempo !Si fermano per il piacere di recarci visita e fare due chiacchiere, sono padre e tre figli, due ragazzini e un bimbo di sei anni che già cavalca come un adulto.Faccio tante foto approfittando della luce radente della sera e rivolgo loro domande approfittando della nostra interprete. Bello capire come vive questa gente, ci facciamo anche due risate perché quell’uomo 53enne si stupisce del fatto che io e Angelo non siamo sposati e non abbiamo procreato!Ci ha pensato lui a ristabilire la media mondiale con i suoi cinque figli, le ragazze sono rimaste nella gher poco distante da lì. Quest’uomo saggio ci dice che è fondamentale avere una donna e dei bimbi, non ritiene ci siano cose più importanti nella vita. (...) Stiamo per coricarci quando Angelo ci avverte che stanotte è San Lorenzo, il dieci agosto, occorre resistere alla stanchezza per vedere qualche stella cadente….chissà ! Così ora ho quasi finito il diario, sono quasi le 23 e sto uscendo dalla tenda per scrutare il cielo d’agosto. Ci vuole una pazienza infinita a piazzare la macchina fotografica sul cavalletto e mirare alla luna che non è proprio piena piena, è ammaccata da una parte. Niente stelle cadenti, niente desideri, li tengo in serbo per le prossime notti.Tutt’attorno la mia luce frontale illumina le pupille di tantissimi yak che continuano a pascolare indisturbati e interrompono il sonno di Enrica con il loro mugugno e il continuo ruminare.Così impara Enrica a piazzare la tenda lontano dalla nostra per sottrarsi al nostro sporadico e presunto russare….sta pagando caro il suo errore, noi siamo creature delicate rispetto a quei mastodontici erbivori !!!Più in là nella notte hanno cominciato ad abbaiare i cani, ma alla fine tutto è sfumato in un bel sonno ristoratore.11.08.09 VERSO TSETSERLEG km 43 in biciSèhan àma snòò! Buongiorno!C’è già un bel formaggio fresco ad attenderci, la promessa è stata mantenuta, mai dubitare dell’onestà mongola ! Colazione e poi partenza con le bici sul van, un guado insuperabile subito si presenta e non abbiamo voglia di lottare con la corrente magari fino alle anche….o più su !!!Alle 09:50 s’inizia a pedalare, il percorso è molto nervoso, troppi su e giù ma, abbiamo voluto le bici e allora….. muti e tenaci! Enrica è inesorabile e determinata a non cedere ma ha tempi da maglia nera e Angelo deve non forzare il ginocchio che il prossimo mese farà operare.Certo non è una gara, ma io ho conservato il mio solito ritmo e così mi trovo a scollinare per primo senza sforzo o quasi, ormai le gambe sono inarrestabili e spero rimangano tali.A pranzo ci fermiamo in cima a una salita, vicino a un bosco d’abeti, non è il solito paesaggio, sembra di essere in alto Appennino. Facciamo tre giri in senso orario attorno all’ennesimo ovoo (ouò) per esprimere la nostra gratitudine nei confronti degli spiriti degli antenati che proteggono il territorio circostante e naturalmente anche per propiziarci la buona sorte. Questo rituale risale a un’epoca antecedente sia al buddhismo che allo sciamanismo ma francamente è spoetizzante vedere alcuni successori di Genghis Khan non scendere dai loro autoveicoli per compierlo e limitarsi a suonare tre volte il clacson. (...) Questi ovoo non sono altro che cumuli di pietre sui quali, per devozione, si possono gettare altri sassi, lasciare offerte in denaro o piccoli e grandi oggetti personali come ad esempio una stampella in ricordo di una grazia ricevuta. Su quasi tutti abbiamo visto teschi di animali e sciarpe blu, simbolo di quell’infinito cielo, il tengger (tèngr), d’innanzi al quale persino i grandi cavalieri di un tempo si prostravano riconoscendone la superiorità.Dopo pranzo ci attende una lunga discesa che ci conduce a una zona termale, niente di che,è proprio il minimo sindacale, diamo un’occhiata e fuggiamo rapidamente. Siamo troppo ben abituati, forse la paragoniamo a Colà di Lazise, così preferiamo affrontare un altro passo impegnativo piuttosto che perdere tempo alle sorgenti di Tsenkher.(...) Ne approfittiamo per rimpinguare le nostre scarse riserve idriche ricambiando la generosità di questa gente con dentifrici e spazzolini, roba preziosa da queste parti.Il padrone del pozzo è un uomo di 48 anni, padre di uno stuolo di figli, che da vent’anni vive in questo paradiso e custodisce per conto del governo la preziosa fonte. Accanto ad una delle sue gher c’è una parabola così grande da far invidia al più attrezzato teledipendente e un pannello solare che alimenta un accumulatore al quale è collegata la tv.Cosa credete, lo scatulùn è arrivato anche sulla prateria…nessuno può considerarsene immune !!! (...)Intanto si sta facendo sera, sono le 19:30 e le ombre dei colli s’allungano su un’infinita pianura verde.E’ davvero rilassante vedere il sole calare su questo mare d’erba.Mi piace pensare alle famiglie riunite per cena nelle loro gher, cerco di violarne l’intimità con il binocolo, ma sono troppo lontane e così custodiscono i loro segreti.Ora prevale la stanchezza e ci andiamo a coricare nelle tende scrivendo alla luce delle minuscole pile il diario di un bel giorno speso in questo mondo lontano. Buonanotte !12.08.09 TSETSERLEG E VERSO IL TSAGAAN NUUR km 51 in biciSveglia alle 07:15, colazione con tè mongolo, formaggio fresco, biscotti e miele.Alle 09:10 già pedaliamo. Affronto la direttissima verso il colle che ci separa da Tsetserleg, definito il più bel capoluogo di aimag della Mongolia. Siamo nell’aimag di Arkhangai ovvero in una delle 21 province in cui è divisa la Mongolia, ben cinque ne dovremo attraversare. Arrivo in cima e comincio la discesa dopo avere visto i compagni salire sull’altro versante, convinto che anche loro sappiano dove mi trovo ma……. mi sbaglio, ad attendermi trovo solo il van !Dopo una attesa di diversi minuti l’autista decide di rintracciare il resto del gruppo.Nel frattempo rimango solo e mi si fanno incontro un furgone con turisti spagnoli e una jeep con un’italiana e il suo compagno danese che mi dicono di aver visto i miei amici preoccupati.Li ringrazio apprezzando questa solidarietà tra turisti, mi fa sentire protetto. (...)Ora vediamo la cittadina non molto distante, appoggiata su di un colle, la raggiungiamo in poco tempo. Dedichiamo la mattinata all’approvvigionamento del cibo che ci deve bastare per i prossimi giorni e alla visita del vero mercato mongolo, non è roba da turisti, qui è tutto vero ! (...) Sono stanco, scrivo poche righe di diario, alcune cartoline e alle 21:30 mi abbandono al sonno nella mia tendina a igloo. A domani !13.08.09 TSETSERLEG E VERSO IL TSAGAAN NUUR km 51 in biciLa notte precedente ha piovuto il vento ha scosso le nostre tende, al mattino c’è ancora qualche scroscio.Facciamo colazione e decidiamo di caricare le bici sul van per arrivare al tanto decantato Tsagaan Nuur, il poetico Lago Bianco. Il paesaggio non è bello come nei giorni precedenti perché è solcato da una lunga cicatrice, la Millennium Road, una strada asfaltata di 2700 km ancora in costruzione che permetterà spostamenti più rapidi da est a ovest ma rovinerà per sempre il sacro suolo mongolo.Facciamo un centinaio di km verso nord, un pranzo veloce e di nuovo in sella visto che il tempo sembra rimettersi al bello e invitarci a pedalare. Dopo pochi km i luoghi riacquistano il fascino momentaneamente perso. Si apre davanti a noi un profondo canyon scavato da un limpido fiume sulle sponde del quale pascolano mandrie di yak. Mi dispiace non avere tempo di percorrerlo a piedi, sicuramente sarebbe un’escursione rilassante e indimenticabile, non si può fare tutto in questa vita ! Così, dopo le foto di rito, siamo di nuovo in sella, ci aspetta una salita quasi impercettibile ma inesorabile che ci porta a 2150 metri. Le gambe non sentono la fatica e mi conducono ove desidero senza reclamare, così precedo i miei compagni e li aspetto. (...) Raggiungiamo un villaggio dove il van può fare rifornimento di benzina poi lasciamo che le nostre guide ci precedano per preparare il campo e la tanto attesa cena. C’è un bel risotto con carne e verdure ad attenderci e io mi bevo pure una birra mongola per non pensare al vino, non lo si può pretendere, ma il pensiero ci conduce inevitabilmente a evocarlo !!! Le previsioni che la nostra guida riceve sul cellulare non sono confortanti, dovremmo attenderci mal tempo per due o tre giorni, speriamo davvero che siano sbagliate.Ora a letto, non ho nemmeno voglia di scrivere, il freddo e la stanchezza prevalgono, provo a dormire, sono solo le 21:30.Domani l’alba ci troverà accampati in un luogo meraviglioso a più di 2000 metri d’altezza, sulle rive di un lago magico.Buonanotte !14.08.09 TSAGAAN NUUR sosta !Sono le 7:30 e già sto uscendo dalla tenda, sono il primo a sedermi a tavola per la colazione. (...) Con Angelo ed Enrica decidiamo di fare una camminata lungo la costa del lago approfittando del poco sole che ancora la scalda. Dopo un paio d’ore siamo di ritorno quando lo stomaco ci suggerisce di preparare una pasta all’italiana. (...)Ora tutti a smontare le tende, sta cominciando a piovere (...). Sulla mia giacca si fermano alcuni fiocchi di neve, non ci posso credere, siamo oltre i duemila metri anche se solo a metà agosto.Ci rifugiamo tutti sul van e ci muoviamo verso la gher ove abbiamo deciso di passare la notte al margine settentrionale del lago, una quindicina di km da qui.La famiglia che l’affitta è molto ospitale, subito ci accoglie con tè mongolo, formaggio fresco ed essiccato e un dolce preparato espressamente con burro, farina, latte e zucchero amalgamati con sapienza sul fuoco posto al centro della tenda. Piacevole e molto nutriente questo dessert, faccio il bis, non si sa mai….Ora ci conducono alla gher per gli ospiti, molto più elegante della precedente, ci sono quattro letti e ognuno di noi sceglie il suo, dopo tante notti di tenda è una prospettiva allettante…cosa ne dite ?Il campo è formato da quattro gher, tutt’attorno ci sono cime spolverate dalla prima neve e prati infiniti.Un ragazzino ci mostra come sia già abile ad arrangiarsi nonostante la giovane età. Spacca legna per alimentare la nostra stufa, rimesta l’airag e s’improvvisa meccanico su di una vecchia moto. Non c’è tempo per trastullarsi, ognuno deve dare il suo contributo, l’inverno è alle porte. (...) Brindiamo alla prima notte in gher e alla salute nostra e di tutte le belle persone incontrate fino ad ora su quest’altopiano remoto. Il vino è il minimo sindacale, ha un retrogusto dolce, qui non esistono vigneti e non si può pretendere di trovare un prodotto dignitoso, pazienza, mancano ancora tanti giorni al prosecco di Meuccio ! (...) L’ultimo regalo della giornata è un bellissimo arcobaleno che attraversa tutto il cielo e si getta nel lago, chissà se preannuncia il sole di domani !!!Alle 20 siamo già tutti a letto, ci portano legna per la stufa, coperte supplementari e uno squisito yogurt con marmellata di mirtilli. Manca solo un goccio di vodka e rien ne va plus. (...) E’ buona abitudine dormire con la testa rivolta verso nord, non scordiamocene. A domani, sogni d’oro, il nostro sonno è cullato dal crepitio della legna che ancora arde nella stufa al centro della gher.15.08.09 VERSO NORD km 57 in bici + km 105 in vanSono le 7:30, prendo la macchina fotografica e vado in direzione del lago per immortalare l’effetto della bruma che grava sulla superficie dell’acqua riscaldata dal primo sole.Un fiume che scorre lento sbarra il mio passo, così colmo la distanza con il teleobiettivo e colgo la magia del momento.(...)E’ una bella giornata anche se i nomadi dicono che ci sono troppe nuvole in cielo e probabilmente verso sera pioverà….macchè stazioni meteo, basta saper capire i segni !Pedaliamo, fa freddo, siamo a 2080 metri e dopo alcuni km costeggiando il lago verso nord decido d’infilarmi anch’io il passamontagna e i guanti di pile.La strada si fa sempre più ripida e ci conduce a quota 2350, per ora la nostra Cima Coppi, mai prima eravamo saliti così in alto. (...) Ora inizia un bel discesone tecnico, a metà mi fermo per mettere il casco, troppo pericoloso procedere senza. Lascio sul van anche la macchina fotografica, ho paura di danneggiarla.Riprendo a pedalare più rinfrancato e spavaldo. Ci fermiamo dopo pochi km per comprare mirtilli freschi da alcune bimbe ai bordi della pista, solo un euro al barattolo. Intanto un cane ci minaccia, dobbiamo fermarci altrimenti rischiamo di essere azzannati, questi bestioni non scherzano.Ogni volta che risaliamo in sella c’insegue, nessuno lo richiama, troppo zelanti questi cani mongolie troppo appetitosi i nostri tonici polpacci ! Finalmente una bimba chiama la bestiaccia per nome mentre Angelo ha già un sasso tra le mani e lo stick al peperoncino pronto per l’uso.Pedaliamo ancora per alcuni km, comincia a piovere e decidiamo di fermarci per aspettare il van, abbiamo già percorso quasi 60 km. Carichiamo le bici per evitare d’inzupparci.Il paesaggio si fa sempre più alpino, aumentano gli alberi e le cime diventano più aguzze.Attraversiamo un ponte in legno a dir poco sconnesso, è talmente disarticolato da rappresentare una scommessa, speriamo di uscirne indenni ! Avvistiamo uno stupa del 1600, il più antico costruito qua attorno, che ricorda un eroe locale noto per avere volato alcune centinaia di metri con le sue ali rivestite di pelli di pecora….che sia sopravvissuto al suo esperimento non ci è dato di sapere ! C’imbattiamo in alcuni cammelli, non quelli per turisti, li usano i nomadi per la loro forza e resistenza, possono stare sessanta giorni senza bere, incredibile.Continua a piovere e non abbiamo proprio voglia di dormire in tenda, siamo sopra i duemila metri e fa un freddo becco, così andiamo in cerca delle guest houses di cui la nostra guida è a conoscenza.Le troviamo parecchi km più in là , ormai sono le otto di sera e siamo in ritardo per la cena, non siamo mica in Italia ! Capitiamo nella casetta di un’artista che insegna disegno all’università di Ulaan Baatar e nei mesi estivi si ritira in questo piccolo paradiso con la moglie.Lei pure è un’insegnante e lavora sulla dizione di cantanti e attori. Il tocco artistico lo si coglie nell’arredo e soprattutto nel soffitto a botte dipinto di un bel cielo azzurro che cullerà il nostro sonno. Fuori c’è una luce che mi ricorda un quadro di Magritte, l’incalzare della notte crea una situazione irreale, il buio della casa è rischiarato solo dalle fiammelle delle nostre candele, è bellostudiare i profili dei visi disegnati dalla semioscurità.Oggi è ferragosto, abbiamo già cenato e ci apprestiamo a dormire, sono solo le dieci.Mi piace pensare agli amici in Italia, là sono le 16 e la serata è ancora lunga, buon divertimento a tutti! Io chiudo gli occhi e sogno di loro e delle belle persone che ho conosciuto in vita mia.16.08.09 ARRIVO A MORON km 67 in bici + km 18 in vanAlle otto siamo operativi, colazione e abluzione minima. Pronti per partire alle 9:30 dopo avere riassemblato e lubrificato per l’ennesima volta le bici che il giorno prima abbiamo lasciato sul van.Il cielo è parzialmente nuvoloso e il sole cerca vanamente di scaldare questa giornata livida sull’altopiano a 2000 metri. Subito ci attende una discreta salita poi un’infinita pianura punteggiata di gher e di bestie al pascolo. Ci fermiamo presso una delle tante tende di nomadi per giocare a pallavolo con alcune ragazze. Il problema è come sempre il cane, ma stavolta è subito richiamato e invitato a starsene buono. E’ bello familiarizzare con la gente, ci mettiamo in cerchio a giocare, Italia e Mongolia, vale sempre la pena ritardare i nostri tempi per cogliere occasioni come questa ! (...)Di nuovo in bici, ci attendono salite e discese non troppo difficili e a mezzogiorno, dopo aver percorso 33 km, comincia a piovere. Aspettiamo il van per caricare le bici.Facciamo una ventina di km e verso l’una del pomeriggio riappare il sole. Pranziamo velocemente e risaliamo sulle biciclette con l’intenzione di raggiungere la città di Moron prima di sera, non sappiamo mai di preciso quanti km mancano, ci sono troppe opinioni differenti in merito.(...) Arriviamo a Moron prima del previsto, verso le sedici abbiamo già fatto spesa al market e telefonato in Italia dall’ufficio postale, ora dobbiamo raggiungere la guest house che ci ospiterà.Mi piace subito, molto ben organizzata, possiamo fare una bella doccia calda che dopo dieci giorni di igiene precaria sembra un miracolo ! All’entrata ci sono due grosse moto, una BMW e una KTM, in assetto da Parigi-Dakar. Dopo l’abluzione rigenerante andiamo a passeggio per le vie polverose di questa cittadina di 36000 abitanti a 1300 metri, capitale dell’aimag di Khovsgol. Moron è un anonimo centro amministrativo privo di alberi e attrattive, così andiamo a visitare il mercato locale dove c’è ogni genere di merce, niente di particolare per noi occidentali abituati al meglio del meglio. La cosa più interessante che mi capita di osservare è una distesa di biliardi all’aperto. Sono in corso molteplici partite, non credo ai miei occhi e cerco di documentare questa rara occasione.Stasera abbiamo anche un ricco dopocena con concerto di musica mongola, due artisti locali ci allieteranno, speriamo, esibendosi nella gher qui accanto. I due concertisti si preparano nella stanza accanto alla nostra e mi passano accanto. Mi sento in dovere di salutarli e mi presento all’uomo sfoderando il mio perfetto idioma messo a punto in tante ore di lezione sul van. “Bi Itàl hùn” e lui…..”Bi Mòngol hùn !” ovvero “Io sono italiano” e lui “Io sono mongolo !”... devo dire che in effetti mi sono sentito più mongolo io in quest’occasione !Ora sono appena tornato in camera dopo aver assistito alla performance, è stata superiore alle aspettative, i due artisti hanno suonato strumenti a corda e cantato, non avevo mai sentito pezzi eseguiti modulando la voce in modo così esasperato, deve richiedere uno sforzo notevole.Il canto con la gola è un’arte antica grazie alla quale un solo cantante riesce a produrre due voci,una più alta che intona la melodia e una base che funge da basso.Sono le 22, è ora di chiudere il diario e augurare a tutti una buona notte..17.08.09 VERSO IL GRANDE LAGO km 62 in bici + km 67 in vanSèhan àma snòò ! Buongiorno ! Mancano pochi minuti alle sette e siamo già svegli,la giornata è livida , speriamo che il tempo migliori e ci permetta di guadagnare un po’ di strada verso il grande nord.Ieri sera alla guest-house è arrivata una coppia di ciclisti russi di Ircutsk, una città della Siberia a sud del lago Bajkal. Viaggiano in autosufficienza con tanti bagagli ma hanno confessato di aver percorso diversi km su camion e altri mezzi, li capisco, non è facile spostarsi così affardellati, so cosa significa, l’ho sperimentato in passato sulla mia pelle !Colazione in camera, dunque, sul nostro tavolinetto pieghevole strategicamente posto di fianco al materasso che questa notte ci ha finalmente permesso di dormire un po’ comodi.Ci accomiatiamo dai gestori della guest-house e dai ciclisti, è stato bello raccontarsi le reciproche avventure e augurarsi un’energica pedalata.Il cielo è minaccioso, facciamo subito 26 km con una salita graduale ma inesorabile che c’innalza di 550 metri, dai 1300 di Moron ai 1850 di un passo che…..non arriva mai !Le gambe sono d’acciaio, non faccio la gara con nessuno, lotto solo contro me stesso.Giungo alla sommità e aspetto i compagni. Intanto fraternizzo con padre e figli mongoli con i quali compio camminando i classici tre giri rituali attorno all’ovoo gettando sassolini sulla pila di massi,ossa e sciarpe blu. Dico loro “Bì Itàl hùn” in perfetto mongolo, lasciandoli increduli e sorridenti. (...)Riparto con Angelo in discesa, la parola d’ordine è una sola “Cigherè oshò !!!” ovvero diritto verso il nord, non possiamo sbagliare, la pista punta decisamente verso il confine siberiano.Dopo diversi km ci fermiamo in prossimità di un piccolo lago e veniamo raggiunti dal van.Pranziamo con frittata di uova e salame affettato scaldato in padella, pasto alla cowboy.Ora mi concedo una birra mongola, di tè non ne posso veramente più ! (...)Arriviamo a un piccolo hotel con annessa una bottega di alimentari e lì ci raggiunge il resto del gruppo. La decisione è sofferta ma alla fine carichiamo le bici per giungere già questa sera alla nostra meta più settentrionale, il grande lago al confine con la Siberia, il mitico Khovsgol Nuur.(...)Avevamo letto dell’impraticabilità del terreno a queste latitudini, spesso solo a cavallo si riesce a procedere, occorre aspettare il lungo inverno che gela e rende compatte le piste.Stanotte dormirò solo nella mia tendina rossa a igloo, Enrica e Angelo si sono accomodati in una gher, troppo lussuosa e calda, per questa notte decido stoicamente di affrontare la notte siberiana. (...)Ceno con Angelo ed Enrica nella gher poi mi ritiro nella mia piccola dimora, desidero sentire il morbido abbraccio del mio sacco a pelo di piumino, sono già le 22:30 e il buio avvolge ogni cosa.Sèhan amrarè…..buona notte !18.08.09 KHOVSGOL NUUR km 41 in biciStamane sveglia alle 7:30, c’è una bella e fredda mattina ad attenderci.Sono attratto irresistibilmente dalla luce sul lago di fronte a me, il sole è già sorto e gioca con lo specchio dell’acqua, i cavalli stanno pascolando sul prato vicino alla mia piccola tenda.Metto subito mano alla fotocamera cercando di cogliere la magia del momento.Raggiungo Enrica e Angelo per la colazione nella loro gher al tepore della legna che ancora arde nella stufa.Ora via, la giornata è splendida, partiamo in bici scortati dal van e diretti verso l’accampamento della famosa sciamana che vive poco distante da qui. E’ una donna di 50 anni che ha sei figli e tredici nipoti, abita un tepee stile indiano e pascola le renne, fa parte della tribù dei reindeer people, poche decine di persone che vivono all’estremo nord del lago in luoghi irraggiungibili se non a cavallo per l’impraticabilità dei sentieri resi troppo fangosi dalle piogge.Solo d’inverno divengono accessibili grazie al gelo che compatta il terreno.Geroglifici attestano la presenza di questa gente sin dal 2000 a.C. in prossimità del grande lago Khovsgol. Grande povertà e mancanza d’istruzione dovrebbero indurre questo popolo a educare i propri figli nella speranza di vivere un futuro migliore e non rischiare l’estinzione; questo punto di vista è più o meno condivisibile, è tutto scritto sulla nostra guida.Entro nella tenda della sciamana, sono venuto per farle domande generiche, non per parlare del mio futuro porgendole domande specifiche. So che occorrerebbero molto tempo e problematiche precise, oltre a un’offerta di denaro più generosa !Non c’è da stupirsi, questa è una zona turistica e inevitabilmente è destinata a divenire sempre più una fonte di reddito per gente che vive così poveramente. Ho letto che questo vendersi ai turisti e il pascolare le mandrie in zone considerate non adatte non è condiviso dagli altri appartenenti a questa etnia, poiché le renne hanno necessità di nutrirsi di licheni e sembra che questi pascoli le facciano ammalare.Il dialogo con la sciamana dura una mezz’ora, posso fotografarla e me ne rallegro.Le chiedo della sua vita, mi dice che a soli tredici anni ha cominciato ad avvertire un malessere che si è protratto per un paio d’anni, era turbata da strani sogni, il potere stava entrando in lei.Non s’impara il mestiere di sciamano, il tengger ti sceglie, ovvero quell’eterno cielo azzurro che assume il significato di dio e regola da sempre la vita di questa gente. Gli sciamani curano le malattie, entrano in contatto con le anime dei morti e proteggono uomini e animali con cerimonie sacrificali. Per aiutare una persona lo sciamano entra in trance indossando particolari abiti e visita gli spiriti degli antenati trovando da essi la soluzione ai problemi dei vivi.Enkhtuya mi dice che solo un altro sciamano che vive a nord sul confine con la Siberia ha gli stessi poteri divinatori e può adoperarsi perché il bene prevalga sul male non solo tra la propria gente.Nel periodo della dominazione sovietica, ovvero fino al 1990, questi sciamani non potevano manifestare apertamente le proprie capacità se non a rischio della vita, sembra incredibile che questo antichissimo credo assieme a quello buddhista fosse perseguitato in maniera così violenta, eppure per settanta anni le cosiddette purghe staliniane hanno avuto il loro nefasto effetto.Timidamente la nostra allora quindicenne sciamana aveva confessato alla madre i suoi turbamenti, ma fino all’età di trent’anni, ovvero sino alla proclamazione dell’indipendenza mongola, i suoi poteri erano conosciuti da poche persone. Mi piace la serenità di questa donna, non vedo tentennamenti sul suo viso ma solo un sorriso rassicurante. Ora accade una cosa inattesa, Enkhtuya porta alla bocca uno strumento musicale, la freccia dal cielo, e lo suona per me. Chiudo gli occhi e le vibrazioni mi entrano nel corpo, non riesco a fotografare, ho le lacrime agli occhi.(...) Mio fratello, da buddhista qual’era, spesso mi diceva che chi ha sofferto ha diritto di sperimentare la felicità di esistere. Me ne vado ancora commosso, chissà cosa mi accadrà con gli anni, non mi è dato di saperlo, non vorrei conoscerlo.Riprendiamo le bici dopo questa esperienza mistica e c’imbattiamo in un villaggio per turisti ove affittano canoe. Che bello, oggi potremo pagaiare un poco sulla vastità del Khovsgol Nuur !(...) Sullo sfondo, all’estremo margine nord del lago, s’intravedono montagne innevate scintillanti, la luce del sole le rende irreali…….chissà se un giorno potremo vederle da vicino, questa vita non basta e forse è meglio così, non a caso il mondo è così grande,non rimarrebbe altrimenti lo stupore d’incontrare nuove genti e terre mai viste.E’ difficile non avere profondo rispetto di ciò che ci circonda, capisco la riconoscenza delle popolazioni indigene per tutto ciò che è protetto dal padre di tutti noi, l’infinito tengger.E’ sera, rientriamo al nostro piccolo accampamento, piove a intervalli, ogni tanto uno squarcio di sereno rende drammatica e affascinante la luce sul lago.(...) Non ci rimane che preparare i nostri giacigli, ma, come recita il nostro dialetto “am pròm po’ mìaster indree da tòt – non possiamo poi rinunciare a tutto ! “ e così ci consoliamo brindando con la vodka anche se Enrica partecipa solo virtualmente….non sa cosa si perde ed è pure fortunata perché non è costretta a bere da qualche nerboruto e magari permaloso mongolo attento agli usi locali !19.08.09 RITORNO A MORON km 67 in bici + km 132 in vanOre 6:40, Angelo ed io siamo già svegli. Ho appena sbirciato dal mio caldo sacco a pelo l’anziana proprietaria entrare nella nostra gher con la legna necessaria per alimentare la stufa.Si vede il fiato nella semioscurità, fuori il sole è appena sorto e la brina disegna i contorni delle cose con la sua magica trama. Mi vesto e vado a fotografare lo specchio della luce sul lago, fa molto freddo ma sono irresistibilmente attratto dal mondo là fuori.Dopo colazione carichiamo bici e bagagli sul van e alle 9:30 iniziamo il viaggio di ritorno a Moronabbandonando la latitudine più settentrionale raggiunta nel nostro tour.Ci riforniamo di viveri e carburante e poco dopo il capoluogo ci fermiamo per un veloce pranzo e per riprendere a pedalare. Una lunga salita ci attende, una ventina di km in un paesaggio che ormai ci è consueto. Incontriamo due ragazzi svizzeri di Berna con le bici stracariche, dai 50 ai 60 kg ognuna. Stanno viaggiando in autosufficienza, sono partiti in maggio raggiungendo dapprima la Danimarca e da lì Ulaan Baatar in treno lungo la transiberiana. Dopo questo tour mongolo in bici partiranno in aereo per Hong Kong con l’intento di attraversare pedalando i paesi del sud-est asiatico, Vietnam, Laos, Thailandia. Il prossimo anno ritorneranno a casa ( così dicono !?!) con tantissime cose da raccontare e…..un discreto allenamento ! Annotiamo gli indirizzi elettroniciper poterci scambiare in futuro foto e impressioni di viaggio e ci auguriamo buona fortuna a vicenda, ne abbiamo bisogno anche se la sciamana ci ha predetto un avvenire sereno !Riprendiamo la salita che ci porta a un passo di circa 1800 metri dal quale ci attende una discesa amica, costante e rigenerante. Enrica è scomparsa, ognuno di noi tiene il proprio passo, non dovremmo sbagliare, la direzione è grosso modo l’est, controllo la bussola.Si fa tardi, sono già le sei di sera, nessuno si vede all’orizzonte, né il van, né Enrica, solo colline.Continuiamo la discesa incalzati da un cielo nero foriero di pioggia e avvolti da nubi di polvere che vanno nella nostra stessa direzione spinte da un terribile vento. L’aiuto di Eolo fa guadagnare rapidamente strada alle nostre ruote. Non si vede una gher, siamo un poco innervositi e accelleriamo il passo, poi, come d’incanto, appare un villaggio dove decidiamo di fermarci in attesa dei compagni di viaggio. Da lì a poco, per fortuna, avviene il rendez-vous.Decidiamo di accamparci appena fuori dall’abitato in prossimità di un piccolo corso d’acqua. Bel posto, m’ispira ! Subito apriamo le tende ancora bagnate per la pioggia dei giorni precedenti e poi pensiamo all’igiene personale. L’acqua del fiume è sopportabilmente fredda e così decido di affrontarla con i soli slip e a piedi nudi tentando di togliermi di dosso la tanta polvere raccolta sulle piste. Prendo il coraggio e il sapone a due mani e faccio un bello shampoo sperando poi di sfruttare il poco sole che ancora rimane per scaldare se non i capelli almeno il morale!(...) Tutti a letto ora, rimane da scrivere il diario al caldo del sacco a pelo di piumino.20.08.09 VERSO EST km 106 in biciSveglia alle 06:50. Là fuori si sentono solo lo scorrere dell’acqua e il nitrire dei cavalli al pascolo.Scrivo le ultime cartoline e aggiorno il diario, è la prima volta in tanti anni che annoto le impressioni di viaggio, è bello confidare a un libro le proprie emozioni, mi dispiace non averlo fatto in passato.Oggi non c’è una nube in cielo, direi che è la giornata più limpida che il tengger ci ha regalato.Alle nove siamo già operativi, tutto fatto, partiamo in bici, una volta tanto lasciamo che siano i nostri accompagnatori a smontare il campo. Braghe corte e maglietta per me, gli altri preferiscono mettere qualche capo in più.Pedaliamo in un paesaggio ormai consueto, i nostri occhi sono avvezzi a dolci colli e praterie infinite. C’è discesa, Enrica è contenta, finalmente si riposa !Sostiamo verso mezzogiorno in prossimità di un villaggio per il meritato pranzo. Due uova sode e un salame affettato riscaldato in padella dovrebbero bastare per darci un po’ di brio e calorie per arrivare a sera. Angelo ed Enrica ripartono, io mi trattengo per visitare un tempietto buddhista di un paio di secoli fa che dista qualche centinaio di metri da qui. Riesco a entrare nel cortile e a fotografare gli esterni, ci sono un bello stupa, una grande ruota del dharma con gazzelle, cilindri di preghiera e tutta la rituale simbologia. Gli interni non sono accessibili, ma paiono spogli sbirciando dalle finestre ad altezza d’uomo.E’ ora di raggiungere gli altri, oggi la strada non è impegnativa, occorre però guadagnare chilometri perché mancano ormai pochi giorni alla conclusione del nostro tour. In sella dunque, pedalare !Ci sono salite non dure ma costanti seguite da belle discese. Uno stormo di centinaia di gru ci suggerisce una sosta per fotografare questi splendidi uccelli inconsueti ai nostri occhi.Arriviamo su di un altopiano posto a 1200 metri interamente coltivato a frumento, la stanzialità della gente di questa zona e la quota non eccessiva permettono queste colture.Ai tempi dei Khan non c’erano terreni e genti dediti a tutto ciò, quando necessitano prodotti della terra bastava razziare le ricche lande cinesi e realizzare ogni desiderio.Vediamo e fotografiamo una famigliola di porcelli mongoli. Mamma, papà e piccoli grufolanovicino alle nostre bici, non ce ne curiamo, non credo siano interessati ad acciaio e alluminio !Una salita di 20 km lieve ma interminabile ci porta a 1350 metri e ci permette di concludere la tappa più lunga sinora compiuta, ben 106 km, non male !!Ci accampiamo vicino a un torrentello, è proprio il minimo sindacale, ma ci permette di lavare un po’ di abiti e di fare qualche abluzione.E’ una serata serena, il sole tramonta e regala al cielo sfumature da tavolozza impressionista.E’ bello stare assieme nella tenda cucina e raccontarci la giornata appena trascorsaassaporando il cibo che la nostra instancabile cuoca ci prepara con tanta cura.Ora un tè caldo, un brindisi con vodka e poi tutti a nanna, domani si riparte.21.08.09 FIUME ARGHANAGOL NATIONAL PARK km 78 in biciSveglia alle 07:30, c’è una giornata di sole incredibile ! Un paio d’ore e siamo pronti per il pedale.Enrica non ha dormito e non si sente in forma, parte comunque, non vuole salire in van.Mattinata tranquilla, facciamo una quarantina di chilometri e ci fermiamo per il pranzo.Mortadella mongola e patate bollite, magari non è il massimo per un ciclista ma non è poi così scandaloso, tanto il colesterolo non s’innalza di certo con tutto il movimento che facciamo !Enrica non è proprio in giornata, ieri ha dato troppo, sale sul furgone. Angelo ed io continuiamo.Raggiungiamo un villaggio per approvvigionarci di cibo e carburante poi proseguiamo verso il parco nazionale indicato sulla carta stradale….non dovrebbe mancare molto.C’è subito una discreta salita, poi una discesa altrettanto lunga. Fa caldo, molto caldo, è incredibilel’escursione termica tra il lago che abbiamo abbandonato più a nord e queste lande, occorre un fisico sano per resistere e una buona dose di fortuna.Attraversiamo un ponte su di un grande fiume e subito dopo ci attende qualche chilometro di deserto, la pista è molto sabbiosa, la bici sbanda vistosamente, si procede a rilento.Per fortuna dopo non molto ci imbattiamo nei consueti sterrati dal fondo compatto.(...)Stiamo seguendo il van che si addentra nella prateria e abbandonando la pista quando c’imbattiamo in una pedalatrice solitaria, una canadese dell’Ontario che ha vissuto per nove anni in Alaska, fino al gennaio del 2009, poi ha venduto la casa che si era costruita vicino a Fairbanks per girare l’Asia in bici. Le diciamo che ha un grande spirito per viaggiare da sola e così a lungo in autosufficienza, nessun nostro amico o amica lo farebbe mai, voi ne conoscete qualcuno ?La invitiamo a campeggiare con noi e a condividere la cena italo-mongola che abbiamo intenzione di preparare. Loretta, questo è il nome della canadese, riflette su cosa fare e sui chilometri che le mancano da percorrere, poi decide di rimanere e di passare una serata in compagnia.Montiamo il campo, ci laviamo al fiume e poi parliamo del tempo trascorso in Alaska da questa incredibile viaggiatrice solitaria. Le confido che uno dei miei sogni è fare la Dempster Highway uno dei prossimi anni, quei luoghi mi hanno davvero impressionato nel lontano 1998 quando ho percorso un migliaio di chilometri in bici “into the wild” tra grizzlies e orsi bruni.(...) Il riso mongolo è buono, siamo contenti, è bello stare tutti assieme a mangiare e a raccontarci la vita, manca solo un goccio di vino buono, dobbiamo aspettare un’altra settimana per riassaporarlo. Ora tutti a letto, ci attende un’altra giornata intensa. Sehàn Amrarè, buonanotte.22.08.09 ERDENET km 67 in biciSveglia alle 06:15, problemi intestinali, che sia stata la pasta alle erbe della prateria ?Devo uscire dalla tenda con decisione destando lo stupore di Angelo che evidentemente ha uno stomaco zincato e allenato da tanti viaggi a non temere più nulla !Saranno stati i due mestoli d’acqua di fiume usati per tirare la pasta o la contaminazione con il terreno mongolo ?!? Devo ricorrere per la prima volta ai farmaci, poco male, speriamo che tutto si risolva in poche ore e che mi rimanga energia sufficiente per pedalare.Solo biscotti e tè a colazione, qualcosa bisogna pur mangiare. Attendiamo che si prepari la nostra ospite canadese, ci rifocilliamo assieme e parliamo di viaggi. Ovviamente dirotto la conversazione sull’Alaska, desidero davvero tornarci, è il luogo che più di ogni altro mi ha emozionato.Loretta ha vissuto inverni ed estati lassù, passando da una a ventitre ore di luce, sperimentando fino a -75°C, i suoi occhi sono avvezzi al bianco delle distese di ghiaccio e al verde smeraldo dei boschi di larici. Trascorreva i suoi weekends con cani e slitta portando con sé un tepee e una stufetta a legna per scaldarsi la notte…..roba da donne vere !!!Io mi accontenterei di seguire la Dempster Highway verso nord costeggiando il fiume McKenzie fino al delta nell’estremo nord.Ci scambiamo gli indirizzi elettronici dicendoci “Keep in touch !” , teniamoci in contatto, questo mondo è troppo grande, c’è il rischio di perderci o magari un giorno riconosceremo due ruote amiche, chissà.Alle 09:30 partiamo, facciamo una cinquantina di chilometri verso est fino a un parco nazionale riconoscibile dalla sagoma di un vulcano spento.E’ ora di pranzo, solo tè e biscotti per me, ancora non sono in forma.Nel pomeriggio continuiamo a pedalare in leggera e costante salita, Enrica ci segue sul van, non si è ancora ripresa da ieri, non l’invidiamo, stare sul furgone non è facile con tutti i sobbalzi di queste piste, se ne esce centrifugati, provare per credere! Incontriamo on the road una coppia di ciclisti serbi di Belgrado, probabilmente padre e figlio, con bici appesantite da 40 kg di bagaglio, deve essere una bella fatica, l’abbiamo fatta tante volte anche noi e proprio non riusciamo a invidiarli, meglio sentire le nostre ruote scorrere velocemente su questi sterrati infiniti.Pedaliamo ancora in salita, ormai abbiamo superato oltre seicento metri di dislivello, il passo che ci separa dalla città di Bulgan è sotto i nostri occhi, ancora poche pedalate.Compio gran parte del dislivello non sulla strada ma sui colli erbosi che la fiancheggiano, così evito di respirare il gas di scarico dei camion e delle auto che in questa zona sono abbastanza numerosi.Il tempo è impietoso, comincia a piovere con convinzione, il van sta arrivando, carichiamo le bici.Eravamo a poche centinaia di metri dal passo, mi dispiace rinunciare, non sono un collezionista di trofei e di colli alpini ma un po’ d’orgoglio c’è sempre nell’animo di un ciclista !Scolliniamo, superiamo Bulgan e troviamo dopo due settimane l’asfalto, non ci sembra vero, basta buche e sobbalzi, un interminabile nastro nero fino all’orizzonte si presenta ai nostri occhi.La strada così comoda oltre a essere spoetizzante ha anche un effetto soporifero, dopo qualche chilometro mi si chiudono gli occhi, è troppa la stanchezza dopo tanti giorni impegnativi.Facciamo 60 km oltre la cittadina di Bulgan e arriviamo a Erdenet, seconda città della Mongolia dopo Ulaan Baatar. Le case sono basse e sparse sui colli tutt’attorno, la cosa deprimente è la vista dei condomini sovietici anni settanta, tanto funzionali quanto inguardabili e tristi.Sembrano prigioni di stato, è incredibile quanto l’uomo sia capace di rendersi schiavo con le proprie mani, se ci fosse ancora l’Orda d’Oro mongola non attenderebbe ad appiccare il fuoco a questi mostri.(...) Un bel tè caldo e buonanotte, speriamo di riuscire a dormire su di un letto, non ci siamo più abituati.23.08.09 MONASTERO AMARBAYASGALANT km 18 in van + km 109 in biciLa giornata si preannuncia bella nonostante le previsioni nefaste.Andiamo al mercato per rifornirci di carne e frutta, poi tentiamo una visita alla miniera di rame che ha dato lavoro a tanta gente in questa zona. E’ domenica, non è possibile entrare, occorrerebbe un permesso speciale. Decidiamo così di uscire dalla città in furgone e di pedalare poi sull’asfalto finoalla deviazione che ci porterà a un famosissimo tempio buddhista.Subito la strada ci è amica con parti pianeggianti o addi
Anche in bianco e nero la Mongolia offre tutte le sue suggestioni. Specialmente se le immagini risalgono agli inizi degli anni Settanta quando il Paese, dominato dall’influenza sovietica, era ancora off limits per gli stranieri. Rodolfo Lavezzo e la moglie Ivana hanno avuto la fortuna di visitare in quel periodo Ulaanbaatar per un viaggio istituzionale (ma anche romantico) e oggi, per la prima volta, aprono il loro album fotografico per mongolia.it. Tutto è nato da una email che Rodolfo ha inviato alla nostra redazione: “Caro Federico, ho letto l'articolo sul Corriere del tuo viaggio in Mongolia. Nel 1972 io e mia moglie siamo stati un mese ospiti del governo mongolo in questo immenso paese.Abbiamo conosciuto di persona il presidente Tsedembal prima che fosse defenestrato: abbiamo visitato tutti quei posti che hai descritto. Hai fatto bene ad invitare i tuoi lettori a visitare questo immenso paese unico in tutto. Mi piacerebbe tanto tornarci, penso che sarà impossibile. Ti ringrazio di avermi ricordato questo bel paese che non scorderò mai. Distinti saluti. Rodolfo Lavezzo”. Da qui è scattato il desiderio di approfondire quella “storica” visita. Ed ecco riemergere, insieme ai ricordi del cuore, anche quei cimeli preziosi sotto forma di immagini, che restituiscono – almeno in parte – le emozioni vissute quasi quarant’anni fa. Le immagine sono un po' sparpagliate, come se uscissero da un vecchio baule. Ci sono foto ricordo di Rodolfo e Ivana, orgogliosi di posare con gli amici mongoli e accanto alle meraviglie naturali del Paese. C'è il naadam, la festa più importante che si svolge a luglio e che, nel 1972, non contemplava la possibilità di celebrare Gengis Khan, per il divieto imposto dal regime filosovietico che considerava il condottiero mongolo un "imperialista". Ci sono le manifestazioni ufficiali nella piazza Sukhbaatara della capitale, di cui si vedono anche scorci fra ciminiere (ancora oggi funzionanti e... inquinanti) e di templi. C'è Karakorum con il suo magico perimetro di stupa. Ma c'è anche la dolce Mongolia della natura incontaminata, dei nomadi senza tempo che scortano carretti guidati da yak e anche il deserto e le steppe infinite dove, beffardo, campeggia un cartello con la scritta "P": parcheggio libero. E' la Mongolia di quarant'anni fa, è la Mongolia di sempre.
Wow... Mongolia !!!!Sono due ore che ormai viaggiamo in direzione sud. Caldo... Il nostro autista e la sua toyota svolgono egregiamente il loro dovere, ma la strada (beh... strada...) verso Dalandgad è quella che è: uno sterrato continuo e polveroso e da quasi mezz'ora ancora più cadenzato da buche, dossi, sabbia e grossi sassi.Le nostre "articolazioni" (se vogliamo dire così) cominciano a risentirne. Con discrezione chiedo se è possibile effettuare una sosta. "Sicuro, non c'è problema" mi risponde l'autista "tanto mi sono perso..." ?!?!?!?!? Cosa provo? Preoccupazione? Sicuramente no... Felicità ? Neanche... sarebbe paradossale.... Eccitazione!!! Si'... ecco... una sconsiderata eccitazione!!! Sento salire adrenalina mista a tenerezza per l'ingenuità dell'uomo che ci sta conducendo in quell'angolo di mondo. Scendiamo dalla vettura. Mi allontano duecento metri, mi giro e mi metto a sedere a gambe incrociate. Attendo che si diradi quel sudario polveroso che avvolge la vettura e i miei amici e chiudo gli occhi un minuto per realizzare dove diavolo mi trovo! Ecco... il silenzio domina incontrastato, le frasi ovattate dei miei compagni di viaggio in sottofondo... Li riapro... la sensazione di vuoto che mi attanaglia è devastante ! Lo sguardo corre a 360 gradi e riesco a vedere la curvatura dell'orizzonte. Il cielo è di un azzurro brillante nell'aria tersa e fa da cornice a poche nuvole che sembrano cadermi in testa sospinte da una brezza impercettibile. Nulla intorno a me e ai miei compagni. Qualche cammello si intuisce a chilometri di distanza (ma quanti saranno questi chilometri? 10, 50 o forse 100 ?). La maestosità del luogo non la dimenticherò mai.... Non è deserto.... non è steppa..... non è simile a nessuno dei luoghi che pure ho visitato... è semplicemente e solamente, come dicono loro, il Gobi !Mongolia, ci sei entrata nell'anima con i tuoi spazi incontaminati e sterminati e nel cuore con la bontà della tua gente.... Aspettiamo solo di incontrarti di nuovo. Non vai visitata, vai vissuta.....Fabio Fioroni
Una splendida luna si sta levando dietro la montagna proprio di fronte alla mia finestra. È appena passata sopra la Mongolia e mi ha portato i saluti dei nomadi, chiedendomi di estenderli ai miei amici di avventura! Accidenti come sono poetico! O forse è la calura che m'ha lessato il cervello! Domani proverò a chiamare il mio amico, quello specializzato in psichiatria. È molto bravo, ma, ahimè, si rifiuta di trattare i casi disperati! E poi, lui non è mai stato nel Gobi e quindi certe cose non potrà capirle mai e poi mai! Voi invece potete capirmi, almeno lo spero, e proprio con questa speranza vi invio il mio pacchetto di figurine mongole. Servono a tener vivo il ricordo, alimentando la bramosia di ritornare in Mongolia, magari nel nord-est o nel nord-ovest. E chissà se la prossima luna mi manderà i saluti degli uomini renna!? Come? Cosa dite? È il caso che vada a dormire a riposare? E allora ubbidisco e vi saluto tutti con simpatia. Celestino.
IN VOLO VERSO ULAANBAATAR“Here I am again !” Beh, sì, per chi non lo sapesse, sono ancora sulle tracce di Gengis Khan dopo l’esperienza ciclistica dello scorso anno. Perché a piedi ? E’ stato il vedere un plastico dell’orografia mongola al Museo di Storia Naturale di Ulaanbaatar e il parlarne con Max a convincermi a ritornare. Macchè presunte storie amorose con cuoche o altre donne conosciute l’anno addietro, tutte illazioni di amici un po’ bevuti, la verità sta nel fascino che esercitano su di me i luoghi così selvaggi e inesplorati.Ecco in due parole il motivo per cui mi trovo di nuovo sull’aereo dell’Aeroflot diretto verso est in compagnia del grande amico Max che forse più di me desidera raggiungere l’ombelico dell’Asia.Saremo al centro esatto di questo enorme continente che ha visto le armate dei Khan spadroneggiare nel XIII secolo tra le sponde dell’Adriatico e quelle del remoto Mare Giallo.Si sospetta che i Monti Altai, meta del nostro viaggio, custodiscano l’ancora inviolata sepoltura del più grande condottiero della storia, il temutissimo Gengis Khan.Se c’imbattessimo nelle sue spoglie avremmo compiuto la scoperta archeologica più grande del millennio….ma ci accontenteremo di riportare a casa le nostre stanche membra senza disturbare il sonno dei grandi della storia !Mi sento protetto dalla presenza di Massimo, la sua esperienza di supertramp e il suo curriculum di treks extraeuropei mi rassicurano. Uniremo le nostre conoscenze e la solita tenacia per affrontare le prime due settimane lungo gli alti sentieri delle Montagne d’Oro, questa è la traduzione dal turcodel toponimo “Altai”.Ora è notte, stiamo volando da due ore verso est dopo aver lasciato Mosca, la luna piena si riflette sull’ala dell’aereo che domani violerà il sacro suolo mongolo.BREVE SOGGIORNO NELLA CAPITALEDue giorni di acclimatamento a Ulaanbaatar proprio occorrono.Arriviamo alle sei del mattino come previsto. Un’occhiata ai cartelli d’accoglienza ma non scorgiamo nessun nome famigliare, magari solo il logo di Blue Wolf, l’agenzia che ho scelto tra le tante in internet. Aspettiamo, che altro si può fare ?S’avvicinano due tassisti molto interessati al nostro caso, cerchiamo di spiegare loro che abbiamo già accordi con un’agenzia, ma intendersi non è così agevole ! Finalmente si fa vivo il nostro uomo,è un ventenne assonnato che tiene in mano un pezzo di carta con i nostri nomi.L’aeroporto è deserto ma ci sentiamo decisamente più sollevati, non siamo soli, ci conforta il pensiero di avere un rifugio sicuro dopo un viaggio di tante ore.Ad attenderci c’è la madre del ragazzo, una persona davvero premurosa che ci accoglie con simpatia. L’appartamento è piccolo ma dignitoso, manca il superfluo.Facciamo colazione nella piccola cucina dai cui vetri si vede una fila di casermoni stile sovietico che certo non allieta lo spirito. Tra un blocco di condomini e l’altro ci sono containers molto astutamente tramutati in garages. E’ uno dei tanti rioni popolari che permettono al quasi milione e mezzo di persone di sopravvivere in questa capitale considerata la più fredda del mondo, con inverni che registrano temperature dai -40°C ai -60°C.Dormiamo un paio d’ore poi raggiungiamo il centro in taxi. Non noto nulla di diverso rispetto all’anno scorso, la piazza del parlamento è sempre dominata dall’impressionante statua in bronzo di Genghis Khaan, assiso in trono e protetto dai suoi bodyguards, due valorosi generali a cavallo che sembrano pronti a qualsiasi sacrificio per salvare la vita del loro signore.Mangiamo e beviamo birra in un bel locale in legno gestito dalla Budweiser lì a due passi. E’ fin troppo western, molti frequentatori sono ben vestiti, probabilmente hanno incarichi nei vicini ufficiparlamentari. Dopo avere soddisfatto lo stomaco ci regaliamo una visita al Museo di Storia Mongola per capire un po’ di più di questo popolo di quanto già appreso leggendo libri o visitando siti sul web. Troviamo un po’ di tutto, dai petroglifi dell’età del bronzo ai bellissimi costumi tradizionali, dalle armi delle orde dei Khaan agli utensili della vita di ogni giorno.Nelle ultime sale si respira il trionfalismo del regime sovietico che per settant’anni, fino al 1990,ha imperato su queste terre. Infine le foto della gente in piazza ad accogliere la notizia dell’indipendenza l’indomani del crollo della cortina di ferro. Fu però illusoria questa libertà, come sempre l’economia dettò le sue spietate leggi e la povera gente ne pagò le conseguenze.Rincasiamo a piedi percorrendo per alcuni chilometri Peace Avenue, la via dello shopping. Roba da ridere rispetto allo standard occidentale, sebbene i prezzi siano invitanti. Compriamo qualche birra, sono le ultime che possiamo permetterci prima dell’avventura che ci attende a breve nel remoto ovest. Giungiamo al nostro piccolo rifugio tra i tanti grigi condomini che lo circondano, la cena è già pronta, l’appetito non manca e certo chi ci conosce non ne dubiterà ! La gentile padrona di casa sta chiacchierando con un’amica, brindiamo al successo del nostro viaggio. Le due donne escono, sta facendo buio, ci lasciano le chiavi di casa per permetterci di fare due passi prima di coricarci. Mi chiedo se sarei così ospitale da fidarmi tanto di uno straniero, poi capisco che qui come altrove occorre fare di necessità virtù e, se si vuole guadagnare qualche soldo in più, si lasciano da parte le preoccupazioni. O più semplicemente la gente non ha cose così preziose da temere furti ! Passeggiamo per le vie di questo rione popolare, ci sono poche luci e molti bimbi che giocano rincorrendosi, salendo e scendendo dalle giostre che allietano i cortili, si respira un’aria di tranquillità. Le nuove generazioni crescono così, semplicemente.Rincasiamo, è ora di dormire.Abbiamo dormito bene, io su di un lettino molto duro ma confortevole, Max sul pavimento reso più morbido da varie coperte imbottite ripiegate più volte; la signora ci ha lasciato la sua camera e ha dormito in un’altra stanza per terra, forse su di un tappeto. Facciamo colazione scambiando poche parole in inglese, tuttavia la gentilezza dei modi trascende ogni barriera culturale e ci fa sentire a nostro agio. Stamane abbiamo in mente di visitare il monastero di Gandan o meglio ciò che rimane di quell’antico edificio dopo la distruzione voluta dal regime sovietico.Il buddismo però non s’offende per l’ignoranza umana, cerca di contrastarla attraverso la presa di coscienza e ora, dopo anni di buio, il salmodiare di circa seicento monaci rieccheggia nelle sale dedicate alla lettura dei sutra, gli antichi insegnamenti del Buddha. Attorno al tempio vediamo piccole sale dove la gente comune si reca per imparare la corretta recitazione.Dopo il culturale, il ricreativo! Raggiungiamo a piedi la birreria di ieri e ci concediamo un bel boccale di bionda fresca. Il tempo vola, è già pomeriggio; c’incamminiamo verso quello che sulla carta è segnato come un ampio parco pubblico ma non è altro che un enorme cantiere.L’urbanizzazione della capitale continua nonostante i deleteri aspetti legati a disoccupazione e alcolismo. ll Tempio dei Lama sorge come un’isola in mezzo al cemento: oltre a visitarlo abbiamo l’occasione di assistere a uno spettacolo di canti tradizionali e di danza Tsam, di cui ho letto numerose volte.I cinque danzatori indossano maschere terrifiche di antichissima foggia che servono per guidare le future reincarnazioni secondo le logiche buddiste. Questo misticismo sazia i nostri sensi ma non il nostro stomaco che ci suggerisce di rincasare per la cena, la padrona di casa ci attende con qualcosa di appetitoso, ne siamo sicuri, e così decidiamo di accorciare l’attesa prendendo un taxi.Di lì a poco siamo seduti a tavola a sorseggiare una più che dignitosa birra mongola. . Dopo cena Erica ci mostra alcuni album di fotografie che ci aiutano a capire la storia della sua famiglia: oltre al ragazzo che ci ha prelevato all’aeroporto ella ha una figlia che studia in un college a Los Angeles e che rivedrà solo la prossima estate. Il marito deve essersene andato con qualcun’altra con cui ha fatto ben quattro figli. Dal vocabolo che Erica ci mostra sul dizionario d’inglese intuiamo che la nuova compagna del marito deve essere finita in carcere per un motivo che non riusciamo a capire.Ci accommiatiamo, la stanchezza inizia a fare capolino, domani ci attende il lontano ovest.VERSO OLGYIFacciamo tutto con calma poiché dobbiamo essere all’aeroporto alle dieci. Ci accompagna Erica che si dimostra ancora una volta affidabile e premurosa, la rincontreremo di nuovo a Ulaanbaatar tra tre settimane.Decolliamo puntuali, tra poco più di tre ore saremo a Olgyi, la capitale dell’aimag o provincia più occidentale della Mongolia. Dal finestrino scatto alcune foto: stiamo per atterrare, sotto di noi il paesaggio è davvero strano, punteggiato di laghi azzurri e rosa con immense distese di sabbia intervallate da rare rocce, sull’orizzonte compaiono montagne imponenti coperte di neve.Il pensiero vola su quel paesaggio irreale accarezzando rilievi e vallate.Prendere terra è a dir poco emozionante, vuoti d’aria così ne ho sentiti poche volte e oltretutto il pilota deve tenere il regime del turbo elica un po’ allegro per fronteggiare un forte vento contrario.E’ andata, siamo con i piedi per terra. Ad aspettarci ci sono già l’autista del van e una ragazza mora gentile e carina che ci farà da interprete e guida tra le asperità dell’Altai mongolo.Raggiungiamo il campo di Blue Wolf gestito da Canat, un uomo di 42 anni con il quale ho scambiato tante mail dall’Italia per capire se la sua organizzazione fosse seria; per il momento mi accontento di averne verificato l’esistenza, giudicheremo poi il servizio offertoci. Gli accordi sono chiari ma ci sono difficoltà nello scambiare i dollari comprati in Italia:alcune banconote recano impressi strani piccoli disegni di animali, così spendiamo una settantina di dollari in più per compensare il cambio più basso avuto dal nostro organizzatore sul mercato nero.La moglie cura gli interessi di casa, queste kazake sembrano davvero toste, ho letto che sono le più emancipate tra le donne islamiche e godono degli stessi privilegi degli uomini non sottraendosi però alle incombenze del quotidiano, prima fra tutte lo sbrigare le faccende domestiche. L’immagine che colgo entrando nella guest house è quella di tre o quattro donne che stirano e ripiegano con cura meticolosa lenzuola e altra biancheria.Ceniamo in modo dignitoso con i soliti monopiatti mongoli, riso o pasta, verdure cotte e crude e l’onnipresente carne. Il bere rasenta davvero il minimo sindacale, acqua o tè, siamo tra gente musulmana e altro non ci è concesso, sperimentiamo il Ramadan alcolico !Compare un musicista kazako con una sorta di mandolino per allietarci con virtuosismi e una voce dall’estensione davvero notevole. Ci viene dedicato “I’m sailing” di Rod Stewart e, anche se il testo evoca il veleggiare, accettiamo di buon grado questa attenzione rivolta a noi occidentali.Tra gli altri stranieri presenti conosciamo un austriaco che è qui da mesi per conto della televisione del suo paese, sta girando documentari in queste remote regioni; è attrezzatissimo, guida un camion stile Overland dotato di ogni comodità. Ci racconta degli scenari incredibili che incontreremo nel Parco di Tavan Bogd, grande più della nostra Liguria e meta del nostro trekking.Guardo le foto alle pareti della guest house impressionato dalla loro bellezza: sono opera di professionisti che lavorano per National Geographic. Chi può competere con le loro attrezzature e soprattutto con i loro tempi ? Penso che avrei potuto fare questo mestiere se avessi avuto più determinazione, in fondo non è dissimile da quello del pastore errante per le steppe dell’Asia Centrale, solo molto più tecnologico e dotato di comfort. Le emozioni sono le stesse, l’uomo occidentale le traduce in immagini e ne ricava un guadagno, per l’altro rappresentano l’essenza stessa della vita.Non ci rimane che raggiungere la nostra gher, domani inizia il nostro piccolo sogno.Dopo una doccia e un’abbondante colazione, diamo una mano a caricare i bagagli sul van che ci accompagnerà fino al lago Dayan da cui cominceremo a camminare.Non credevo occorressero tante vettovaglie, ma occorre considerare che, oltre a me e a Max, ci saranno Bota, la nostra interprete e guida, Natasha che ci farà da cuoca e un paio di uomini che incontreremo stasera. La giornata scorre piacevolmente, il paesaggio è quello solito, almeno per me che ricordo con precisione il viaggio in bici dell’anno scorso da Ulaanbaatar verso ovest e poi a nord al confine con la Siberia. A sera raggiungiamo il lago e salutiamo l’autista che ci ha accompagnato per tanti chilometri, ora dobbiamo fare affidamento solo sulle nostre gambe !Incredibile, tutto il bagaglio sarà portato da un cammello guidato da due giovani indigeni di 22 e 28 anni e dai loro cavalli. C’è pure il padre di uno dei ragazzi, Manà, un signore segaligno di sessant’anni dal viso segnato dalla fatica. Non sarà con noi, accompagnerà un’altra comitiva.La sera è magica, il sole sta tramontando specchiandosi sul lago, uomini e cose sono contornati di una calda luce, è il momento migliore per cogliere immagini.Sto passeggiando sulle colline qui attorno, il bagliore del lago negli occhi quando una voce rompe l’incantesimo: “La cena è pronta !”. Quando il sole scende un gelido abbraccio avvolge questo altopiano a duemila metri, è meglio non farsi sorprendere, non c’è pietà per alcuno.La cuoca, Natasha, ha 22 anni e una tempra incredibile da vera donna kazaka. Insegna informatica da settembre a giugno e poi guadagna qualche soldo in più d’estate dilettandosi ai fornelli per dare conforto ai pochi turisti che capitano da queste parti. E’ davvero brava, ci prepara una zuppa con verdure e carne di montone, facciamo il bis. L’ultimo bicchiere di Pinot Grigio l’ho offerto a Max all’aeroporto di Malpensa……pazienza, ci rassegniamo, visto che pochi sono riusciti a trasformare l’acqua in vino !Bota, la nostra interprete, è una ragazza di 27 anni che ha una figlia di appena un anno. Purtroppo ha perso il marito alla fine dello scorso anno, un infarto se l’è portato via. Le si rompe la voce alla nostra domanda riguardo al compagno, ha pianto per mesi questa inattesa morte, per fortuna ad aiutarla ha ancora i genitori cui ha affidato il suo piccolo tesoro prima della partenza del trekking.Le parliamo delle nostre vite anch’esse purtroppo segnate dal dolore e dalla consapevolezza di dover andare avanti per cercare di trasmettere a chi ci sta vicino un poco della grande eredità d’amore che ci è stata affidata. Almeno questa giovane donna custodisce il segreto e la gioia di una vita che s’è appena offerta al mondo e che le sarà di grande conforto per i giorni a venire.Bota ha il viso dolce e non nasconde affatto la propria femminilità sebbene la religione ne condizioni in parte i costumi. Il tono piacevole della sua voce e il sorriso sono di corredo a uno sguardo vivace e a un portamento armonioso. Insegna inglese ai ragazzi dalla prima età scolare sino ai diciott’anni e ha accettato di buon grado il compito di accompagnarci certo per guadagno ma forse anche per sentirsi ancora viva dopo tanti giorni duri e tante riflessioni.Il camminare nell’aria fresca delle montagne dell’Altai l’aiuterà a scacciare la malinconia, ce lo confida, e le permetterà di confrontarsi con gente vera.Le mancherà la sua piccola creatura ma dieci giorni passano velocemente e tra un attimo potrà riabbracciarla.Ora tutti a nanna, io e Max nella nostra tenda, Bota e Natasha nella loro e i due ragazzi cowboysnel loro bivacco approntato con consumata esperienza.LUNGHI GIORNI DI TREKKINGCome descrivere il prologo di questo trekking ? Ora, a distanza di una settimana, ha assunto connotati meno duri, non posso comunque dimenticare il forte disagio che lo ha distinto.Il primo giorno mi mette subito alla prova, appena sveglio rimetto la cena della sera precedente e non faccio colazione. In questo stato percorro una ventina di chilometri, per fortuna in pianura, cercando di resistere allo stato di spossatezza. A complicare tutto c’è un’invasionedi zanzare che farebbe impallidire i nostri timidi insetti padani e non ci permette di godere dei pochi momenti di riposo concessi dalla nostra road map. Unico conforto la gradevole temperatura e un paesaggio rilassante di colline e praterie.Non ceno, proprio non mi va nulla, cerco solo di riposare dopo una giornata interminabile.L’indomani mi sento meglio ma non ho ancora vogli d’ingoiare cibo, mi nutro di tè zuccherato.Ci aspettano trenta chilometri di cammino. Sono assorto nei miei pensieri, la presenza di Max dinnanzi mi dà sicurezza, poi c’è Bota che rende tutto più sopportabile con la sua dolcezza.Ci accampiamo mezz’ora dopo le sei, troppo tardi, e ancor peggio sotto una pioggerella insistente.Raccomandiamo alle nostre guide di fermarsi per tempo i prossimi giorni per poterci rilassare e sbrigare piccole incombenze come lavare gli indumenti e provvedere all’igiene personale.Incuriositi ci recano visita due pastori kazaki uno dei quali stringe teneramente al petto il nipotino.Chiediamo loro com’è l’inverno da queste parti e se hanno visto gli animali selvaggi che tanto ci preoccupavano prima della partenza. L’inverno scorso è stato terribile in tutta la Mongolia, sono morti almeno quattro milioni di capi di bestiame su di un patrimonio dieci volte più numeroso.I -40°C sono normali in queste steppe, ma sono i venti gelidi che fanno scendere il termometro a-60°C e gelano la rada prateria a decretare la fine di questi poveri animali. A complicare la situazione ci pensano i lupi. Credevamo di aver letto un dato esagerato riguardo al loro peso ma i nostri fieri e duri interlocutori ci assicurano che un lupo maschio adulto può pesare dagli ottanta ai cento chili e che è capace di un coraggio e di una resistenza estremi. Oltretutto queste belve sono intelligentissime, tant’è che le loro tattiche di caccia sono state imitate dalle orde dei temutissimi khaan con grande successo in innumerevoli battaglie. Per non parlare della fierezza di questi animali che si amputano una zampa o si lasciano morire piuttosto che farsi addomesticare.Mai addentrarsi in un bosco di sera da soli, ci dicono, ma chi ci ha mai pensato ?In quanto all’orso ne esistono pochi esemplari, è una specie protetta e ben si guarda dal mostrarsi allo sprovveduto turista come del resto il bellissimo e ormai rarissimo leopardo delle nevi.Dopo questo approfondimento sulla fauna locale ceniamo e ci corichiamo guardinghi sperando che i nostri sogni non siano popolati da bocche feroci disposte a sbranarci. Per precauzione tengo a portata di mano il coltello che diligentemente Max ha fatto affilare prima della partenza, la vicinanza di un’arma mi aiuta a trovare il sonno.L’indomani mi sento finalmente più in forma, ho quasi recuperato la forma fisica e anche il tempo sembra risentire del mio buon umore e vi dirò che mi è tornata la voglia di fotografare che, oltre all’appetito, mai mi è venuta meno in questi anni di viaggi.Attraversiamo un bel bosco di larici e abeti, qua e là la sottostante pianura è punteggiata dal candore delle gher e dagli animali al pascolo. Ci fermiamo presso una delle tante tende incuriositi dall’operazione che il pastore sta compiendo e alla quale partecipa tutta la famiglia: una capra è stata sgozzata e appesa per lasciare drenare il sangue, così pretende il rito islamico. Tutto avviene in maniera naturale mentre il bimbo lì accanto gioca con le povere zampe dell’animale. E’ un rito antico scevro da crudeli accanimenti, siamo noi occidentali ad aver perso il contatto con la natura e con la saggezza imposta da un’economia di sussistenza.Di fronte alla gher c’è un essicatoio in legno. Siamo invitati a entrare, ci vengono offerte tante cose, accettiamo un pezzo di formaggio per non essere scortesi ma presto ce ne pentiamo perchèci sembra di avere in bocca un sasso tant’è stagionato. Siamo ormai lontani da questa ospitale famiglia ma i nostri tenaci bocconi non li abbiamo ancora deglutiti, forse è una strategia mongola per non badare alla fame !Seguiamo tutto il giorno la costa del Lago Hoton a volte fiancheggiata da estese macchie di fiori acquatici rosa che le conferiscono un aspetto romantico.A sera giungiamo su di un bel prato non distante dal lago e da un torrente dalle acque cristalline.Qui decidiamo di campeggiare. Sono le quattro del pomeriggio, abbiamo ancora luce ed energie sufficienti per sbrigare qualche indispensabile faccenda. Gli alberi attorno accolgono la nostra biancheria messa ad asciugare al sole della sera mentre scorgo Max che stoicamente s’immerge nelle acque gelide del torrente; io scelgo un approccio meno stoico accontentandomi di lavarmi un pezzo per volta. Ho persino il tempo di scrivere qualche pagina del diario e di piazzare la macchina fotografica sul cavalletto per tentare qualche immagine panoramica: mi piace dedicarmi a queste cose e non soltanto dover camminare per ore. Apprezziamo con maggior gusto anche la cena che Natasha sempre prepara con passione e fantasia, considerando le poche cose di cui può disporre.Ora le ombre s’allungano, qui la sera arriva d’improvviso e con essa il freddo.Dopo cena l’unico comune pensiero è quello d’infilarsi nel sacco a pelo e godere del caldo abbraccio del piumino d’oca.Raggiungiamo l’estremità settentrionale del Lago Hoton, il paesaggio è di maestosa bellezza.Ci sono alte montagne innevate sullo sfondo, la nostra carovana segue la sponda del lago di un colore azzurro rosa per l’incredibile fioritura delle piante acquatiche, tutt’attorno ci sono immensi verdi prati e radi abeti. Le uniche vestigia umane sono quelle delle poche famiglie di nomadi che nel periodo estivo trasferiscono le loro gher e mandrie su questi alti pascoli per sfruttare la rigogliosa crescita dell’erba e approvvigionarsene per l’imminente inverno.Ci fermiamo per il pranzo in prossimità di un laghetto che sembra essere stato creato apposta per ospitare una coppia di candidi cigni che ne fendono elegantemente le acque inseguendosi per ogni anfratto. Tutto è pace quassù, la fretta non esiste, la vita è dura ma vera, ogni gesto è misurato e saggio, non c’è tempo di rattristarsi, ce n’è per capire.Arriviamo nel primo pomeriggio presso una caserma che non riesce a incuterci timore costruita com’è di poveri materiali, solo pochi militari presidiano il confine con la Cina, si respira un’aria di tranquillità. Appoggiamo le nostre stanche schiene contro le cataste di legna pronte per il prossimo inverno, dobbiamo attendere il benestare dei militari per varcare il confine del Parco Nazionale di Tavan Bogd. La nostra guida Bota ha commesso un’imperdonabile leggerezza dimenticando i nostri permessi, così deve far appello a tutta la sua dolcezza e sincerità per cercare di convincere le guardie a lasciarci passare. Vengono registrati i nostri documenti per una successiva verifica e dopo un’oretta di attesa vediamo alzarsi di fronte a noi la sbarra che ci consente l’ingresso in paradiso.Ci accampiamo presso un fiume, domani ci attende una tappa lunga e dobbiamo riposare.Perché vi parlo di un Eden ? Beh, devo ammettere che queste montagne hanno il fascino che solo i i luoghi remoti e incontaminati sanno esercitare, parlano il linguaggio dei sogni.Solo in alta montagna nella nostra troppo antropizzata terra si possono provare simili emozioni, in altri luoghi non ci è permesso raggiungere un tale rapimento estatico.L’indomani seguiamo il fiume dalle acque bianche che traccia questa ampia valle rimanendo sulla sua sponda sinistra tra belle foreste di abeti. A volte il sentiero scende a lambire l’acqua, altre volte s’inerpica e fa lavorare i muscoli delle nostre gambe. Giungiamo al Lago Verde reso tale dalle conifere che si specchiano sulle sue acque, è una perla incastonata tra alte montagne. La traccia che seguiamo d’improvviso s’impenna costringendo la comitiva che ci precede a scaricare dal pesante fardello il povero cammello impaurito e incapace di procedere. Ci dicono che è un animale ancora giovane e inesperto, mentre il nostro è un giovanotto talentuoso di dieci anni che, se assistito dalla salute, ne potrà vivere ancora venti rafforzando il suo già incredibile fisico.Sul dorso del nostro possente compagno c’è praticamente tutto, un peso di oltre trecento chili assicurato magistralmente alla sua rocciosa schiena tramite un basto legato alle gobbe. Non avrei mai supposto tanta forza e destrezza in quello che dai più è considerato solo la nave del deserto.Al contrario i cavalli sono scarichi, reggono solo il peso dei cavalieri, due portano i nostri mandriani e il terzo la preziosa cuoca Natasha. Max, Bota ed io avanziamo a piedi con gli zainetti in cui abbiamo messo lo stretto necessario per affrontare il freddo e la pioggia. Finalmente raggiungiamo un posto adatto per campeggiare dopo aver attraversato con difficoltà infiniti pratoni alluvionali ancora inzuppati dalle tante precipitazioni cadute nei mesi scorsi. Ci laviamo in uno dei torrentelli che contribuiscono a ingrossare il fiume, poi finalmente ci rilassiamo.S’avvicina al nostro accampamento un pastore che ha il suo rifugio proprio qui a due passi in un capanno in legno stile Far_West incastonato tra due alberi. Il nostro amico ha un’espressione a dir poco serena, ogni parola che dice è radiosa come il suo sorriso. Ci indica la sua mandria che sta pascolando laggiù presso il fiume e il suo ingegnoso ricovero, il nostro è un dialogo di gesti e sguardi sufficiente a esprimere i pensieri. Dobbiamo congedarci, ci attendono a cena, l’appetito esige di essere soddisfatto. Dopo cena leggerò qualche pagina del libro portato da casa che parla di un viaggio fatto d’inverno in questa sperduta regione della Mongolia.E’ tardi, si fa per dire, in effetti non sono nemmeno le dieci di sera ma la stanchezza del lungo giorno di cammino suggerisce al fisico di riposare. Non credevo che un trekking fosse così impegnativo, ho sempre pensato che la bicicletta fosse più stancante, ora ho molti dubbi a riguardo.Non importa, the show must go on, occorre crederci !Stamane ci svegliamo con la brina sul telo esterno della tenda, fa un freddo cane, i giorni scorsi ha nevicato appena sopra alle nostre teste, continuiamo a seguire il fiume. Bota, la nostra giovane e inesperta guida ha fatto solo una volta e in senso opposto questo sentiero tre anni fa e ci appare a dir poco insicura tanto da non accorgersi della traccia che invita ad abbandonare il greto del fiume per cominciare a guadagnare il pendio. L’errore è commesso e solo dopo parecchio tempo sentiamo voci lontane che c’invitano a correggere i nostri passi: sono quelle della nostra carovana, lassù, appena distinguibile sul crinale. Bisogna farsi forza e cominciare a salire, ci attendono trecento metri di dislivello su di un arduo pendio disseminato di buche e arbusti, che meraviglia !Devo far appello a tutta la mia determinazione, se la guida non fosse quella creatura delicata che conosco giuro che l’avrei quantomeno esautorata !Ricomposto il gruppo torna la serenità. Mi fermo qualche centinaio di metri oltre la nostra carovana, ho bisogno d’inebriarmi della musica del silenzio. Chiudo gli occhi e sento il fragore del fiume, il vento gioca con l’erba accarezzandola, i pensieri nella mia mente scorrono rapidi come nuvole bianche su di un cielo azzurro. La testa è vuota, forse è così che si sfiora la consapevolezza di esistere, ma è un brivido che dura un istante e poi vola via, sfugge come la vita.Pranziamo tutti assieme e poi ripartiamo, la meta non è distante. Arriviamo nel primo pomeriggio in un’ampia vallata percorsa da un bel torrente, luogo ideale per rimettersi in forma dopo le tante energie spese. Non siamo soli, c’è un’altra carovana guidata da Mana, il padre del giovane cavaliere che ci accompagna. Del gruppo fanno parte un ragazzo madrileno e un’inglese. Scambiamo quattro chiacchiere, sono simpatici, seguono il nostro stesso itinerario. Ci salutiamo dicendoci “see you around”, ci vediamo qui attorno…..e dove vuoi andare ?L’altopiano che abbiamo scelto per la notte è a 2500 metri, ideale per affrontare il passo a oltre 3000 metri che affronteremo domani e che ci permetterà di raggiungere l’agognata meta.Scrivo dopo giorni il diario, chiacchiero con Bota, scatto foto, il tempo vola e l’ora di cena giunge in un attimo. La notte trascorre serenamente mostrando al nostro stupore uno spettacolo di stelle:il Piccolo e il Grande Carro con la Stella Polare, la scia argentea della Via Lattea sono così evidenti che sembra di poterli toccare.La mattina successiva è luminosa, non una nube in cielo, l’ideale per scollinare. Il passo non è impossibile per le nostre gambe, quel che sorprende è che provi a superarlo un cammello così affardellato. Solo le foto potranno convincervi della prestazione incredibile di quest’animale !L’altro versante ci regala un paesaggio affascinante fatto di ghiacciai e sfasciumi di rocce, la discesa è piuttosto impegnativa e ci costringe a far attenzione a non scivolare sul terreno franoso.Ora su questo bel prato sembra impossibile aver superato le cime dinnanzi a noi e possiamo finalmente concederci un’ora di tempo per mangiare e rilassarci prima di affrontare di nuovo il cammino verso il campo serale. Incontriamo gher e mandrie, falchi volteggiano sulle nostre teste, alcuni bimbi ci corrono incontro mostrandoci come guadare il fiume. Il più piccolo è in difficoltà e Max se lo prende in braccio, lui ride divertito di questo inatteso passaggio.E’ gente di etnia tuvana, una minoranza russa che vive quassù, progenie temprata e tenace, alcuni hanno chiome incredibilmente bionde.Lo sguardo abbraccia il sottostante fiume che traccia questa amplissima vallata destinata ad accogliere le nostre tende. E’ bello arrivare di buon ora, piazzare armi e bagagli e avere quel minimo di raccoglimento che permette di confidare al diario i propri pensieri.Le giornate qui volano letteralmente, mi sembra che il tempo abbia altri parametri su questo altopiano. E’ vero che percorriamo una media di cinque ore camminando per circa venti chilometri ogni giorno, tuttavia ho il sospetto che qualcuno acceleri le lancette del mio orologio.Le foto, un po’ di diario, due chiacchiere con Max e Bota, visto che con gli altri ci potremmo solo intendere in kazako o in mongolo, e la sera ci piomba addosso inducendoci a cercare i caldi letti di piuma. Mica litighi per il telecomando o guardi se la lavatrice ha finito il suo ciclo per poi stendere,tutto qui ha ritmi diversi, più semplici e sicuramente molto più naturali. E’ nel valorizzare ogni gesto che si scopre il significato di una vita libera, non c’è niente di superfluo, tutto assume un significato preciso. Anche i pensieri hanno una diversa levità, scorrono liberi lasciando la mente più attenta a cogliere ciò che si nasconde dietro le apparenze, non c’è spazio per le illusioni.Non mi rimane che abbandonarmi al mondo di Morfeo, spero che i sogni m’intrattengano piacevolmente questa notte.Un’altra spettacolare giornata ci attende, all’alba la nostra giovane e instancabile Natasha è già all’opera. Saggiamente, come ogni mattina, ha già preparato la colazione e il pranzo per tuttiproteggendolo dentro contenitori di plastica. Le abluzioni sono sommariamente compiute nella corrente del vicino fiume, l’acqua gelida sul viso ci ricorda che sta iniziando un nuovo giorno pieno di sole e di natura da godere. Stamane, dopo una mezz’ora di cammino, siamo già fermi perché abbiamo davanti agli occhi niente meno che dei petroglifi, ovvero incisioni rupestri risalenti a cinquemila anni fa, all’Età del Bronzo. Sono raffigurazioni di cavalli, cervi, argali, stambecchi e tantissimi altri animali eseguite con buona tecnica. E’ commovente vedere scene di caccia, uomini di tremila anni prima di Cristo che tendono i loro archi nella speranza di procacciarsi il cibo.E’ un museo all’aria aperta. Alzo lo sguardo sull’ampia valle che ospita questi preziosi reperti e cerco d’immaginare come doveva essere allora la vita, apparentemente semplice ma di fatto estremamente dura. Scatto molte foto, spero restituiscano il valore di questi antichi disegni.Superato il colle dinnanzi a noi ci appare in tutto il suo splendore il tesoro che abbiamo atteso in tutti questi giorni: le vette del Tavan Bogd, i cosiddetti Cinque Santi, splendono al sole.Questi giganti di oltre 4000 metri segnano il confine tra Mongolia, Russia e Cina. La traduzione dei loro nomi è suggestiva, Cima Fredda, Sole, Culla, Aquila e Amicizia.Il tempo sembra reggere, il sole brilla alto nel cielo, le cime e i ghiacciai esercitano un fascino irresistibile nelle nostre menti, forse domani o il giorno successivo ne violeremo una per scorgere da lassù la vastità di questa terra. Pranziamo a sacco come sempre e poi cerchiamo di rubare con i nostri binocoli i segreti delle nevi e dei fiumi che da esse hanno origine. Presto lungo il cammino dobbiamo affrontare una difficoltà imprevista, un ostacolo apparentemente insuperabile, un corso d’acqua bianco e impetuoso che ci separa dalla terra su cui pianteremo le tende.Il cammello osa per primo guidato dal suo cavaliere, è un carrarmato che fende le acque con incredibile sicurezza. Ora è la volta di Max, poi toccherà a me e a Bota, la nostra giovane mamma.Il cavaliere che ci affianca ci suggerisce di stringere forte i talloni contro il ventre del nostro animale, d’incitarlo con la voce e soprattutto di non guardare l’acqua perché potrebbe indurre capogiri e disorientamento. Così il nostro sguardo mira l’altra sponda anche se la corrente impetuosa e lattiginosa che lambisce le pancia del cavallo non è facile da ignorare ! Uno alla volta siamo scortati dal nostro fiero Caronte, al secolo Uanbic.Sono solo le due del pomeriggio e già stiamo montando la tenda, abbiamo finalmente un lungo pomeriggio di relax, di chiacchiere, di confidenze al diario e di fotografie.La notte infine ci regala un sonno profondo e sogni rilassanti.La sveglia è suggerita come sempre dalla calda luce che già verso le sei e mezzo invade il nostro piccolo rifugio. Ora ci attendono le solite incombenze mattutine: si ripongono le cose negli zaini, s’arrotolano i sacchi a pelo e i materassini e infine la tenda viene ripiegata e infilata nell’apposita sacca.Toilette mongola e abluzioni acrobatiche completano il quadro, i servizi qui non sono mai occupati!La colazione ci attende sotto il tendone cucina dove fervono da tempo i lavori condotti con la solitasolerzia dalla nostra Natasha, i nostri cavalieri stanno sistemando le selle sul dorso dei cavalli e il basto tra le gobbe del nostro valoroso cammello. Dovreste vedere la montagna di roba che viene legata a questo eroico animale, compresa la stufa completa di camino che gli conferisce un aspetto poco dignitoso.La fanteria è già in marcia, in testa è sempre Max, seguono Bota ed io, ci copre le spalle la cavalleria con Natasha, Aibic e Uanbic. Devo subire come ogni mattina il supplizio di Prometeo,non sono incatenato alla roccia e non è un’aquila a riaprirmi la ferita, sono gli scarponi che m’infliggono un dolore alle caviglie a volte difficile da sopportare. L’errore è tutto mio e la pena pure. Ho voluto calzare solette interne che solitamente utilizzo nelle scarpe per correre ma la scelta si è rivelata sbagliata e, una volta tolte, il danno era già fatto !Pazienza, imparerò da questo errore, ne sono certo ! Max procede spedito davanti a me, è granitico, non batte ciglio, sembra che abbia ingranaggi anziché ossa e muscoli. Bota, la nostra sedicente guida, continua ad avere idee molto confuse riguardo ai sentieri da scegliere, più che lei a guidare noi sembra il contrario. E’ però una donna tosta, una vera mongolo-kazaka, non ammette mai di essere stanca, solo il respiro affannato e lo sguardo tradiscono il suo stato. Non si può non volerle bene.Oggi raggiungeremo la meta finale del nostro trekking, le vette dei Cinque Santi e il ghiacciaio Potaniin che ricopre per quasi venti chilometri questa valle. Alla testa della morena nasce un fiume dalle acque bianche rese tali dal dilavamento delle rocce circostanti che contengono un particolare minerale. Noi fanti seguiamo il percorso vicino al fiume mentre i cavalieri seguono un’altra traccia.Una montagna ci separa, speriamo non per sempre ! D’un tratto Uanbic ci scorge dall’alto e affronta il pendio con grande destrezza grazie al suo agile cavallo, nelle bisacce di cuoio a fianco della sella ci sono le scatole con il nostro pranzo. Ci riposiamo una mezz’oretta al sole godendo del bellissimo panorama fatto di ampi pascoli, fiumi e cime innevate, poi proseguiamo per il campo base ma siamo colti da una bufera di vento e ghiaccio che ci costringe a indossare tutti gli abiti impermeabili che custodiamo negli zaini oltre a guanti invernali e passamontagna. Siamo appena oltre i tremila metri e la temperatura può abbassarsi senza preavviso. Scorgo uno scoiattolino che si è rifugiato in un piccolo avvallamento del terreno e mi guarda tremante…..che tenerezza ! La natura è spietata, chissà cosa ne sarà di lui. Arriviamo al campo base, ci sono vari gruppi di tende, le due arancioni appartengono a un gruppo d’italiani che vengono da Genova, tre donne e un uomo.Sono appena le tre del pomeriggio, c’infiliamo nei sacchi di piumino e cerchiamo di dormire un po’ sperando che la perturbazione si plachi, così in un attimo si fanno le sette di sera e Natasha chiama per la cena. Nevica, la tenda cucina ospita i nostri cavalieri e alcuni loro amici kazaki che stanno facendo da guida ai vari gruppi accampati di fianco al ghiacciaio. E’ bello stare tutti assieme sotto questo telo a gustare una zuppa calda di carne e verdura. Dopo cena ci recano visita le due donne genovesi che abbiamo scorto poc’anzi. L’accento tradisce le loro origini, scambiamo impressioni di viaggio sorseggiando tè e sgranocchiando arachidi salate. Le nostre amiche vantano un palmares davvero notevole fatto di viaggi e sfide, ci suggeriscono di percorrere un ghiacciaio di ottanta chilometri in Kyrgyzstan che offre scenari spettacolari. Max parla dei suoi innumerevoli treks in Nepal, Tajikistan, Ladakh e altre regioni dell’India oltre a quelli europei.Io ho alle spalle viaggi compiuti in bici, dal Madagascar all’Alaska, dalle Rocky Mountains in British Columbia ai 5600 metri del passo carrozzabile più alto del mondo in Ladakh.Gli argomenti di conversazione non mancano, diamo un’occhiata all’orologio, è incredibilmente tardi, sono le 22, roba da matti ! Una forte stretta di mano e poi tutti in tenda per cercare un sonno che a questa quota però tarda ad arrivare. I sacchi di piumino faticano a trattenere il calore dei nostri corpi mentre “fuori piove un mondo freddo” di ghiaccio e neve come recita Paolo Conte.Con giacca di piumino, calzamaglia, passamontagna e due paia di calze non riesco ancora a scaldarmi, stringo persino i lacci del sacco attorno al collo per intrappolare il calore.Massimo mi fa compagnia parlandomi dei treks compiuti in Irlanda, Galles e Scozia come solo lui sa fare, con entusiasmo e dovizia di particolari. Così tra Connemara, Isole Aran, Snowdonia e Munro riusciamo a prendere sonno senza forse augurarci la buonanotte.L’indomani si presenta nuvoloso e i nostri progetti di scalare il Malchin, il 4000 metri non lontano dal campo base, stanno svanendo. Facciamo una colazione abbondante nella tenda mensa chiacchierando con le nostre guide dell’inutilità di salire con un tempo così incerto. Approfitto di questa sosta forzata per aggiornare il diario, sorseggiando tè e caffè in polvere. Max fuma la pipa e guarda gli scoiattolini contendersi i biscotti che offriamo loro.Mi piace questa situazione di stallo, lascia il tempo alle nostre anime di raggiungerci, chissà quanto indietro erano rimaste. Fa freddo, abbiamo voglia di muoverci e così decidiamo di fare due passi per scaldare le membra intorpidite prima di pranzo. Risaliamo la morena fino a quota 3150, un’oretta tra andata e ritorno. Nonostante il clima uggioso e le incombenti nuvole lo spettacolo è garantito.Il ghiacciaio è macchiato qua e là dalla luce che riesce a forare la coltre grigia del cielo apparendo ancora più drammatico, sembra una tela di Turner. Che immensità, diverse lingue di ghiaccio convergono in una sola alimentando questo mare dai toni foschi che incute timore e rispetto.Nessuno di noi ha velleità di conquista, ci accontentiamo di godere dell’incanto di tale natura incontaminata. Apprezzo questa giornata apparentemente noiosa spesa al campo base a circa tremila metri, leggo, scrivo, mangio e chiacchiero con genti diverse, australiani che ritornano a casa con equipaggiamenti incredibili dopo un tentativo non riuscito di ascensione e un paio di altoatesini che ce la mettono tutta per esprimersi in un italiano comprensibile. A proposito di questi ultimi, stasera li abbiamo invitati a cena, sono talmente parsimoniosi da avere qualche scatoletta e poco altro.Abbiamo chiesto loro una bottiglia di Gewurz Traminer, hanno risposto con una risata che li ha tolti dall’imbarazzo. Mancano ancora un paio di settimane per riassaggiare penne all’arrabbiata e gustare un calice del famoso prosecco dell’amico Meuccio, è un rito che abitualmente conclude i nostri viaggi e alimenta interessanti idee per future avventure, complice l’euforia del momento !Ora tutti si sono diretti a piedi verso la morena laterale del ghiacciaio, io ho scelto di rilassarmi qui, seduto su di un sasso a godere del poco sole che questa giornata ci sta regalando. Saggezza o stanchezza, forse un tempo non avrei nemmeno pensato di poter rimanere !Il cielo si sta sempre più scurendo, Max e Bota sono appena rientrati con gli zaini imbiancati dalla neve, si preannuncia una serata gelida. Christian, il nostro amico altoatesino, non ascolta consigli e a metà salita decide di proseguire per la vetta del Malchin a oltre 4000 metri nonostante il tempo.Per tutti noi è una pazzia considerando le condizioni metereologiche e la poca luce che ancora la sera concede. Siamo tutti stretti uno accanto all’altro nella tenda mensa, fuori nevica e tira vento,sono le otto e stiamo cenando imbacuccati come se fossimo su di una pista da sci.Per fortuna la burrasca sembra concedere una tregua, ma la preoccupazione per il nostro compagno è palpabile. Sono le nove e sta calando la notte, uno dei nostri cavalieri sta dirigendosi verso il ghiacciaio con una pila per portare qualche coperta allo sprovveduto alpinista, speriamo non accada nulla di grave. All’improvviso il nostro desaparasido ci sfila dinnanzi ancora carico di adrenalina, gli diciamo che ci ha fatto preoccupare il saperlo là fuori in quell’inferno. Si scusa, dice di essere stato cosciente della situazione ma non convince nessuno: appare evidente la sua mancanza di attrezzatura per fronteggiare quell’improvviso ma prevedibile freddo.La nostra instancabile cuoca Natasha gli sta scaldando un buon minestrone di verdure, nel frattempogli chiediamo se ha avuto paura. La neve fioccava così tanto a quell’altezza che Christian ha faticato a riconoscere persino il suo zaino lasciato qualche centinaio di metri più sotto.Ci mancava poi il tappo dell’obiettivo della sua gigantesca fotocamera formato 6x7 lasciato sulla vetta e poi ritrovato per costringerlo a tardare il rientro di una trentina di minuti. La cosa che più mi preoccupava erano le sue calzature, un paio di scarpe da ginnastica che nessuno con un po’ di senno consiglierebbe per un’ascensione anche relativamente facile. E’ vero che a indossarle è un sessantenne professore di educazione fisica, ma proprio non era necessario dimostrarcelo a quel modo ! Allentata la tensione ritorna la serenità nel gruppo e ce ne andiamo tutti a nanna confidando nelle proprietà termiche dei nostri sacchi di piuma. Ci vuole più di un’ora per raggiungere quel sufficiente tepore che concili il sonno, là fuori la notte è lunga e gelida e non dà scampo a chi non si è trovato un rifugio: “Death has no mercy in this land”, la morte non ha pietà su queste terre, mi torna in mente il titolo di una vecchia canzone dei Grateful Dead.L’alba giunge in punta di piedi, un silenzio impressionante è calato su uomini e cose.C’infiliamo le braghe e le giacche impermeabili per dare un’occhiata e con nostro stupore siamo circondati da un manto bianco che copre ogni forma, unica eccezione gli animali, presenze irrealisu questa tavolozza monocromatica. Il primo pensiero è quello d’immortalare questo incantesimo regalatoci dal cielo, così le sensazioni rimarranno patrimonio del nostro fugace transito.Il sole per un attimo illumina le vette sopra la nostra piccola tenda, più sotto regnano i toni grigi e il silenzio dei ghiacci eterni, è un’emozione forte come questo risveglio in alta quota.Occorre essere pratici, così riponiamo ogni cosa e rimuoviamo lo spesso strato di neve scuotendo il telo esterno della tenda. La colazione è pronta, dobbiamo accumulare calorie poichè ci attendono quattro o cinque ore di discesa fino al campo precedente sul fiume. Il nostro ritmo è veloce, sentiamo il calore pervadere il corpo, il morale è alto grazie alla magia di questo bianco incantesimo che rende ogni cosa irreale. Il vero inverno, quello dei -40° e addirittura -60° C deve ancora giungere. Ci fermiamo per pranzare a sacco, il fiume è sotto di noi, occorre ancora un’ora per raggiungerlo e accamparci. Piantiamo la tenda appena in tempo per evitare l’ennesima bufera di neve, neanche scendendo di settecento metri abbiamo tregua, ci attende un’altra gelida notte.Max si è infilato nel sacco a pelo, io sono nel tendone cucina imbacuccato come non mai, le mani in tasca e un libro appoggiato sul tavolo di fronte a me. Il fiato si condensa a ogni respiro, fa freddo.Inattesi interrompono la mia lettura un ragazzo francese trapiantato in Svizzera e una ragazza inglese dello Yorkshire. Non si conoscono ma hanno istintivamente varcato la soglia del mio piccolo rifugio confidando nella proverbiale ospitalità mongola. Gelidi spifferi accompagnano il nostro dialogo, penso al caldo che farà in Italia e realizzo d’essere approdato davvero in un altro mondo, diverso ma non meno affascinante. Parlo a lungo del nostro viaggio e dei giorni a venire che ci vedranno attraversare l’infinita distesa del Gobi.I nostri ospiti hanno raggiunto il campo sul van condotto dall’autista che ha l’incarico di ricondurci a Olgyi, la capitale di questa remota aimag occidentale. Tutto è ottimizzato su questa severa terra che nulla regala. Ecco farcisi incontro il nostro Caronte, un omaccione che si spaccia per electric o forse intendeva electronic engineer, glielo concediamo visto che nessuno di noi può interloquire in russo o in kazako. Si è portato pure il figlio, un ragazzino di quattordici anni che sembra avere la stessa grinta del padre. Domani si parte tutti assieme, ci siamo raffreddati a sufficienza !Con Max facciamo un bilancio del trek: più di duecento chilometri percorsi in un ambiente splendido sperimentando tutti i climi, soprattutto quelli favorevoli, apprezzando pure l’inatteso epilogo sotto la neve che ci ha regalato un assaggio di vera Mongolia.E’ andato tutto bene, ci riteniamo ampiamente soddisfatti, vorremmo però raggiungere temperature più miti per capire che l’estate non è ancora finita.L’indomani ci rimettiamo in marcia congedandoci dai prodi cavalieri che hanno accompagnato per giorni il nostro lento incedere, non c’è tempo per la commozione, chissà mai se ci rincontreremo.Regaliamo loro qualche indumento confidando di ritornare a temperature più miti.Dopo avere aiutato la turista inglese ad attraversare il fiume imbocchiamo la pista che ci ricondurrà alla cittadina da cui siamo partiti una decina di giorni orsono, abbiamo tanti chilometri dinnanzi, non arriveremo prima di sera. L’altopiano si mantiene oltre i duemila metri, c’è tanta neve ovunque, la perturbazione dei giorni scorsi era decisamente estesa. Ci fermiamo per vedere le famose aquile kazake, una è appollaiata su di un masso a due passi da una gher. Il nostro autista si fa dare un guanto di cuoio per mostrarci tutta la sua abilità nel maneggiare questo imponente rapace, non dev’essere semplice entrare nelle grazie di quest’esemplare dai quasi tre metri di apertura alare ! La scena è resa ancora più suggestiva dalla neve che continua a cadere accompagnata da raffiche di vento gelido. Ripartiamo e poco dopo il nostro driver ci comunica di avere un serio problema al motore dopo aver compiuto una pericolosa discesa fino a fermare il van in prossimità di un fiume. Non capiamo, cerchiamo di chiedere lumi a Bota ma lei ne sa meno di noi, dice solo che tutto si risolverà. Gli unici preoccupati siamo io e Max, del resto non siamo mongoli ! Regna ovunque silenzio e tranquillità, la scena ha dell’irreale, i nostri compagni stanno imbandendo il tavolino da campeggio sulla distesa innevata, l’autista accende il fuoco per la griglia. Proprio non riusciamo a credere ai nostri occhi, e il guasto all’auto?Non ci diamo pace, la nostra razionalità tutta occidentale non si rassegna a questa precaria situazione. La soluzione si materializza dopo circa un’ora sotto forma di un van che viaggia in direzione opposta, il nostro autista guadagna a piedi la salita che lo separa dalla pista facendo gesti eloquenti al conduttore del veicolo che poco dopo si ferma: è un suo amico kazako che il destino sembra averci mandato in soccorso ! Lo invitano al nostro tavolo, la carne grigliata restituisce a tutti il buon umore tranne che a Max che, nonostante l’abitudine ad avere un atteggiamento tendenzialmente positivo, questa volta proprio non ha gradito questa sufficienza nel gestire la situazione e soprattutto nel non dare alcuna informazione.Trasferiamo i nostri bagagli sul nuovo furgone lasciando il nostro van vicino a una gher, siamo salvi. I due autisti però non si rassegnano ad abbandonare il mezzo e sommano le loro capacità riuscendo in breve tempo a riavviare il motore e costringendoci a un nuovo trasbordo.Rinunciamo a capire, l’importante è essere ancora in viaggio tanto più che il tempo sembra volgere al meglio. Il paesaggio è bellissimo e finalmente i colori s’accendono con la luce del sole: la neve acceca, il verde dei prati più a valle è punteggiato di migliaia di animali al pascolo, l’azzurro dei laghi e il fragore dell’acqua d’innumerevoli torrenti completano la scena.Una madre ci prega di dare un passaggio al figlio che si è incamminato lungo la pista per raggiungere il villaggio a qualche ora di distanza; ci ringrazia anticipatamente e di cuore per la cortesia. Presto affianchiamo il ragazzino offrendogli un passaggio: avrà una dozzina d’anni, il colore della sua pelle è lo stesso della strada dinnanzi a noi.Più si fa sera e più la luce radente rende evidenti i picchi rocciosi le cui ombre ormai invadono gli immensi prati di contorni magici. Spesso faccio fermare il van per cogliere questi disegni di luce con il mio obiettivo, sono affascinato da tanta bellezza. Sta tramontando il sole in un trionfo di azzurri e aranci, le nubi rendono ancor più drammatica la fine della giornata.Siamo scesi di quota, anche l’aria mite ce lo conferma. Presto ci godremo una cena dignitosa al ristorante di Canat, l’organizzatore del nostro trek, poi seguirà un meritato riposo in gher su veri letti, un lusso da Grand Hotel dopo undici notti di tenda ! L’acqua delle docce è fredda, dovremo aspettare domattina per acquisire un aspetto più decoroso, abbiamo cercato di mantenerci dignitosamente puliti in questi giorni sfruttando i corsi dei fiumi in cui c’imbattevamo.L’indomani riusciamo anche a lavare i nostri indumenti lasciandoli poi asciugare al caldo del già convincente sole della mattina. Abbiamo deciso di dedicare un po’ di tempo alla visita del capoluogo di questa Aimag, Olgii, una cittadina di circa trentamila abitanti quasi tutti kazaki di fede islamica. Bota ci porta a visitare il museo, piccolo ma carino, che ospita flora e fauna locali oltre a testimonianze storiche che esaltano il trionfalismo sovietico e a una collezione di armi, costumi e utensili. Pranziamo alla nostra guest house e nel pomeriggio raggiungiamo la casa della nostra guida per vedere il suo piccolo gioiello, la figlioletta di appena un anno.Max ha sulle spalle un orso rosa gigantesco con una scritta che recita “ Love” mentre io porto in dono alla madre un bollitore per il riso comprato in un bazar qui accanto. Siamo accolti con grandi ringraziamenti, la mamma di Bota è veramente contenta di rivedere la figlia dopo tanti giorni.Viviamo per poco tempo l’intimità di questa modesta casa intuendo il semplice modo di vivere dei suoi abitanti; Max si fa prestare filo e ago per aggiustare i pantaloni strappati, io sfoglio con Bota l’album che custodisce le foto di famiglia, mi commuovono le immagini delle sue nozze.Il marito, un bel ragazzo moro non ancora trentenne ora non c’è più, ha lasciato nella disperazione chi lo amava. Cerchiamo tutti consolazione negli occhi della piccola, è il futuro del mondo.E’ bello fotografarla tra le braccia della mamma e della nonna, tiene il broncio perché non ha ancora perdonato l’assenza prolungata al genitore e cerca in tutti i modi di sottrarsi ai suoi baci, è la sua piccola vendetta. Mangiamo qualche dolcetto in cucina sorseggiando tè e poi ci congediamo, è già sera. Il tempo vola, la giornata ci è sfilata innanzi senza farsene accorgere. Abbiamo promesso a Natasha e a Bota di portarle al ristorante turco, the best in town. Max è un esperto di questa gastronomia e ci guida nella scelta: Tzatziki, Adanakebab, Kofte, insalata di patate e airan, una crema di yoghurt. Tutto buono, manca solo il vino, siamo tra genti musulmane, non possiamo pretenderlo. Ci rifaremo alla guest house dove ci attende un sorso di vodka, ci è permesso dopo due settimane di astinenza da ogni tipo di bevanda alcolica ! Salutiamo le nostre amiche, domani comincia un’altra avventura verso sud-est, una guida di dieci giorni attraverso le montagne del Gobi e poi il vero e proprio deserto. Dobbiamo girare pagina.Del resto è prerogativa della vita nomade adattarsi rapidamente a una situazione per poi altrettanto facilmente dimenticarsene per incontrare nuove genti.E’ l’ultima notte in gher , ci attendono giorni in auto, notti in tenda e pasti frugali.RIENTRO DAL GOBIAbbiamo gli zaini pronti da ore, pranziamo e attendiamo fino alle quindici e trenta la partenza, per fortuna ci hanno cambiato mezzo e autista, il primo non era affidabile, il secondo beveva troppo.Viaggeremo su di una robusta jeep sovietica con un driver che dicono esperto e un presunto cuocoche altro non è che un ragazzone dall’aria sana la cui principale credenziale è l’essere moroso della figlia del boss, il già citato Canat. Il mezzo è davvero stracolmo, tutto è pronto, il viaggio di ritorno può iniziare. Ci attendono duecentocinquanta chilometri in un paesaggio di vette innevate.Arriviamo verso le ventuno, è già notte, confidiamo in una sistemazione in gher ma dobbiamo ricrederci, ci attende un campeggio, e così ci portano sul greto di un fiume alla periferia di una cittadina. Max è furibondo, dice al cuoco di scordarsi di prendere l’acqua dal fiume per la cena perché potrebbe essere inquinata e così ci dirigiamo verso un’abitazione chiedendo ai residenti il permesso di riempire una tanica con l’acqua del pozzo. Mentre attendiamo in strada un’auto ci viene incontro suonando il clacson e sbandando, l’autista è senz’altro ubriaco e struscia la sua fiancata contro la nostra ma ha la peggio: il nostro mezzo resiste stoicamente, sembra fatto di acciaio balistico, l’altra auto accusa il colpo ma non si ferma, accelera e scompare. Rimane ora da trovare uno spiazzo per le tende, saliamo leggermente lasciandoci alle spalle il paese e giungiamo su di un terreno sabbioso. E’ buio e solo i fari della jeep ci consentono di montare palerie e teli.Ceniamo sull’auto, siamo visibilmente contrariati ma dobbiamo portar pazienza, non possiamo iniziare questa lunga trasferta litigando, la notte porterà consiglio a tutti, almeno si spera. Dormiremo bene, il terreno è soffice e le spesse coperte che abbiamo steso sul fondo della tenda lo rendono ancora più confortevole; anche la temperatura è mite, siamo a soli 1400 metri.Rivolgo lo sguardo al cielo e scorgo una scia luminosa, è una stella cadente la cui luce si staglia con magia su questo sfondo perfettamente nero: sono fortunato, esprimo il desiderio che il tenger, l’infinito cielo mongolo, protegga tutte le creature che abitano sotto di esso e non si dimentichi di noi.In un attimo è già mattino, della notte nessuna traccia, è trascorsa in un sonno profondo.Oggi i nostri animi sono più disposti ad accettare la precaria organizzazione del viaggio. Forse è tale per il nostro standard, per quello mongolo è perfetta, chi avrà ragione ? Le nostre aspettative di occidentali sono regolarmente disattese e ogni inconveniente crea disarmonia nel gruppo.L’alba però vede migliorare l’affiatamento con i compagni di viaggio, vedo Max intento ad aiutare Ax, il cuoco, a sistemare l’attrezzatura sulla jeep, lo scoramento di ieri sera è svanito.Io sono intento a scrivere il diario dopo tre giorni di silenzio, non posso lasciar passare altro tempo, le sensazioni vanno subito fissate perché non svaniscano nel labirinto dei ricordi.Partiamo ma subito vi è una sosta per rifornire benzina e cibo, eravamo abituati a far conto sulle nostre gambe e sulle derrate portate stoicamente dal nostro eroico cammello !Presto siamo di nuovo on the road : la pista è ampia e Ardac, il nostro chauffeur, così lo chiama l’amico cuoco Ax, sembra esperto nell’impostare la giusta velocità per non sentire le innumerevoli ondulazioni dello sterrato e nemmeno rompere le sospensioni procedendo troppo speditamente.Pranziamo in uno scenario metafisico, sembriamo figure di un quadro di Dalì, un’improbabile tavola è apparecchiata in mezzo a una piana infinita circondata da montagne innevate. Ci sono solo arbusti attorno a noi, indispensabili per tenere legato il terreno che altrimenti si polverizzerebbe rendendo invivibile questo predeserto. Sto sorseggiando un Nescafè mentre Max fuma tabacco kirghiso da una delle tre pipe che si è portato per il viaggio; mi piace questo aroma che si diffonde tutt’attorno che contribuisce a tenere lontano le fastidiose zanzare. Dimenticavo, oggi è ferragosto e abbiamo già pranzato, in Italia sono le otto e mezzo del mattino e la gente si affollerà a breve nei ristoranti. Più tardi, dopo cena, dedicheremo un brindisi con vodka ai nostri amici lontani riunitichissà dove a tavola a gozzovigliare !Riprendiamo il viaggio, ci sono interminabili piste davanti a noi, è un paesaggio che non ha né inizio né fine, nulla è dietro e nulla è innanzi, i colori si alternano dal verde al giallo, dall’ocra all’azzurro.A sera giungiamo su di una rada prateria, un deserto arbustivo uguale a tanti altri incontrati prima.Allestiamo il campo per questa notte, l’organizzazione sta decisamente migliorando: Max ed io piantiamo le tende, Ardac e l’apprendista cuoco Ax preparano la cena.Ho tempo di terminare la lettura del libro comprato in Italia su quella parte della Mongolia che stiamo percorrendo: è il resoconto del viaggio di due amici, uno italiano e l’altro mongolo, compiuto d’inverno in auto su questo innevato altopiano da Ulaanbaatar sino alle estreme propaggini occidentali. Mi è piaciuto, l’ho trovato avvincente e a tratti poetico.Scrivo anche qualche pagina del mio prezioso diario, ho appena assistito al tramonto con la sua tavolozza di aranci, rossi, rosa e azzurri: che incanto, non posso trattenermi dallo scattare qualche foto per illudermi di fermare questi attimi. La cena ci attende, il gruppo ora sembra ben rodato, l
Siamo stati in Mongolia.Davide la sognava da tanto e mi ha soggiogata questa sua buffa passione nata tra le note e le parole dei C.S.I. e coltivata negli anni, senza pretese ma con più determinazione di quanto mai si sarebbe detto. Ce lo siamo regalato per il matrimonio, che chissà quando mai ti capita di nuovo un’occasione c osì. Siamo partiti stanchissimi e storditi.Il viaggio è stato proprio molto bello, inaspettato, liberante. Paesaggi incredibili estesi a perdita d’occhio, tempi lunghi e dilatati, quello che ci voleva per staccare da tutto, dall’orizzonte conosciuto, dalla frenesia degli ultimi giorni prima delle nozze, dall’ansia di dover fare fare fare fare in tempo. Abbiamo amato molto il non conosciuto perché ci ha consentito di non poterci fare alcuna aspettativa, e questo ci ha permesso di vivere tutto con uno stupore e una curiosità in cui non speravamo. Abbiamo amato molto i cambi programma e direzione, i contrattempi, gli ostacoli, che anche se lì per lì davano sui nervi e mettevano alla prova il nostro efficientista senso del tempo (è pur sempre denaro) in realtà hanno reso il viaggio forse un po’ meno finto e a misura di turista di quanto – un po’ per obbligo, un po’ perché tant’è anche ai globetrotter radicalchic (o a chi vorrebbe esserlo, come noi) una doccia in albergo, una sosta significativa, un souvenir tipico schifo non fanno – debba essere. Abbiamo amato la varietà inaspettata della steppa, il caldo secco del sole sulle dune e la luce al tramonto che ne inventava ed allungava le ombre e accentuava il contrasto del colore della sabbia con quello degli arbusti. Abbiamo amato l’acqua, in tutte le forme nella quale l’abbiamo incontrata: la cascata di Orkhon che scompare in un canyon, e disseta tutta la pianura e i cavalli; la buffa e puntuale pioggia ves pertina di Ulaanbaatar, davanti alla quale né le automobili né le giovani mongole si scomponevano minimamente e proseguivano leste (le ragazze anche eleganti – le auto un po’ meno) per la loro strada, mentre noi arrancavamo ridacchiando nelle pozze che subito si formavano per strada; i corsi d’acqua che formavano pantani verdissimi e morbidi, e che dall’alto di una collina correvano argentati su tutta la piana sottostante; l’acqua fresca e ben poco filtrata che proveniva da un pozzo costruito con copertoni di auto e che ci offrì tutta contenta Tonga, una bimba nomade lercia, allegra, sgamata e molesta con cui abbiamo passato un insolito pomeriggio di giochi mentre gli uomini della sua famiglia sorvegliavano le capre (seduti fuori dalla tenda) e le donne sbrigavano tutte le faccende domestiche (mai sedute un attimo dentro la tenda).Abbiamo chiacchierato a lungo con la nostra giovane guida Uugane, e un po’ meno con Davka l’autista, rude, introverso e cocciuto. Abbiamo conosciuto missionari della Consolata ad Arvaikheer e anche a Ulaanbaatar, e condiviso con loro la Messa, la cena, le gioie ed i dolori della loro attività, del loro amore per questo Paese a volte un po’ difficile o faticoso, per chiunque lo abiti.Abbiamo amato quasi sempre anche il vento. Lui di meno di notte, quando eravamo in tenda. A me piaceva anche in quel contesto. Spazzava via pensieri, nuvole e fatiche. Portava odori.Abbiamo mangiato la carne più buona della terra, yogurt di capra essiccato al sole e una pasta fresca cotta al vapore dello stufato che dobbiamo assolutamente imparare a fare, adesso. Abbiamo visto ogni tipo di animali, dagli avvoltoi ai cammelli battriani, dai cavallini a quegli strani piccoli rettili che si confondevano con il colore della steppa, da toponi di ogni forma e dimensione ad aquile e falchi nella Valle delle Aquile. Abbiamo dormito nel letto del fiume Ongii dopo aver appreso con dolore che si era prosc iugato a causa dello sfruttamento intensivo di una miniera d’oro nelle vicinanze e dopo aver visitato le rovine dei templi alle otto di sera, abbiamo assistito a varie funzioni lamaiste e girato per Erdene Zuu, e cercato di capire qualcosa della storia del buddismo in questo paese, del suo presente e delle sue espressioni. Senza molto successo. Abbiamo deciso che se anche non avessimo capito tutto andava bene lo stesso. Abbiamo ammirato la piazza Sukhbaatar nonostante il traffico sconcertante, abbiamo conosciuto un giovane calligrafo che ha fissato nel modo più bello uno dei ricordi più belli che volessimo riportarci a casa, mentre raccontava della realtà artistica contemporanea del suo Paese, giovani bravi e intraprendenti, un fermento di idee e inchiostro. Ci siamo commossi e addolorati al Museo delle vittime dell’oppressione politica e ci siamo sempre più convinti che a volte è proprio difficile.Ce la siamo guardata per bene correndo verso l’aeroporto, e ci siamo accorti che era grandissima.Troppo bella la Mongolia.
Il viaggio è stato magnifico; la Mongolia, ma soprattutto la sua gente, ci è entrata nel cuore. Ancora oggi, quando ne parliamo agli amici, ci sono aspetti del tempo trascorso tra steppe e nomadi che ci emozionano a tal punto da non riuscire a renderli come vorremmo. Soprattutto è difficile descrivere la sensazione di libertà che dà quel paese... e la rudezza delle persone che nasconde una grandissima"gentilezza d'animo". E i sorrisi dei bambini, e le rughe dei pastori che a cavallo raccolgono cinquecento pecore. E il blu dei cieli...
La Mongolia è un paese che ti entra dentro e piano piano ti conquista senza che tu te ne accorga.Appena fuori da Ulaan Baatar, la capitale, ci si ritrova in un territorio immenso e senza limiti, senza recinzioni, muri, steccati, confini; si assapora una sensazione di libertà che inebria e stupisce: è veramente sorprendente che al mondo esistano ancora dei posti così!Il cielo: in pochi altri luoghi sulla terra esiste un cielo così immenso, limpido e blu.I mongoli sono un popolo di un ospitalità commovente; pensate se arrivasse a casa vostradella gente con facce e vestiti "strani", li fareste entrare? Offrireste loro da bere e da mangiare?I mongoli sì, per loro l'ospite è sacro ed offrono con generosità quel poco che hanno.
NOMADIZZIAMOCI! UNA PROPOSTA ECOCOMPATIBILEGirare tanto per il mondo, come è successo a me, ha i suoi vantaggi ma se uno ha un minimo di sensibilità non riesce a uscire indenne dall’angoscia che ti procura vedere un mondo che va velocemente all’esaurimento delle proprie risorse energetiche. Modelli di vita diversi da quelli “moderni”, che hanno resistito indenni a secoli di cambiamenti ora diventano obsoleti, tutti corrono ad inurbarsi, tutti vogliono partecipare alla grande giostra dello sviluppo che ormai sviluppo vero, originale veramente utile non è più.Come sempre chi ha goduto prima di certi privilegi ha per primo la consapevolezza di quegli stessi privilegi e del fatto che lo sviluppo dovrà essere ecocompatibile o non sarà.A questo proposito l’ultimo viaggio che ho fatto in Mongolia mi ha fatto toccare con mano un modo di vivere perduto: il nomadismo.Il fatto di non permanere in un luogo, di non coltivarlo di non possederlo ti rende libero.Il fatto di portarti dietro la tua casa e le tue cose seguendo gli animali che si spostano sul territorio ti fa essere pienamente umano. Questo succede nella tundra mongola ma anche nei deserti per i Tuareg, nelle steppe per i Sami, nelle praterie per gli Indiani d’America, negli alpeggi per i nostri pastori.Questa gente, i nomadi, hanno tutti lo stesso modo di fare, le stesse usanze, le stesse credenze, le stesse canzoni per calmare gli animali… le stesse case trasportabili, le tende.La yurta o ger per i mongoli è, tra le case trasportabili, la più perfetta che io abbia mai vista.Ha una struttura in legno con le pareti che si chiudono a pantografo tenute assieme da lacci e mai da chiodi. Ha una grande ‘finestra’ centrale al colmo del tetto tonda, divisa da otto raggi come la sacra ruota tibetana che fa diventare la tenda un orologio solare durante il giorno e un luogo di osservazione delle stelle alla notte.E’ coperta e coibentata dai feltri fatti da lana ispessita.E’ resa impermeabile da uno stato strato di tela gommata.È ricoperta dentro e fuori da uno strato di cotone.Ha i legacci di lana di cammello.E tonda, ha la porta esposta a sud ed è un ventre protettivo.E’ LA PRIMA CASA DELL’UOMO.Io, da tempo, cercavo il modo per poter esemplificare e divulgare i temi del vivere ecosostenibile, volevo filmare un processo di adattamento al nostro mutato ambiente a rischio di esaurimento delle risorse fino ad ora in uso.Avevo pensato a costruirmi una casa ecologica, in legno, ma non mi soddisfaceva l’idea. Non esprimeva la mia ribellione al permanere in un luogo, a farlo proprio, a violentarlo, piegandolo alle esigenze di una gettata in cemento, di fognature ecc.E poi, costruita una casa così come si fa per mostrarla?Tutta la gente interessata a vederla deve spostarsi, e se fossi io, con la mia ‘casa’ a spostarmi?!Se ogni posto fosse casa mia e nello stesso tempo non lo fosse?Cosa c’è di meglio di una yurta per esprimere la nostra permanenza precaria sul territorio che una volta usato, goduto, apprezzato poi viene lasciato com’era?Basta cemento, non abbiamo certo più bisogno di continuare a costruire. Abbiamo rovinato il nostro paesaggio italiano con le brutture di architetti e geometri o peggio, con gli scempi delle seconde case.Possiamo vivere la natura, protetti ed adattati, ma poi togliere le tende e andare altrove.Questo vale per i parchi naturali.Vale per gli agriturismi.Vale per i campeggi.Per gli alberghi.Per le seconde case.Per i ristoranti.Per i padiglioni espositivi.Nomadizziamoci!Maurizia Giusti
I lottatori del “Garuda” di Karakhorin“Se hai paura non farlo, se lo fai non aver paura”, così recita un vecchissimo proverbio mongolo. Avrei voluto esserci con tutte le mie forze, avrei voluto ricordare la mia spavalda gioventù, avrei voluto immergermi in quella danza, ansimare sudare con loro: i lottatori delle aquile. Ma ho avuto paura! Forse è meglio così e accontentarsi della saggezza di quel proverbio. Allora mi consolo cercando di descrivere ciò che ho visto o meglio ciò che ho sentito, vissuto a Kharakhorin durante quel piccolo Naadam meno imponente di quello di Ulaan Baatar ma sicuramente più vero.Descrivere tecnicamente la gara tra i lottatori mongoli sarebbe molto semplice. Due punti di presa (dietro le spalle o in vita) come leva e basta far cadere l'avversario in qualunque modo su un area libera e non definita (i lottatori possono girovagare per tutto il campo). Se i lottatori impiegano troppo tempo (pur non avendo alcun limite) i loro assistenti gli fanno tirare a sorte e quello che vince ha la presa migliore (sempre nel punto più basso della vita). Ma la cosa più bella ed interessante di questa lotta è la perfetta simbiosi con l'ambiente e il paese in cui si svolge. Credo sia anche un omaggio all'uccello simbolo, “il Garuda” (cavalcatura sacra della dea Visnù).Sono convinto che le decine di aquile che dall'alto sovrastano il campo di gara in un incessante volteggio fanno parte profonda di quella lotta e di quel rito.Il rito d'inizioLa gara in realtà inizia con la vestizione e l'aiuto che ogni lottatore ha da parte del suo assistente detto Zusuul (che necessariamente deve far parte della propria tribù o famiglia). Ad esso consegna gli abiti ed egli intonerà i canti in caso di vittoria. I lottatori che si fronteggiano prima della gara vestiti negli abiti tradizionali, compiono un rito particolare che nelle lotte moderne è scomparso.A braccia aperte volgono la testa al cielo e poi si danno delle pacche all'interno delle cosce e sul sedere (molto simile alla danza maori, ma assai diversa nel significato; i maori la fanno per intimorire i mongoli la fanno come segno di virilità), avanzano e si avvicinano agli assistenti di gara (sicuramente ex lottatori), con la mano destra toccano la spalla sinistra dell'assistente, si girano di nuovo inchinandosi leggermente a quel punto l'assistente, diventa arbitro e giudice toglie il tradizionale cappello a punta del lottatore e lo terrà in mano tutto il tempo del combattimento. Anche in questi gesti c'è grande devozione a valori fondanti. E' davvero straordinario vivere un combattimento che ha pochissime regole, direi quasi nessuna, un rito di devozione alla lealtà, al rispetto del giudice. Una ragione forse c'è: quella lotta, come tutto il Naadam è coperto da un velo di sacralità.I corpiQuesta credo sia l'unica lotta che conosco dove il peso non conta nulla. In tutti gli sport dalla lotta libera o greco romana, al sumo, alla boxe dove il contatto fisico è estremo il peso conta moltissimo. Qui possiamo vedere lottatori da oltre 130-150 kg che combattono con altri di 70 kg e non sempre chi ha il peso maggiore vince, conta l'astuzia, l'abilità, la velocità, spesso la stanchezza.L'altro elemento che mi ha colpito sono i loro corpi. Non sono corpi costruiti in palestra, non sono modellati dalla preparazione. Sono scolpiti da ciò che è la Mongolia, un ambiente difficile ma nel quale queste genti hanno saputo trovare la loro dimensione. Il vento, il sole, il freddo, il cibo che gli animali forniscono grazie all'ambiente immenso e ai pascoli infiniti. Sono uomini liberi, lottatori allo stato brado come le mandrie che abbiamo incontrato nel nostro viaggio.L'abbigliamento dei lottatoriNon si può descrivere il combattimento senza parlare prima dell'abbigliamento dei lottatori che ha ragioni pratiche. Infatti dall'abbigliamento dipendono le prese di forza per rovesciare l'avversario.Sono pochissimi gli sport soprattutto di lotta, dove l'abbigliamento di gara è fondamentale per la vittoria. Solo in alcuni sport orientali come il sumo o pochi altri esistono.Lo Zodog ( tunica corta) che lascia nudo il torace e copre solo le braccia e una parte della schiena, allacciato sulla pancia con un nodo (non deve stringere troppo e non deve cedere facilmente). Prima si fa il nodo sulla pancia e poi si infilano le braccia dentro la tunica che deve rimanere molto tesa.Essa costituisce una delle due prese possibili per l'avversario. La ragione di questa tunica a torace nudo è che in un tempo molto lontano pare abbia vinto il titolo di Leone una donna e per questo da allora la lotta è riservata solo agli uomini e la tunica deve essere aperta sul davanti.Lo Shuudag (mutande) sono pantaloncini a forma di mutanda nel quale ai bordi passano corde resistenti. Questa costituisce la seconda possibilità di presa dell'avversario. La più difficile da raggiungere , ma la più favorevole. Se si afferra la mutanda sulla parte della coscia è probabilissima la vittoria perché è più facile sbilanciare l'avversario e atterrarlo.I Gutul (stivali di cuoio) sono stivali di pregio per i quali non esiste differenza tra destra e sinistra, sono facili da infilare e hanno la punta all'insù (per motivi religiosi... così si uccidono meno insetti).Il combattimentoI lottatori si fronteggiano e la prima cosa che tentano è quella di conquistare la presa migliore, quella più bassa. Ma è la cosa più difficile perché è la più lontana. In questa lotta contano molto le braccia. Sono le principali leve che i contendenti usano per tenere l'avversario a distanza e soprattutto per sbilanciarlo. Occorre moltissima forza e astuzia. Passare dalla presa dell'ascella, alla cinta o alla coscia richiede molta rapidità! Anche la testa serve a tenere lontano l'avversario. Quando sono in questa fase il combattimento può durare pochissimo o moltissimo tutto dipende dalla velocità o dalla resistenza di ognuno e credo molto dipenda anche dal peso dell'avversario.I piedi servono ad agganciare l'avversario e a sbilanciarlo, ma ho visto pochissimi casi concludersi per questo tipo di aggancio. Altra parte importante in questa lotta è la forza ed elasticità della schiena. Se le braccia sono le leve la schiena è il fulcro sul quale agiscono le leve. Per questo deve essere potente, elastica (sopportare gli scatti, gli strattoni violenti, innalzare l'avversario). La parte finale dura pochissimi secondi, avvenuto lo sbilanciamento avviene l'atterramento. Basta toccare con qualunque parte del corpo terra che il lottatore è battuto.La vittoria dell'armoniaIl vincitore corre al centro del campo di gara e compie una magnifica danza che io chiamo la danza dell'aquila. Simulando il volo del “Garuda” prima si sposta a destra, poi a sinistra, volteggia a braccia aperte intorno al simbolo posto nel campo di gara. Non sono come i nostri campioni moderni. I lottatori mongoli di fronte a uno sport cruento, durissimo, non si esprimono con rabbia o l'esultanza sull'avversario. Il contrario: scaricano la tensione del combattimento con una danza che è armonia e serenità.Poi si recano dall'”anziano del villaggio” a prendere il premio (una scodella di latte di giumenta e un pezzo di formaggio). Solo questi gesti o riti ci dicono quanto siano diversi dal mondo a noi conosciuto. Nella loro olimpiade i premi non sono né i soldi né gli sponsor, ma sono ciò che gli permette di vivere. Gli alimenti simbolo della Mongolia.Ma la cosa che mi ha colpito ancora di più è il gesto che compie il vincitore verso il lottatore battuto. Egli passa la mano sopra la testa dell'avversario battuto, scende con la mano lungo la schiena e gli tocca il sedere. Contemporaneamente il concorrente battuto quasi abbraccia la vita del vincitore e sfiora i suoi genitali. Quanta dolcezza in quei gesti, quanta lealtà e sportività. Ti ho battuto ma ti accolgo, ho perso ma ti consegno la mia sottomissione sportiva. Non vedo in occidente, nelle olimpiadi moderne gesti di questi tipo se non i formalismi sportivi imposti dagli organizzatori. Per questo invidio la loro serenità, la loro libertà, la loro semplicità. Ed è per questo che tornato in Italia, in occidente, alla modernità sto male, perché sono in realtà meno libero e meno vero!Queste sono alcune sensazioni che ho provato in quel viaggio bellissimo fatto in Mongolia.Un viaggio non solo di luoghi, di paesaggi infiniti ma nell'intimo, verso pensieri profondi che riguardano tutti noi, la nostra esistenza, la nostra inutile modernità. Penso proprio che tornerò!!!Ciro Maiocchi
C’è qualcosa in questo luogoCome un vento incalzanteScivola su ogni cosaLa insegui per cercareL’anima nascostaE ti sembra di catturarlaNello sguardo pacifico di una bambinaNel sorriso disarmante di una vecchiaNel segreto legame tra madre e figlioNella nuda semplicità delle caseNella scia di una carovana che si allontanaNei paesaggi riscaldati da un tramontoNelle silenziose cime di un passoNella corsa libera di un giovane cavaliereNel mesto raccoglimento di un buddistaNelle consumate mura di un tempioNegli immensi spazi di un desertoNella quintessenza dell’altroveC’è qualcosa in questo luogoCome un vento incalzanteScivola su ogni cosaE scopre l’anima nascosta…Delle nostre origini.Stefania Mercatali (estate 2008)
La Mongolia 781 anni dopo Genghiz KhanGenghiz Khan, va da sè, in Mongolia è dappertutto, spopola, è presente in ogni forma e dimensione. Le idee vengono messe ben in chiaro all’aeroporto di Ulaan Baatar, il Genghiz Khan (appunto) International Airport: mentre si fa la coda al controllo visti si nota subito nella parete in alto un’immagine sontuosa di Genghiz Khan, vuoi perché in quei minuti di attesa prima di arrivare allo sportello non c’è altro da fare che guardarsi intorno, vuoi perché nella sala dell’aeroporto non ci sono altre immagini (una bandiera mongola, se ben ricordo) e quindi alla fine uno rimane a guardare la foto con l’eroe della nazione.Una della colline che circondano la capitale Ulaan Baatar porta su un suo fianco un enorme ritratto del guerriero mongolo, imponente e visibile da più punti della città.Genghiz Khan è la Mongolia, la Mongolia è Genghiz Khan. Uno se lo sente dire spesso, lo legge un po’ dappertutto ma ce se ne rendo conto veramente solo dopo aver messo piede in questo splendido paese (sopra, uno scorcio dello Zuunmod, foto di Stefano La Torre)Ulaan Baatar è brutta come città, decisamente brutta. Parliamo di strade asfaltate male, quartieri e quartieri con blocchi di stampo socialista costruiti negli anni 50 – 60 e ancora presenti un po’ ovunque, erbacce che spuntano qua e là, sporcizia, traffico ben congestionato, parchi che comunicano un senso di abbandono e tristezza. Ebbene io amo Ulaan Baatar proprio per questo!Ho speso pomeriggi a camminare per le vie del centro seguendo strade polverose che non portavano a nulla costeggiando insegne che dicevano CAFE’, FLASH e MP3. Mi piacciono i palazzi grigi e scuri trapiantati dall’Unione Sovietica che fu, mi piace assai entrare dentro uno di questi compound e vedere il cortile interno in disuso con magari un campo di basket con un canestro solo e la retina ormai sfilacciata che verrà via del tutto con le prossime partite giocate dai ragazzini. E mi piace ancora di più scoprire che questi palazzi brutti fuori rivelano stupendi appartamenti dentro (non ne ho visti molti, anzi, solo due per gentilezza dei miei amici mongoli). Mi piace vedere che l’ufficio dei miei amici, proprio dietro lo state department store, ha un “portoncino di sicurezza” con uno spioncino che altro non e’se non un foro di 20 cm quasi. Nessuna etichetta sulla porta, nessuna indicazione dell’ufficio, non serve: uno sa gia’che quello e’l’ufficio.Lo State department store è stupendo con le due date 1921 e 2008 (a seconda dell’anno) in alto ai due lati e amo l’annuncio affisso dentro l’ascensore che dice di stare in guardia dagli scippatori, in genere ragazzi adolescenti. Questo fa sì che guardi purtroppo con circospezione e diffidenza quei 3-4 ragazzi che stanno prendendo l’ascensore con me. Lascio sempre documenti e soldi in albergo, con me ho solo pochi tugrik, anche se me li rubano non è una grossa perdita. Questo penso mentre li guardo in ascensore.Non succede niente. E vado a comprarmi il dizionario mongolo–inglese. Sono un ritardatario cronico, i miei amici e la mia ragazza non sopportano questa mia brutta abitudine, ma in Mongolia sono a mio agio. Da popolo della steppa i mongoli sono cresciuti con un concetto del tempo molto diverso dal nostro: vivendo nel deserto e avendo difficoltà a calcolare le distanze enormi che ci sono da un punto a un altro, come puoi dire ”passo nella tua ger alle quattro del pomeriggio?” Uno passerà durante il pomeriggio e basta, che bisogno c’èdi puntualizzare le ore e i minuti nella steppa?A Ulaan Baatar, la metropoli nel deserto, è lo stesso. Una parvenza di orario - retaggio dello sviluppo? - viene data ma ormai lo so, ci sono abituato, darsi appuntamento per le 10.30 nella hall dell’albergo vuol dire tranquillamente le 11, le 11.30 o anche oltre. Grosso modo sai a che ora arriverò, verso le 10.30, ma questo non vuol dire che sarò lì per quell’ora, è giusto per darti un riferimento temporale. Un po’ come il nomade nella steppa che sa che il suo amico verrà a trovarlo nel pomeriggio, tra il pranzo e la cena.Mi piace, fa per me, i cinesi invece, puntuali come orologi svizzeri, impazzirebbero.Zaisan, il monumento all’amicizia russo – mongola, bello e di stampo vagamente fascista mi piace per queste sue riproduzioni di persone che si abbracciano, che festeggiano, che calpestano la bandiera del Giappone (mi domando cosa ne pensino i turisti di Tokyo) ma soprattutto per la vista tutt’altro che memorabile su Ulaan Baatar. Schiere di palazzi e fabbriche che si affacciano nella parte sinistra della sfera visiva, il cielo grigio, il colore monotono della città. Neanche da paragonare con i tetti della Città proibita che si vedono dal Parco Jingshan a Pechino, o La Chiesa della Salute che si vede dal ponte dell’Accademia a Venezia.E allora cosa c’è di bello? C’è il silenzio, compagno di viaggio sempre presente in Mongolia, c’è il venditore di cartoline che canta con la gola, il famoso e stupefacente throat singing, e tu lo ascolti e cerchi di capire come fa a produrre questi suoni fuori dal mondo con tanta naturalezza, tu che sei appoggiato sul parapetto del monumento e lo osservi e ti senti un po’ coglione perché provi ad imitarlo senza successo. Dalla collina Zaisan si capisce che città anomala sia UB: molto estesa da Ovest a Est ma incredibilmente piccola da Nord a Sud. Sei in piazza Sukhbaatar, nel cuore della città ma bastano pochi minuti a piedi in direzione sud per uscirne ed essere oltre la periferia.Adoro le fermate degli autobus che vedo sulla strada per l’aeroporto: ne avessi visto passare anche solo uno di autobus in tutte queste volte che sono stato in Mongolia, eppure la gente è li che aspetta... e intorno è solo verde, nessuna casa, nessuna abitazione... da dove arrivano queste persone?L’arco che ti accoglie a UB e’stupendo, lo stemma della città semplicemente bello e complesso.Adoro il fatto che mentre cammino da solo nessuno mi guarda, nessuno mi saluta con HALLO!, nessuno mi indica con le mani come se fossi un marziano. In Cina mi succede spesso, in Mongolia no.Mi è piaciuto andare a trovare la mia amica insegnante all’università di Ulaan Baatar (non mi ricordo il nome, in periferia comunque), entrare nella palestra e vedere una partita di pallavolo studentesca in pieno svolgimento. E anche qui, nessuno faceva caso a me. Bello.Fuori i ragazzi andavano in giro già con le maniche corte, si era a Marzo, estate per loro, mentre io avevo il mio bel cappotto addosso.Vado in mensa con la mia amica e le sue colleghe e per pranzo ordinano il ciuivan, bel piatto con carne di montone: la mia porzione è la più grande perché in quanto maschio devo mangiare e nutrirmi più di loro (mi dicono). Riesco a malapena a mangiarne metà da quanto è grande la porzione ma sono contento, scambio con la mia amica e le sue colleghe qualche chiacchiera in inglese: non sono per nulla intimidite dall’avere un occidentale di fronte a loro, tutt’altro. Non posso non fare paragoni con la “mia Cina” dove spesso succede che se devo parlare con una ragazza cinese che vedo per la prima volta tutto quello che ottengo sono timidi SI e arrossamenti di faccia.Sulla Jeep di ritorno dalla steppa, fuori cala la notte, buio pesto e neanche una luce ad illuminare la strada. Dentro l’auto invece l’atmosfera è diversa: uno dei nostri amici ha comprato una bottiglia di vodka da bere in macchina mentre si rientra a UB. Suo zio guida e ovviamente non beve, noialtri sì.Un bicchiere a testa a rotazione cantando (loro) stupende canzoni in mongolo che forse parlano del legame che i mongoli hanno con la natura, con la loro terra...Chissà perché ma non voglio chiedere la traduzione e ascolto.E beviamo questa vodka secca, degno proseguimento di quella bevuta qualche ora prima nella ger.Molti si atteggiano a facili giudici e criticano i mongoli per questa loro “passione” smisurata nel bere alcolici: ma dico io, vivendo nel deserto, senza elettricità, senza svaghi, senza vicini come si passano le serate? Ci si raduna intorno al fuoco, si canta e si beve, magari ci si ubriaca anche. Farei così anch’io e penso anche molti altri che adesso puntano il dito sui mongoli che bevono.Nel 2008 in Mongolia non si viaggia a cavallo ma in Jeep e non si rientra nella ger ma in appartamento a Ulaan Baatar, cambia la forma ma la sostanza è la stessa. Si è in compagnia, si festeggia l’amico venuto da lontano, gli si offre da bere, si canta insieme... E chissenefrega se c’è gente che critica.Questo mi piace: con loro si beve e si scherza in modo naturale, si alza decisamente il gomito ma è tutto normale.Io e il mio collega italiano in quanto ospiti d’onore abbiamo un compito insolito e ingrato: decidere quale capra uccidere per poi mangiarcela arrostita. Siamo in piena campagna, il nostro amico mongolo ha un allevamento con decine di capre: ne vuole fare uccidere una in nostro onore. Le guardi correre, evitarti, saltellare sotto lo sguardo del pastore che ha una faccia stupenda e segnata dal tempo; non importa delle capre - penso io – vorrei andare dal pastore e chiedergli cosa faceva ai tempi di Choybalsan.Non lo faccio, non è il momento e la capra viene scelta. L’uomo predisposto ad ucciderla è il doppio di noi, gran parte dei mongoli sono il doppio di me e del mio collega che pure piccoli non siamo, e compie il gesto con estrema naturalezza, quasi svogliato direi.Mi ha colpito vedere i miei amici inorridire anche loro allo spettacolo della capra cui veniva massacrato il cranio; loro, mongoli, popolo della steppa abituati ad uccidere bestie ecc ecc... anche loro non ce l’hanno fatta e si sono voltati dall’altra parte. In questo ho sentito una forte vicinanza con loro, scordiamoci Genghiz Khan che faceva massacrare migliaia di persone, scordiamoci l’esercito mongolo che uccideva indistintamente donne e bambini e non aveva pietà per nessuno, scordiamoci la Storia! Nel ventunesimo secolo i mongoli (non tutti però) si voltano dall’altra parte quando viene uccisa una capra. Come noi. Ci mangiamo per prima cosa il fegato, lo mangio e penso che questo fegato fino a due ore fa era vivo e stava saldamente dentro una pecora che saltellava per la steppa.Se mi vedessero i miei amici vegetariani dall’Italia...Siamo in Mongolia per lavoro prima di tutto ma oggi siamo anche turisti e quindi ci viene offerta la possibilità di andare a cavallo. Trotterelliamo sotto la guida di due ragazzini che sono la metà di noi ma che, sono pronto a giurarci, hanno prima imparato ad andare a cavallo e poi a camminare.Dico in mongolo l’unica frase che so e cioé: ”come ti chiami?”, il ragazzino mi risponde ma vatti a ricordare che nome mi ha detto. Finito il giro a cavallo riprendiamo a mangiare e a bere fino a sera inoltrata. Stiamo decisamente bene, conosciamo questi mongoli da pochi giorni ma è come se li conoscessimo da anni.Genghiz Khan ci ha accompagnato per tutto il soggiorno: ce lo siamo bevuto (vodka Genghiz Khan), ce lo siamo dormito (hotel Genghiz Khan), nel 2001 me lo ero fumato (le mitiche Genghiz Khan nere, oggi non le vendono piuù, ci ha accolto e ci ha dato l’arrivederci (Aeroporto Genghiz Khan).Che poi si tratta di un arrivederci a presto, una volta lasciata la Mongolia sto già progettando il prossimo viaggio per ritornarci.Stefano La Torre
Ma che strano paese è la Mongolia? Hai voglia di andarci però non sai dire esattamente il perché e quando torni hai troppi motivi che ti spingono a volerci tornare e, ancora una volta, non sai spiegare cosa ti ha colpito in maniera così profonda, cosa ti è entrato dentro, cosa ti ha cambiato e rinnovato. Le foto non rendono mai abbastanza per gli altri, ma per te sono memoria e rinnovo continuo delle infinite emozioni che hai provato in quei giorni di viaggio, magari duri e faticosi, ma carichi di sensazioni forti capaci di farti dimenticare qualsiasi tipo di stanchezza; la mente non è mai affaticata, è libera e vuota pronta per essere riempita di volti, colori, forme e suoni che si stampano indelebili nella memoria.Un viaggio di 17 giorni: fai tanti chilometri e poi ti rendi conto di aver visitato solo una piccolissima parte di questo paese e ti chiedi come questo sia possibile dato che hai visto mille posti diversi: mentre viaggi è quasi normale pensare che il panorama cambi continuamente ma, una volta arrivato al campo, prova a sederti e allora lì vedrai lo spettacolo della natura che crea un quadro dietro l’altro, uno più incredibile dell’altro e qualsiasi parola diventa superflua. Devi fermarti e guardare in silenzio: verrai avvolto dall’aria sempre dolce e piacevole, i colori ti ubriacheranno e la natura, forte ma non violenta, ti chiederà di entrare a far parte di quel quadro fantastico. Di notte vorresti conoscere il linguaggio delle stelle per leggere il cielo vasto e tondo; di giorno la gente ti accoglierà nelle gher con un sorriso sincero che non ha niente di formale, ma è espressione della grande ospitalità che questo paese sa ancora offrire. Ti accoglieranno i volti intensi dei vecchi e quelli dolci, un po’ stupiti, dei bambini. Incontrerai tradizione e modernità, preghiera e parabola, stufe a legna e pannelli solari, cavalli e moto. E alla fine del viaggio saprai rispondere a coloro che ti chiedevano con stupore: Mongolia?! Cosa c’è in Mongolia? Perché la Mongolia? Ma, soprattutto, saprai spiegare a te stesso il perché ci vuoi tornare: ci vuoi tornare per vedere il silenzio, per ascoltare il silenzio, per vivere il silenzio.(Mongolia, luglio 2008)Chiara Rosati
Ventidue giorni, circa 3500 km di viaggio. Centotrentacinque pagine (piccole) di diario. Cinquecentonovantatre foto. Abbiate pazienza, cercherò di stringere.23 Giugno 2008: arrivo a Ulaanbaatar alle sette. Nessun problema all’aeroporto per controllo passaporti e il bagaglio era già pronto per il ritiro. Ma il cielo era grigio e le strade allagate da giorni di pioggia. Il traffico procedeva con cautela, le strade sotto l’acqua non erano in buone condizioni, e i poveri pedoni, anche se a quell’ora erano in pochi, stavano attenti e il più lontano possibile dalla strada per evitare sgradite docce. Nel pomeriggio veloce visita alla città, piazza Sukhebaatar, la collina con lo Zaisan Memorial tipicamente russo con un bel panorama sulla città se non fosse stato per lo smog e le nuvole! Infine il palazzo del Bogd Khan, ultimo re Mongolo, adesso un bel museo.Pensiero del giorno: ma come fanno a guidare sulla destra, con alcune auto con volante a sinistra ed alcune a destra? Come se si mescolasse il traffico di Milano e Londra in uno! Pensiero tremendo!24 Giugno: Incontro con la nostra guida Muugii, il nostro fenomenale autista Mendee e la nostra UAZ jeep Russa che al primo sguardo ho odiato ma ho imparato ad amare strada facendo. Partenza alle ore 09.00 sotto la pioggia direzione monastero di Amarbaysgalant. Strada asfaltata ma piena di buchi fino a Darhan, poi il nostro primo assaggio di strade “secondarie”, cioè sterrate e fangose se piove, altrimenti polverose. Il nostro primo incontro con un campo ger. Carino con 2 letti, un tavolino, due sgabelli e una stufa a legna. Scesi dalla jeep ha cominciato a piovere. Il monastero era chiuso e non c’era in giro nessuno. Ci siamo riparati sotto il tetto del tempio maggiore mentre Muugii andava a cercare qualcuno che aprisse. Da fuori il monastero aveva l’aria trasandata ma una volta aperte le porte ho capito perché mi avevano detto che non si può andare in Mongolia senza visitarlo. E’ vero, è stato restaurato ed i colori sono molto vivaci, in contrasto con l’esterno, ma aiuta a rendere l’idea di come deve essere stato prima degli anni ’30 e la repressione. Di ritorno al campo aveva piovuto dentro la nostra ger. Fortuna vuole che non ha bagnato le valigie. Una ragazza ha asciugato per terra e acceso la stufa, che non è facile, specialmente con la legna bagnata, ma in pochi minuti la ger era calda e accogliente. Alla sera Muujii ci ha insegnato a giocare ad “ankle bone” letteralmente “l’osso della caviglia”. E’ un gioco avvincente fatto con l’osso di caviglia di pecora. Non perdetelo se andate in Mongolia, fa parte della loro cultura e noi abbiamo passato delle serate divertenti. Sono tornata a casa con almeno 70 pezzi nella valigia.Pensiero del giorno: sarebbe stato meglio senza l’acqua torrenziale. Ma chi ha detto che pioveva per un'oretta poi smetteva? Come farò a dire a Federico che la sua beneamata Mongolia mi deprime un pochino?25 Giugno: piove ancora e noi torniamo alla strada principale e andiamo verso la Selenge Valley. Vediamo per la prima volta i pastori che spostano le greggi con cammelli per trasportare le ger. Loro sono a cavallo e portano lunghi impermeabili. Facciamo le foto e proseguiamo sotto una pioggia battente. Il nostro Mendee lotta con il volante, poi, vedendo un camioncino impantanato nel fango si ferma per prestare soccorso. I Mongoli non si rifiutano mai di aiutare chi ha bisogno e anche se non possano aiutare si fermano per vedere qual è il problema. Estratto il camioncino e il suo carico di turisti coreani e americani abbiamo continuato in salita. Era difficile dire se fosse bella perché eravamo sempre nelle nuvole. Arrivati al passo era troppo freddo e umido per consumare il nostro pasto nella jeep; allora siamo entrati in un caffè tipicamente mongolo, per il gran divertimento dei locali. Per la prima volta abbiamo assaggiato i buuz, ravioli di carne cotti al vapore, buoni, e il té al latte, quasi senza sapore ma con occhiaie di burro che galleggiano in superficie, ma non é male. In discesa ha smesso finalmente di piovere e ci siamo fermati per vedere dei cammelli che in un cesto trasportavano dei vitellini. A Ikh Uul ci siamo fermati a cercare una guest house. Dubbi. Ma no, era pulito e ci hanno fatto un enorme piatto di spaghetti con sugo di carne. Prima esperienza con i WC in un gabbiotto di legno con un asse di legno a sinistra, una a destra e un buco in mezzo, bisognava stare attenti a non mettere il piede dove non c’era l’asse!Pensiero del giorno: l’avventura comincia a piacermi. Pazienza se piove, non potrà farlo per 22 giorni, spero.26 Giugno: non piove, ma è sempre nuvoloso. Prendiamo la strada per Moron circondati da un bellissimo paesaggio montagnoso. A Moron il sole splende e ho chiesto di visitare il monastero Danzandarjaa Khiid anche se non era in programma. Costruito in cemento in forma di ger l’ho trovato molto carino. Un monaco massaggiava il gomito di un uomo, un altro rispondeva al cellulare! I piccoli studiavano. Seguimmo la strada asfaltata per l’aeroporto, improvvisamente Mendee l’ha lasciata e ha cominciato a seguire i pali della luce attraverso la campagna. Abbiamo fatto 100 km in 3 ore su sterrato ma almeno era asciutto. La campagna era bellissima e con la mancanza di pioggia i nostri spiriti si sono sollevati. Al campo ger di Khovsgol credo che fossimo i primi turisti della stagione, non avevano ancora aperto l’acqua nei bagni e hanno subito dipinto i rubinetti delle docce con rosso e blu per caldo e freddo, risultato: dovevamo stare attenti a non toccare per non sporcarci. Il campo è in una posizione bellissima sul lungolago con davanti un’isola. C’era una bambina adorabile di circa 4 anni, sorvegliata a vista dalla sorella maggiore. Aveva preso una piccola capra come fosse una bambola e la portava dappertutto, nonostante le proteste della capra.Pensiero del giorno: comincio a sentire la felicità scorrere nelle vene.27 Giugno: non ci credo! Ore 6, comincia il diluvio. Spostiamo il cestino per la carta sotto l’immancabile perdita e torniamo a letto. Per la prima colazione c’era più cibo di quanto normalmente consumo in un giorno. Ho paura che tornerò ingrassata. Avevamo tutto il giorno da trascorrere a Khovsgol e cominciavo a parlare con Muujii della Mongolia, di Naadam, dei suoi sogni, e dei miei , quelli che furono e che non ho realizzati e quelli rimasti! La pioggia si placa e decidiamo di andare a fare una passeggiata nel bosco dove ci sono dei fiori bellissimi e tanti alberi che sembrano bruciati ma sopravvivono lo stesso: cosa sarà stato a ridurli così? Siamo andati in cima ad un promontorio da dove si dovrebbe vedere questo immenso lago, ma facevamo fatica a vedere l’acqua della riva sotto di noi. Pazienza, abbiamo fatto i nostri tre giri del ovoo buttando i tre sassi poi siamo scesi sulla riva del lago. Non potevamo vedere la grandezza ma aveva un suo fascino avvolto nelle nuvole. Nel pomeriggio siamo andati a cavallo. Io terrorizzata, non ero mai stata a cavallo. Ho fatto fatica a salire ma poi hanno dato le redini ad una ragazzina e siamo andati tranquilli, tranquilli lungo il lago per un’oretta.Pensiero del giorno: mi piacerebbe fare tutto il giro del lago, mi piacerebbe stare qui di più in questo posto bello e tranquillo, mi piacerebbe anche imparare ad andare a cavallo e fare almeno un tratto di Mongolia con il loro mezzo di trasporto tradizionale.28 Giugno: Manco a dirlo piove ancora! Peggio dell’Inghilterra. Partiamo e dopo pochi chilometri perdiamo il tubo di scarico e la marmitta. Mentre Mendee aggiusta tutto noi andiamo in giro con un sacco delle immondizie a fare gli operatori ecologici. Non so se sono i locali o i turisti ma le bottiglie di plastica, bottiglie di vodka e lattine di birra purtroppo sono ovunque. Abbiamo fatto del nostro meglio quando potevamo. Oggi andiamo verso Khorg. Una serie di passi di montagna con degli scenari spettacolari. A volte piove a volte esce il sole. In cima ad uno dei passi si è aperta davanti a noi una vallata larga, ondulata, verde e completamente vuota. C’era il sole ed una brezza fresca e piacevole. Abbiamo mandato la jeep avanti e siamo scesi a piedi. Mi veniva voglia di camminare sempre, ma il tempo era tiranno. Un'altra vallata era larga, verde e tranquilla con tanti piccoli gruppi di ger. Purtroppo dopo tutto questa bellezza, verso sera, cominciavano ad accumularsi le nuvole. Dovevamo dormire in tende, abbiamo chiesto ospitalità dai pastori ma non c’era posto nelle loro ger. Siamo andati avanti su una strada in discesa talmente erosa dall’acqua che non credevo che potessimo farcela, ma il nostro f antastico Mendee ci è riuscito. Siamo arrivati ad un piccolo paese di nome Shine-Ider. In un negozio ci hanno detto che c’era un hotel. Infatti faceva parte del negozio con annesso ristorante. Orrore vero. La nostra stanza sembrava una cella. Abbiamo optato per dormire con la guida che aveva una camera con 7 letti, tutti sfondati e con coperte luride. Okay, abbiamo tirato fuori lo spirito pionieristico. Via le coperte, fuori i nostri sacchi a pelo, siamo andati nel “ristorante” a mangiare poi a giocare a carte e ankle bone finchè non eravamo talmente stanchi che non aveva importanza dove dormivamo o che il WC era in piazza del tipo Far West!Pensiero del giorno: un paesaggio così bello vale pure qualche sacrificio.29 Giugno: Giorno di elezioni in Mongolia, che poi ha causato dimostrazione con morti e feriti ad UB. Ma nella campagna si vedeva la gente, tutta in tiro, che galoppava verso la propria sede elettorale. Noi siamo andati verso Terkhiin Tsagaan Nuur, un grandissimo lago in una zona vulcanica. Strada facendo abbiamo visto delle gru che viaggiano sempre in coppia ma mai in gruppo. Ci siamo fermati in un posto con tanti ger e subito è arrivato un ragazzino cavalcando a pelo il suo cavallo. Nonostante fosse curioso, era timido e ha fatto fatica a dire a Muujii il suo nome ed età, ma stava lì a guardarci come se fossimo arrivati dallo spazio. Posava volentieri per le foto poi è partito al galoppo con il del pieno di caramelle. Poco dopo si è rotta la cinghia della jeep, quella di scorta era troppo grande, allora abbiamo aggiustato l’altra con nastro adesivo telato. Qui c’è un rimedio per tutto, beh quasi tutto. Siamo arrivati al lago e al campo situato proprio in riva al lago in tempo per il pranzo. Ci sono tanti insetti che assomigliano a zanzare giganti ma non pungono, però si alzano in volo quando si cammina nell’erba e danno fastidio. Nel pomeriggio tempo nuvoloso ma Susi ed io siamo andate lo stesso a fare una camminata lungo la riva del lago. Abbiamo trovato tante stelle alpine che per fortuna anche qui sono protette. Poi, volendo sgranchirmi le gambe dopo tante ore in macchina, sono salita su una piccola collina vicino il campo sfidando gli insetti volanti. Il cielo notturno era pieno di brillanti – forse stelle?Pensiero del giorno: comincio sentirmi in pace con questo paese.30 Giugno: Un cielo blu che più blu non si può. Fuori faceva caldo ma nella ger bisognava ancora accendere la stufa. Giornata quasi di riposo. Ci siamo spostati di pochi chilometri. Ci siamo fermati per fotografare tantissimi ovoo costruiti in riva al lago, poi la caverna del cane giallo (tutta una storia locale) e la caverna del ghiaccio, dove il ghiaccio non c’era già più. Poi salimmo i pochi metri fino al cratere del vulcano Khorgo a 2965 m. La giornata era limpida e il panorama, sul terreno creato molti millenni fa dalle eruzioni del vulcano, faceva venire voglia di stare lì, in disparte a guardare e meditare. Invece si scende e si torna al campo. Pomeriggio libero, ma non avevo voglia di stare ferma così sono partita da sola lungo la riva del lago. Sempre i mille insetti che si alzavano in volo ad ogni passo, ma una volta sulla riva ce n’erano meno. Forse ho scelto la direzione sbagliata, perché sono andata verso delle ger “guest-house” e la riva del lago era piena di rimasugli di barbecue, bottiglie, plastica, vetro e tutto il resto. Cercavo di concentrarmi sul lago, gli uccelli, la pace ed il sole che mi scaldava la schiena. Sono arrivata ad una spiaggia dove dei turisti prendevano il sole. Ma c’erano anche due ragazze inglesi che lavavano i loro vestiti, con tanta bella schiuma nell’acqua. Mi sentivo ribollire il sangue, non sapevo se passare oltre o fermarmi e chiedere se stavano utilizzando un sapone ecologico! Ammetto di non aver avuto il coraggio e mi sono limitata a guardare con disgusto e forse hanno capito. Sono andata a sedermi su una roccia a godermi la pace ed il sole prima di tornare lungo la strada, salutando le guide che portavano i turisti a cavallo.Pensiero del giorno: che pace interiore, avrei voluto rimanere di più.1 Luglio: sulla strada per Tsestserleg, ci siamo fermati a fare foto vicino ad un fiume. C’era una giovane ragazza scesa al fiume a riempire un grosso bidone con acqua. Aveva un carrello per trasportarla, ma era molto pesante e sulla terra erbosa e scoscesa non ce la faceva. Stavo per fare una foto poi ho pensato che fosse più utile darle una mano. In due ce l’abbiamo fatta a tirarlo su fino alla strada. Avrei voluto parlarle, ma era talmente timida che è scappata via subito, solo il tempo per dire a Muujii che era la prima volta che faceva quel lavoro. Altra fermata per vedere un canyon sempre creato dal vulcano ed un albero sacro che purtroppo sta morendo a causa delle khadag (sciarpe blu votive) e i piccoli scoiattoli di terra attirati dai dolci e formaggi lasciati dai credenti. La “strada” continuava attraverso sterminati pianori incorniciati da dolci verdi colline e boschi di conifere. Alcuni avevano un colore rossastro e la guida ci ha raccontato che stanno morendo a causa di un insetto sotterraneo che sta mangiando le radici. Speriamo che non sia vero, e se fosse vero che stiano prendendo contromisure. Altrimenti questo paese così verde rischia di rimanere senza boschi, perché si usa molto legname per costruire e per ardere. Abbiamo trovato un ponte chiuso ma un furgoncino ci ha fatto segno di seguirlo e con un urlo di incoraggiamento Mendee si è lanciato nelle torbide acque e siamo usciti sani e salvi dall’altra parte. La provincia nella quale stavamo viaggiando, Arkhangai, è famosa per l’airag, latte di giumenta fermentato. Infatti, improvvisamente, lungo la strada, sono apparsi bambini di tutte l’età che lo vendevano, in bottiglie di tutti tipi. Potete avere airag in bottiglie di vodka, d’acqua, di coke – ma non credo che esistano bottiglie proprio per airag. Il nostro autista non aspettava altro, ed ha preso due bottiglie. Me l’ha fatto assaggiare, ma non posso dire di essere stata entusiasta. Anzi tutti hanno riso alla mia espressione. Non succedeva da alcuni giorni, ma arrivati a Tsetserleg è venuto giù un diluvio, allagando le strade polverose in pochi minuti. Comunque abbiamo visitato il monastero museo che è carino ma non di più. In seguito, finito l’acquazzone, ci è venuta la brillante idea di visitare il mercato locale. Muujii aveva due zie che vendevano del formaggio fatto con airag, strano e dolciastro, non del mio gusto. Devo dire che di solito mangio tutto, e anche qualcosa in più, ma qui potrei dimagrire. Faccio il pieno alla mattina con la prima colazione, quasi inglese, ma il montone e manzo tagliato a striscioline con verdure in scatola e patate fritte fredde a mezzogiorno e sera cominciano a stancare perfino me. Il biscotto di cioccolato che ci danno come dolce cerco di metterlo via per i bambini, ma ammetto che non sempre ci riesco. Comunque dopo avere visto il mercato della carne anche Susi, che già mangiava poco, ha smesso di mangiare la carne tritata!! Pensavo che fossimo abbastanza vicino al campo ger a Tsenkher ma abbiamo viaggiato ancora per tanto, arrivando alle 19. C’era una sorgente termale nel campo ma ero troppo stanca, e l’ora della cena troppo vicina per sperimentarla.Pensiero del giorno: avrò bisogno di un po’ di tempo per assimilare tutto quello che abbiamo visto oggi.2 Luglio: Trasferimento a Karakorum, non molto lungo. Ma guarda, per la prima volta abbiamo sbagliato strada. Ci siamo fermati, Mendee ha guardato la cartina: sì, avevamo proprio sbagliato. Ma non si torna indietro, scherziamo!?. Su per la collina a gran carriera, zigzagando fra le rocce che ogni volta ci ostacolavano sulla cresta. Su e giù finche non abbiamo visto la strada principale sotto di noi. Peccato, mi stavo divertendo. Arrivando verso Karakorum la strada a tratti era asfaltata, che lusso, ma che noia! Dopo pranzo eravamo liberi, ma il tempo minacciava pioggia. Muniti di impermeabili abbiamo cominciato a salire su una collina vicino al campo dove c’era un monumento e la possibilità di una visita panoramica sulla città. Dopo 5 minuti ci ha seguito Muujii, cominciavo ad avere l’impressione che non si fidasse di noi due in giro da sole. Avevo iniziato a chiamarla “mamma”, nonostante avesse solo 23 anni e la sua mamma fosse 10 anni più giovane di me! Il monumento era strano e sempre molto russo. Circolare, composto di tre muri e sull’esterno di ogni muro c’era un mosaico dell’impero Mongolo in tre periodi storici.: degli Unni, dei Turkic e G.M.E. di Gengis Khan (o Chinggis Khaan?). Nel centro c’era un ovoo molto ben fatto. Il tempo peggiorava ma abbiamo allungato la passeggiata lungo la cresta prima di scendere al campo. Ho scoperto che abbiamo un ospite nella nostra ger. Un topo di campagna. Non è molto gradito, ma forse lui c’era prima di noi. Ho bloccato le entrate di casa sua proprio sotto il mio letto ma alla fine eravamo amici , almeno io gli parlavo e lui mi guardava. Alla sera abbiamo assistito ad un spettacolo folkloristico. Impressionante, in particolare i canti di gola.Pensiero del giorno: stiamo arrivando nella zona meritevolmente più turistica . Mi mancheranno i nostri campi ger dove eravamo gli unici ospiti. Eppure non sono anti-sociale, vi assicuro.3 Luglio: svegliati alle 03.00 da dieci temporali arrotolati in uno. Sistemate t-shirt usate per terra e tornati a dormire.Ma non siamo proprio fortunati, durante la visita a Erdene Zuu, una dei più famosi e visitati monasteri della Mongolia, diluvia ancora. Abbiamo dovuto correre da un tempio all’altro. Fare foto all’esterno equivaleva a rovinare la macchina fotografica. Pazienza, siamo arrivati al tempio Lavrin Sum all’ora delle preghiere. Ci siamo “accomodati” su una panchina bassissima e decisamente scomoda per assistere alle preghiere. Durante le cerimonie passavano altri turisti, fedeli con offerte di dolci e airag ed il monaco di turno con il te al latte nel quale intingevano dei biscotti secchi. Fuori pioveva ancora e faceva anche freddo. Ma eravamo turisti e non si poteva non visitare la tartaruga fuori delle mura. Nel pomeriggio non avevamo altra scelta che andare a letto a leggere – ma mi si chiudono gli occhi quando leggo tanto!Pensiero del giorno: dovrò tornare – non è possibile vedere Erdene Zuu in questi condizioni.4 Luglio: Svegliata dal sole che filtrava dal tetto della ger. Giornata perfetta, così perfetta che abbiamo pregato di essere riportati di corsa ad Erdene Zuu per fare le foto esterne che non avevamo potuto fare il giorno precedente. Fatto. Partenza per il Gobi. Prima fermata al monastero di Shankh un piccolo gioiello. Era l’ora delle preghiere, bellissima esperienza. La maggior parte dei monaci erano piccoli, uno è arrivato in ritardo ed è stato sgridato dall’insegnante. Sono seguiti chilometri di terreno erboso ondulato, alcune antiche tombe composte di massi in forma rotonda o quadrata e pochi animali, forse erano già tutti ai pascoli alti. All’ora di pranzo abbiamo lasciato la strada e chiedendo da ger a ger siamo arrivati a quello di amici di Mendee. Quanta ospitalità: yogurt (buono), un formaggio molto duro non del mio gusto (ma con l’aiuto di un bicchierino di vodka l’ho mandato giù), una ciotola di minestra con tagliatelle, carne e molto grasso, che ho finito con un po’ di difficoltà. Tutto offerto ed accettato usando la mano destra con il braccio sorretto al gomito dallo mano sinistra. Sapevo che era usanza di rispetto ma era l’unico posto dove l’ho vista praticare. Nel frattempo Susi aveva dato il suo lunch box al figlio della casa. Aveva circa 4 anni ed era un vero diavolino. Dapprima ha cercato di mangiare le polpettine con la forchetta di plastica, poi ha rinunciato e ha usato le mani. C’erano anche un bambino ed una bambina più grande e dopo avere mangiato abbiamo giocato rotolando due ruote di un camion giocatolo per terra (dov’era finito il camioncino non lo so). Alla fine della nostra visita Mendee ed il suo amico sono montati a cavallo e hanno radunato il gregge di pecore e capre e l’hanno portato alla ger, dove il capo famiglia ha scelto due pecore per Susi e me, un regalo simbolico, adesso c’e una pecora in giro per la Mongolia che si chiama Jane ed una che si chiama Susi! Con allegri addii abbiamo regalato alle donne creme per le mani e burro cacao. Per gli uomini vodka e per i bambini biscotti, quaderni e colori, rigorosamente in legno come consigliato da Federico.Radiosi siamo andati avanti fino a Ongiin Khiid dove ci sono le rovine di due grossi complessi di templi Buddisti, ma sono proprio rovine anche se hanno ricostruito un piccolo tempio ed un paio di piccoli musei. La posizione è molto suggestiva sulla riva del fiume. Peccato che quando siamo arrivati al campo c’era un gruppo di tedeschi e canadesi che stavano facendo il giro in motocross e alle sei di sera erano già ben avanzati sulla strada dell’ubriachezza, complici bottiglie di vodka e birra. E non erano giovani scapestrati, ma uomini dai cinquanta in su: evidentemente l’età non insegna. Purtroppo non hanno neanche letto che l’acqua dei laghi e fiumi è sacra per i Mongoli e non vanno usati come urinari, cosa che hanno fatto loro, con grande rabbia di tutti gli autisti e guide.Pensiero del giorno: l’incontro con i pastori è stata un’ esperienza bellissima.5 Luglio: Viaggio lungo, caldo ma molto interessante. Cominciamo a vedere grossi gruppi di cammelli che cercano erba nel secco terreno sabbioso. Passiamo per la foresta di Saxaul. Foresta? Sono tanti piccoli arbusti con tronchi di un legno molto duro. Lì vicino, un’oasi, con i cammelli immersi nelle acque fresche. Avanti pochi chilometri si intravede il colore arancione brillante delle Rupi Fiammeggianti. Famose per i ritrovamenti di resti di dinosauri e loro uova. Ci siamo fermati a lungo a guardare questo posto incredibile, invitava ad andare giù a piedi ed esplorare, ma sapevo che non avevamo tempo, poi “la mamma” si sarebbe preoccupata. Non ci sono più fiumi e ruscelli da queste parti. Ci siamo fermati ad un pozzo a dare una mano ad un pastore ad abbeverare il suo gregge. Oltre la strada un pastore moderno in moto aspettava il suo turno con un gregge enorme, tirando sassi se cercavano di avanzare prima del tempo. Incontro con un gruppo di Italiani, secondo giorno in Mongolia, erano disperati, sicuri di essersi persi nel deserto, non avevano fiducia nè dell’autista nè della guida. Abbiamo dispensato calma, con l’assicurazione che la strada era giusta, ed acqua per la sopravvivenza, poi abbiamo fatto strada fino a dove la loro si divideva per un altro campo. Subito dopo essere arrivati al nostro campo, bello e pulito, siamo partiti per vedere una famiglia che allevava cammelli. Io avevo fatto finta di salire dalla parte dell’autista, così appena allontanati dal campo Mendee si è fermato e mi ha invitato a guidare. Inizialmente ho detto di no, ma lui ha insistito e l’idea mi allettava. Non so quanti chilometri ho fatto. Pochi credo. Il cambio era durissimo e ho cercato di non superare la seconda finchè Mendee non mi ha costretto a cambiare in terza. Abituata ad una macchina con il servo sterzo la nostra UAZ era come un mulo. La prima volta che ho dovuto frenare credevo di avere schiacciato la frizione, non succedeva niente, poi Mendee mi ha fatto segno che bisognava mandarlo praticamente a terra prima che rispondesse. Quando ho cominciato a prendere gusto, ho creduto che era meglio smettere prima di fare qualche danno. E’ molto strano qui. Terreno piatto con erba secca, improvvisamente dune color oro si alzano in gigantesche onde e dietro ombrose montagne. Abbiamo deciso di non andare alle dune sul cammello anche se l’idea era invitante, ma era tardi ed eravamo stanchi. Siamo andati con la jeep e, tolti gli scarponi, io e Muujii abbiamo fatto una corsa su per le dune. Beh, corsa non è la parola esatta, perché si sprofondava e scivolava indietro e perdevamo il fiato nelle risate. Poi abbiamo scoperto un dorso più solido e siamo salite ancora finchè Susi, seduta sotto sulla sabbia, era solo un piccolo puntino. E giù, tacco, tacco, tacco, come si fa nella neve.Pensiero del giorno: giornata piena di spettacoli.6 Luglio: doveva essere solo una giornata di trasferimento da un campo ad un altro in mattinata. Ma l’idea di rimanere tutto il pomeriggio in un campo ger in mezzo al deserto non mi entusiasmava e ho chiesto se c’era, per caso, un'altra strada con qualcosa di interessante. Mendee ha tirato fuori il suo atlante e siamo partiti a tutta velocità in “fuori pista”. Finite le dune ha cominciato a salire verso le montagne, che si chiamano le Tre Bellezze e noi eravamo in quella “di mezzo” o almeno credo. Abbiamo guidato tutta la mattina in un ambiente montagnoso e abbiamo visto solo un ger. Quando abbiamo trovato un pozzo di quelli trainati da un cammello o da un cavallo, l’abbiamo girato noi a turno facendo uscire un’acqua bella e fresca. Ho bevuto di gusto senza pensare se mi avrebbe fatto bene o male. Non sono stata male, ma come poteva essere inquinata un acqua così fresca? Ci siamo fermati per pranzo su una collina con un panorama mozzafiato vicino alla ger numero due della giornata. Proprio quando dovevo andare in bagno è cominciata l’ora di punta, sono passati un furgoncino e due moto! Improvvisamente in mezzo alla strada c’era un grande ovoo, segnava l’inizio della discesa, per noi. Era incredibile: sembrava a strapiombo sul letto di un fiume. Ci è voluto poco per arrivare di nuovo sulla pianura e sempre senza strada al nostro nuovo campo che era fantastico e tutto per noi. Quella sera, con la copertura della ger aperta si poteva stare a letto e guardare le stelle. Perfetto conclusione di una giornata perfetta.Pensiero del giorno: sono contenta di avere chiesto la deviazione, anche Muujii ha fatto qualcosa di nuovo.7 Luglio: problema! Il nostro autista è stato male durante la notte e sta ancora male – non riusciamo a capire per cosa. Siamo partite lo stesso per Yolyn Am, la Valle delle Aquile con l’autista del campo, soprannominato da noi lo “sfascia jeep”. Abbiamo sobbalzato di più in quell’unico giorno di tutto il resto del viaggio. Ma la valle era splendida, verde e larga all’inizio, poi uno stretto canyon fra muri di roccia con un ruscello che canticchiava felice mentre andava verso il ghiacciaio in fondo alla gola. Abbiamo dovuto fare delle acrobazie per scendere sul poco che rimane del ghiacciaio in questo periodo, ma siamo arrivati fino al ovoo, fatto i nostri tre giri e poi guardando in alto – ecco un’aquila. Dico davvero. L’abbiamo vista almeno tre volte. Tornando indietro ne abbiamo viste altre due, in luoghi completamente diversi. Non ci speravo perché so che a causa del disturbo dei turisti ne sono rimaste poche. Volevamo rimanere di più ma Muujii aveva fretta. Siamo arrivati al campo alle 16 per il pranzo! Dove ci avevano preparato buuz su mia specifica richiesta, ma erano cinque e grossi come palline da tennis! Che esagerati! Erano buoni e ho mangiato tutto ma mi sembrava di scoppiare. Mendee stava sempre male e doveva tornare a UB – è stato mandato un altro autista per continuare il nostro viaggio. Tramonto stupendo, cielo stellato.Pensiero del giorno: sarebbe stato bello passare tutto il giorno nella valle facendo un picnic e sarebbe anche stato bello avere Mendee con noi.8 Luglio: abbiamo salutato con tristi addii Mendee a Dalanzadgad per proseguire con il nuovo autista verso il Gobi centrale. Caldo, paesaggio piatto, secco e deserto, chilometro dopo chilometro. Abbiamo dovuto fermarci perché non passava più la benzina, un’ora di sosta per aggiustare il guasto. Questi autisti sono meccanici bravissimi per fortuna. I nervi cominciavano ad essere a fior di pelle. Siamo arrivati a Mandalgov dopo avere fatto 300 chilometri e faceva ancora molto caldo. Pensavo che eravamo quasi arrivati ma abbiamo continuato su una strada secondaria; il paesaggio era diventato più collinoso, ma il campo avrebbe dovuto trovarsi in mezzo a delle rocce e di rocce non si vedeva ombra. Dopo svariate soste abbiamo capito che forse l’autista nuovo non sapeva bene la strada, anche se ci assicuravano che andava tutto bene. Dopo altri 80 chilometri e un totale di dieci ore di viaggio siamo arrivati al campo a Baga Gazryn Chuluu. Il tempo era già cambiato e cominciava a piovigginare, non c’era nè tempo nè voglia di visitare le incisioni rupestri, ragione di questa meta.Pensiero del giorno: quello che preferirei dimenticare! Forse sarebbe stato meglio dividerlo in due giorni.9 Luglio: mattinata grigia, si vede che abbiamo lasciato il sud. Con un ragazzo del campo come guida abbiamo visitato le rovine di un tempio giardino molto carino, ma nessuno sapeva dirmi come si chiamava, solo che aveva il nome del monaco che l’aveva costruito. Proseguendo abbiamo visto delle pecore selvagge che ci guardavano indignate per il disturbo della loro privacy. Ci hanno portato a vedere delle incisioni rupestri, ma erano solo una o due, di animali. Spariscono con la pioggia e il vento, ci ha detto Muujii, ma anche se ci metti su le mani, come il ragazzo del campo! Sarebbe stato bello passare una giornata intera in questa zona andando a zonzo fra le rocce, ma come fai a prevederlo, quando stai pianificando un viaggio? Dovevamo partire per UB e pioveva ancora. Forse la capitale ce l’ha con noi? Erano 280 chilometri, con le strade in pessime condizioni e addirittura una volta scomparse del tutto, ci abbiamo messo otto ore! Sembra impossibile seduto in poltrona in Italia, ma in Mongolia è così e fa parte del suo fascino. Sai quando parti ma non sai quando arrivi. UB era un ingorgo unico. Cercando di inserirci nel traffico un camion ci ha graffiato tutta una fiancata, ma sembrava che non importasse a nessuno. Alla fine la nostra povera jeep, senza l’amorevole cura di Mendee, ha tirato l’ultimo fiato e abbiamo dovuto scendere e spingerla in un parcheggio. Purtroppo avevamo solo 15 minuti per arrivare ad un spettacolo, allora via, saltellando le pozzanghere e affrontando l’attraversamento di una strada a quattro corsie con il cuore in gola e correndo come se dovessimo vincere i 100 metri alle Olimpiadi. E così conciati, dopo un viaggio di otto ore abbiamo assistito allo spettacolo di musica, canti, balli e contorsionisti e poi sempre conciati come eravamo siamo andati in un bel ristorante a mangiare. Un’altra auto ci ha portato alla jeep per recuperare i nostri bagagli e finalmente siamo giunte nel nostro albergo. Potete immaginare la mia faccia quando ci hanno detto che non c’era acqua calda? Deve essere stata tragica perché la ragazza ha tirato fuori la chiave dell’unica camera che aveva l’acqua calda (non chiedetemi perché c’era solo una camera con l’acqua calda, vi prego) e sono andata lì a farmi una bella doccia tutta felice e contenta.Pensiero del giorno: sembrano tutte cose negative? No, quando si viaggia in un paese come la Mongolia sono da mettere in conto, e quando si racconta agli amici, che prontamente ti classificano fuori di testa, gli consigli di andare a Rimini in ferie.10 Luglio: non è possibile. Siamo quasi alla fine del nostro viaggio (se siete arrivati fin qui vi sento tirare un sospiro di sollievo). Di mattina presto visita al monastero di Gandan, prima della maggior parte dei turisti e in tempo per tutte le preghiere, canti e musica. E’ molto grande e c’è tanto da vedere, ma è bello anche solo stare ad assorbire l’atmosfera. Mi vergogno a dire che in un tempio piccolo dove c’erano i monaci giovani ho chiesto di fare le foto. Permesso concesso. Era l’ora di mangiare, dopo le prime preghiere, quando ho scattato una foto ad un ragazzino mentre si faceva riempire la sua ciotola di riso e poco carne. Era così emozionato che ha fatto cadere ciotola e riso per terra. Momento di puro silenzio, poi sono cominciati risate sommesse, perfino il monaco anziano sorrideva. Ho fatto segno di scuse e sono battuta in veloce ritirata. Dopo la visita al Museo della Storia Nazionale, molto ben fatto e con chiari cartelli in inglese, abbiamo rinunciato a spostarci in auto, ci volevano 20 minuti per fare 2 metri. Attraversare le strade equivale a tentare il suicidio, ma siamo sopravissuti e siamo arrivati al tempio museo di Choijin Lama. Molto vicino alla piazza principale, è strano vedere questo antico e ben conservato tempio sovrastato da nuovi modernissimi grattacieli.Siamo andati in un ristorante turistico fantastico, dove scegli gli ingredienti, li porti al grandissimo barbecue e vengono cotti sotto i tuoi occhi con grande scene di utilizzo di coltelli lunghissimi che sminuzzano e girano il cibo. Molto buono.Nel pomeriggio eravamo liberi. Siamo andati a far spese alla National Department Store: una volta all’interno, poteva essere un qualsiasi grande magazzino in una qualsiasi città del mondo.Pensiero del giorno: comincia a piacermi questa strana piccola capitale, con la sua periferia composta di recinti di misure diverse, contenenti ger per l’estate e case di legno con i tetti dei più svariati colori per l’inverno. Poi ci sono i casermoni Russi, fatiscenti come in tutti i paesi del ex USSR e, nel centro, il contrasto fra il passato e l’ultra moderno. Quando poi, nel tentativo di attraversare la strada ti incontri con un compatriota conosciuto nel Gobi centrale, improvvisamente ti sembra quasi di essere a casa.11 Luglio: difficile a credere ma era il nostro ultimo giorno. Alla partenza questo viaggio sembrava lunghissimo, ma eravamo già arrivati alla fine. Partenza per lo stadio e l’inaugurazione di Naadam in sei in un minibus. Due Italiani che avevamo incontrato a Khovsgol e due ragazze di Berna che iniziavano un viaggio di otto giorni a cavallo. Traffico orrendo, poliziotti che diventavano pazzi fischiando a perdifiato e ruotando i loro manganelli come giocolieri. Dubitavo di arrivare allo stadio in tempo, mi chiedevo perché non ci hanno fatto partire prima. Ma come sempre l’abbiamo fatta. Sembrava uno stadio di calcio ed un campionato importante; seguire di corsa le nostre tre guide attraverso la folla per raggiungere il nostro settore, ovviamente il più lontano, era pazzesco. Una volta arrivati gli unici posti a sedere rimasti erano sul primo gradino. Ci siamo accomodati, se è possibile essere comodi sul cemento. Aveva ragione Chiara che ci ha organizzato il viaggio, eravamo molto lontani dalla maggior parte delle esibizioni, inoltre ci ostacolavano la vista gli striscioni pubblicitari e i piloni per le riprese televisive, ma l’atmosfera bastava e comunque c’era lo schermo grande.Lo spettacolo è cominciato con l’entrata delle guardie del governo a cavallo che reggono le nove code di yak bianche memoria di Gengis Khan. Passano in rassegna i costumi della Mongolia, le maschere delle danze sacre, delle contorsioniste e sono sfilati anche i partecipanti delle Olimpiadi (strano che i Cinesi li fanno partecipare dopo le news che ho appena letto su questo sito)! Dopo il discorso del Presidente sono iniziate le gara di lotta. Cercare di seguirle era difficile. Non ci sono categorie di peso. Sono divisi in due gruppi che si affacciano sull’erba dello stadio e via, ogni lottatore va all’attacco di chi si trova davanti. Perde chi tocca terra con una parte del corpo che non siano mani e piedi. Il vincitore fa il ballo dell’Aquila con le braccia alzate ed il perdente passa sotto in segno di sottomissione. La gara va avanti per due giorni in nove tornei. Dieci minuti tanto per capire e siamo passati all’arena degli arcieri; era una lotta uscire dallo stadio, sembravamo le capre che avevamo visto abbeverarsi (pochi giorni e molti chilometri prima). Con gli arcieri eravamo molto più vicini e l’atmosfera era quella di una festa di campagna. Gareggiavano uomini a 70 metri di distanza e donne a 65 metri. I giudici sono in fondo dietro i bersagli, ma mi sembrava un lavoro piuttosto pericoloso, ho visto alcuni scappare quando il tiro di una giovane donna è andato molto fuori bersaglio. Alcuni arcieri erano seduti nelle tribune insieme a noi a fare un spuntino prima di gareggiare ed il Presidente dello Stato era in una tribuna vicino a noi. Ci hanno “portato via” per andare a mangiare, il ristorante era bello ma sinceramente se fossi stata per conto mio sarei rimasta a camminare in mezzo alla folla, curiosare per le bancarelle e mangiare qualcosa come fanno i Mongoli.Dopo pranzo abbiamo preso una strada nuova, ben asfaltata, che portava fuori città. La polizia l’aveva fatta diventare senso unico e le macchine che andavano in città dovevano andare fuori strada. Così siamo arrivati al traguardo della corsa dei cavalli. C’era gente dappertutto, in tenda, a fare picnic, a fare un giro a cavallo a pagamento, e allineate lungo lo staccionata controllata dalla polizia per tenere la folla lontana del percorso dei cavalli. La gara del giorno era 28 chilometri per cavalli di sei e sette anni cavalcati da ragazzi fra sei a tredici anni. Molti cavalcano a pelo. Un boato dal pubblico ci ha avvisato che erano in arrivo i primi cavalli ed infatti, molto lontano sulle colline, si poteva vedere la polvere alzata dagli zoccoli. Il primo cavallo aveva disarcionato il suo cavaliere ma mi hanno detto che comunque avrebbe vinto il cavallo. Non sembravano andare molto forte, ma dopo 28 chilometri chi lo pretende?Finita la gara bisognava stare molto attenti perché c’era gente che galoppava da tutte le parti.Al ritorno la strada era tornata ad essere a doppio senso, ma non abbiamo avuto problemi ad arrivare all’albergo in tempo per cambiarci per la serata di “grande gala”! Sapete, quando si fa un viaggio del genere non si mette in valigia un vestito da sera, ma siamo riuscite a renderci abbastanza eleganti. La cena era in uno dei più grandi alberghi di UB. Sembrava un pranzo di nozze. Tavoli e sedie coperti di bianco, candele e perfino vino in tavola. Il cibo era buonissimo, anche se non aveva niente a che fare con la Mongolia; c’era anche uno spettacolo con musica, canti e danze seguito da una sfilata di moda. Tornati in albergo abbiamo cominciato a fare le valigie ma c’era un’altra sorpresa: dalla nostra finestra siamo riuscite a vedere i fuochi di artificio dalla Piazza Sukhebaatar.Pensiero del giorno: è stata una bell’idea aggiungere un altro giorno al nostro viaggio per assistere a questa giornata di Naadam. Adesso sono un po’ triste perché è tutto finito, ma contenta di tornare a casa mia e al mio letto comodo, comodo. I viaggi sono sempre così, non sarebbero belli se facessero parte della vita quotidiana, vanno sognati, guadagnati, sudati. Sono fiera perché sono riuscita ad aggiornare il mio diario tutti i giorni anche se a volte voleva dire stare seduta sul letto con la pila frontale come un minatore. Non volevo dimenticare niente di questo viaggio e ho un ricordo caleidoscopico di colori, paesaggi, persone, eventi che il diario riesce a mettere in ordine.Se ci tornerei? Certo, ho solo graffiato la superficie, vorrei vedere l’Altai, vorrei imparare ad andare a cavallo (anche se non sono più una ragazzina!), vorrei rivedere Mendee e Muujii, i vorrei, vorrei non finiscono mai.Ma io sì – tirate un sospiro di sollievo, ma andate in Mongolia – vale veramente la pena.Jane Hartley
Mirella ci invia quotidianamente il suo ricco e singolare resoconto dalla Mongolia.Le foto saranno aggiunte al suo ritorno, perché è una delle rare viaggiatrici che non si è ancora piegata al digitale.6 LUGLIO 2008Sono sana e salva a Ulaanbaatar. Tutto tranquillo e calmo, nessuna sollevazione popolare o almeno così sembra, o forse è nella calma che si preparano le rivoluzioni? Ho cambiato i soldi, ho imparato a salutare; mi avevano detto che erano previsti 15 giorni di pioggia invece stamane è una splendida giornata di sole. Forse Saturno si è distratto. Prime impressioni da UB? Beh ho iniziato con i miei soliti 10/15 km giornalieri a piedi, zigzagando qui e là, penso che fra un po' riparerò al museo Zanazabar, cercherò di tirare fino a stasera, anche se mi sento stanca, per azzerare fuso e stordimenti vari.7 LUGLIO 2008La situazione è tranquilla, almeno nei 12 kmq che ho girato. Mi aspetterei spiegamenti di forze di polizia ed esercito, in periodi di tensione, invece pressoché nulla. Le mie impressioni sulla città (ben sapendo che non è la Mongolia, come New York non è gli USA): trovo che non ha una sua identità. Stampo sovietico? Ho visto di peggio. Ricerca della modernità? Non capisco quanto del tentativo di far rivivere la propria cultura non sia per qualcuno cercare di cavalcare il sentimentalismo a scopi pratici e propagandistici (parlo sempre dei miei 12 kmq). Non mi sembra degradata, ciò non significa che non ci sia povertà o grosso divario fra i molto ricchi (una quantità impressionante di SUV) ed i tanto poveri. Mi ha colpito non vedere bambini giocare in strada, allegri e schiamazzanti. Pochi mendicanti invalidi, no ubriachi, pochi bimbi accattoni: qui sorge il solito dilemma. Dare o non dare soldi? La teoria che fare elemosina equivale ad incentivare l'accattonaggio secondo me va contestualizzata. L'elemosina è sempre esistita, la carità cristiana è uno dei cinque pilastri dell'islam. Alcuni sono lì e vegetano inerti e passivi, come il bimbo che ho visto oggi a terra con la sua sorellina di forse un paio di anni. Se nessuno gli offrisse più niente andrebbe l'indomani a scuola? O forse morirebbe di stenti e andrebbe a rubare?Dopo un po' ho preso in mano la situazione: orientarsi è molto facile, il centro è squadrato, ho cominciato a girare senza meta. Sono andata al Museo di Zanabazar. Mi è piaciuta molto una maschera di ceramica del XIII secolo. Sono poi capitata al Museo di storia naturale, quasi commovente nella sua ingenua semplicità: mi sono divertita a compilare un quaderno dove si chiedeva di scrivere nella propria lingua i nomi delle piante e degli animali della steppa mongola: non ho potuto scrivere molto perché i nomi erano in latino e gran parte di quelli italiani da lì provengono. E poi, non potevo certo segnare stella alpina in Mongolia! Non potevo mancare la visita al Tarbosaurus, anche se vedere le uova di dinosauro e gli scheletrini dei baby dinosauri in una teca di vetro mi ha messo tristezza. Preferirei vederli lì dove li hanno trovati.Girovagando fra strade e stradine, sono stata attratta da un buon odorino di pesce fritto che usciva da un localino ordinato e pulito: più che il terrore di come ordinare e di cosa sarebbe arrivato, ho lasciato perdere perché avevo voglia di uno shaslik (in un paese di pecore...).Un'ultima cosa, nel pomeriggio e' comparsa qualche nuvola, grossi fiocchi di ovatta, ho alzato lo sguardo: mi ha colpito la profondità del cielo.Mi sono allontanata da piazza Sukhbataar verso est e ho visto un palazzo totalmente incendiato. Beh, gli hanno dato fuoco i rivoltosi domenica sera. Mi hanno detto, per quello che ho capito, che era una Art Gallery ed il museo dell'opera o qualcosa del genere. Bene: ho incontrato la nostra guida molto carina, giovane, graziosa e semplice.8 LUGLIO 2008E' finita la giornata del sali e scendi dal pulmino. E' stata una fortuna che sia arrivata un giorno prima, altrimenti non avrei saputo quasi niente della città. Scarrozzati avanti ed indietro non hai modo di capire granché. Invece, così ho avuto modo di girare liberamente, ora non sono più completamente straniera, mi muovo in un universo che mi è familiare: conosco le vie, so sempre dove mi trovo perché riconosco un edificio, un angolo di strada. Ho imparato a conoscere qualche piccolo particolare, posso camminare anche di notte al buio, conosco ogni piccola mattonella che da ogni parte della città mi fa rientrare in albergo, so come attraversare le strade e dove non sedermi più a mangiare uno shaslik (il prossimo lo comprerò dalla donnina ad un angolo di strada polveroso vicino la biblioteca, alla faccia dell'igiene): questa città ora un po' mi appartiene, è entrata a far parte del mio mondo, anche se io non appartengo a lei, questo è il motivo per cui non amo i giri organizzati.Ieri sera siamo andati su quella tremenda collina dove c'è il tremendo monumento russo: non so perché in tutte le ex repubbliche sovietiche hanno buttato giù tutti gli Stalin esistenti e persino nella Piazza Rossa non sanno che farsene di Lenin e qui hanno lasciato quell'obbrobrio. Collina da cui ammirare il panorama. Il panorama mostrava dei palazzoni grigi di 15.000 piani in costruzione. Con tanto spazio, consiglierei tante villette a schiera con un giardinetto dove si può tenere anche una capra (o uno yak se si preferisce) e delle galline per l'ovetto fresco. Era una sera scura, con nuvoloni, ha anche piovigginato un po'. Perfino il sole si è rifiutato di far vedere il panorama da lì in modo che non ricordassimo che scempio stanno facendo della vallata... e non c'è speranza che si fermino. Oggi siamo andati al monastero di Gandan ad ascoltare i 'chanting monks'. La prima considerazione è che le religioni hanno tutte qualcosa che le accomuna, i rituali, i testi sacri, la fede. Cambiano i colori, cambia qualche concetto, ma la sostanza è sempre la ricerca di rassicurazioni su chi siamo e dove andiamo. La seconda è che mi sento in difficoltà in queste situazioni, mi pare la visita allo zoo. Mi vien da pensare che quelli che impediscono di assistere alle funzioni (vedi molti musulmani) facciano bene. Oggi, ma credo ogni giorno, c'era un viavai di turisti, che giravano in tondo, facendo più o meno confusione, ed io ero una di quelli: mi sono vergognata da morire, loro pregavano, io ero come al cinema. Come al solito sono esagerata, ma credo che il turismo (lo so, parlo proprio io che sono una che ne usufruisce in quantità industriale) troppe volte manchi di rispetto alle tradizioni, allo spirito dei luoghi, ai popoli. Allora andiamo al Museo della nazione Mongola... ennesima conferma che in punti diversi del mondo ogni piccolo gruppo componente l'umanità ha cercato delle soluzioni ed è arrivato ad inventarsi le stesse cose. E poi, mia ignoranza, tante cose che non so ed invece do per scontate, ma anche la storia di regime, nessuno che ti parli mai di alcuni aspetti: chi sa qualcosa della storia della Cina? Ma della Mongolia, poi, nulla in assoluto, a parte Chingghis Khan che poi hanno pure storpiato come nome, per cui non si capisce più chi ha torto e chi ha ragione.Mi hanno incantato i cappelli (ecco un'altra passione) ed una spada dell'età del bronzo e poi la storia dei nomadi ed i vestiti... La guida è stata eccellente, ma molto mi ha aiutato il viaggio in Uzbekistan.9 LUGLIO 2008Partenza. Destinazione Middle Gobi. Sotto il diluvio che si abbatte su UB saliamo su due ‘russian jeeps’ (jeep?! Danno più l’idea di essere stati ‘scippati’ ai talebani dell’Afghanistan, nessuno ci avrebbe scommesso 50 cent ma alla fine dovremo riconoscere che sono due trattori). Inutile dire quali problemi la nostra macchina mostra, ci sono tutti e lungo la strada ne salteranno fuori altri.Riusciamo ad uscire dalla città, nonostante il traffico che oserei definire ‘molto particolare’ anche per me, abituata ad ogni tipo di blocchi e di ingorghi dei più variegati; ma appena fuori città, vallate verdi e animali liberi al pascolo (ora è immediato capire come mai il latte è così buono ed il gelato di ieri era fantastico), le prime gher (ed i primi gridolini di meraviglia, ben sapendo che ne vedremo centinaia – ma siamo turisti, no?) le moto che sfrecciano sui prati (la praticità prima di tutto), qualcuno sfreccia a cavallo, e per propiziarci un buon viaggio verso l’infinito, ci affidiamo al rito dei tre giri intorno all’oovo e 9 sassolini da buttarci sopra – pietra a te fortuna a me – sotto un’incalzante pioggia. Quasi subito termina la strada asfaltata (in ogni caso è un parolone, più buche che asfalto) ed il viaggio iniziato traballante diventa un ‘bungy jumpy’, l’auto lanciata a 80/90 km/h, una velocità che ci sembra folle (ed infatti su quelle piste è follia), sballottolati di qui e di là, con la mano alla vana ricerca di una maniglia cui aggrapparsi--- ma si riesce solo ad acchiappare le mosche. All’improvviso ci investe una nuvola di fumo dal cruscotto: panico, meraviglia, perplessità i vari sentimenti dipinti sulle facce degli occupanti il veicolo. Il mio primo pensiero: oilloc’, è partito il radiatore!! Ma siamo fortunati: ha solo preso fuoco la musicassetta dell’autista. Molto sorry per l’autista ma l’evento è accolto con tacito entusiasmo: 10 gg di musica mongola a pieno volume ci avrebbero azzerato più della mancanza degli ammortizzatori!Si continua a procedere nella tempesta: ogni tanto ci illude e pensiamo che stia per finire ma riprende quasi subito con mini tormente. Che peccato!! Immaginarsi che paesaggio in una giornata di sole, che meraviglia sarebbe stato l’infinito verde!Suona una sveglia: è il lunch alarm della guida. Ore 13.10: dove siamo siamo si pranza sotto la pioggia che continua incessante. Sunny è una guida svizzera per quanto riguarda la precisione nell’organizzazione. Peccato che se avessimo atteso un po’ il sole ci avrebbe dato soddisfazione e avremmo potuto fare un picnic sulle sponde di un lago improvvisato.Colpo di scena: non riparte il van, già preparate al sacrificio di scendere e spingere, un altro colpo di scena: spunta la manovella per avviare il motore – questa è nuova e meravigliosa. Da allora in poi avanti con la manovella… nel frattempo l’altro van è perso nella steppa, ha bucato una ruota a causa di un chiodo, probabilmente l’unico chiodo in tutto il Gobi. Buona fortuna, se questo è l’inizio!!Fra tutta una serie di balzi e sobbalzi, passiamo da verdi vallate ad una sorta di savana priva di acacie, spruzzata di ciuffetti di erba. Ancora gridolini: uh! Le gazzelle uuh! Guarda il falco uuhh! Che sono gru, aironi? Uhh!! Le marmotte (siamo turisti, no?) e via così la jeep ballonzolante avanza nel paesaggio che comincia a mostrarci colline di roccia granitica, montagnole di sassi e sempre meno erbetta ed approda al nostro primo campo di gher della storia (ultra lusso: doccia calda che neanche nell’hotel nella capitale abbiamo avuto; ma la storia della stanza 206, di docce ghiacciate e di risciacqui con l’acqua calda del thermos è un altro capitolo). L’accoglienza (e sarà sempre così) è quella destinata ai grandi capi di stato: tutti corrono all’ingresso per darci il benvenuto.Si riparte per la zona dei petroglifi: Sunny è così entusiasta ed orgogliosa di mostrarceli che non le si può proprio dire che il Sahara è pieno di pitture rupestri. Ballonzolando, ballonzolando arriviamo alla ‘spa’ mongola, un pozzetto coperto da una pietra e con un cucchiaio lì appeso per prelevare acqua curativa per gli occhi (15 gg all’anno per 5 anni e torni a vedere come un’aquila: varrà anche per la presbiopia galoppante?) e se se ne versa un po’ sul capo è un segno di rispetto nei confronti della natura: questa versione mi piace di più.Il monastero del 13mo secolo distrutto nel ’36 durante le purghe staliniste era un mondo di pace e meditazione e tuttora lo è: salendo la collina si giunge alla sommità per godere di un panorama a perdita d’occhio, unica compagnia il vento. Ma non c’è tempo (perché sempre di corsa?!), non si può rimanere a godersi la pace del pomeriggio. All’uscita una pseudo guardia vorrebbe farci pagare più del dovuto. Cominciano le contrattazioni e nel bel mezzo il nostro autista prende la sua moto e va a farsi un giretto. Immagino qualcosa del genere in Italia con la stradale…Per stasera il tramonto è quasi perso, non fa neanche freddo, si potrebbe rimanere qui sulle rocce fino a che non scompare l’ultimo lembo di luce, il vento porta il cinguettio degli uccelli che si stanno preparando per la notte, ma sta diventando troppo affollata ‘sta roccia, neanche stessimo alla stazione; sarebbe bello ora che è buio e silenzio, restare fuori a guardare il cielo stellato, allontanandosi dalle luci del campo, cercando di rintracciare qualcosa di conosciuto, una stella una costellazione, o di sorprendere una stella cadente (ma in Mongolia varrà lo stesso esprimere un desiderio?), ma c’è sempre la paura del freddo in agguato e poi domani la sveglia è alle 6.30… mamma mia, anche qui: meno male che almeno non è per l’ufficio, ma per il Nadaam…10 LUGLIO 2008La corriera traballante oggi ha come meta Mandalgovi per il Nadaam. Il paesaggio diventa sempre più arido, una savana senza acacie, fino a diventare una distesa di sassi e sassolini con pochi ciuffetti d’erba. In alcuni punti il paesaggio è quasi lunare, ciononostante continuiamo ad incontrare gher (quale sarà il plurale?) lungo tutto il percorso, alcune altamente tecnologiche votate al fotovoltaico o all’eolico (da far vergognare noi, i progrediti che nel paese del sole continuiamo a considerare i pannelli solari oggetti misteriosi), alcune con la parabola, tutte con la moto parcheggiata accanto: questo connubio modernità tradizione è davvero intrigante, come sarebbe interessante capire quale tipo di equilibrio hanno raggiunto e quanto tempo durerà.Appaiono i primi cammelli, greggi infiniti di pecore e capre. A Mandalgovi arriviamo in tempo per le gare: siamo gli unici stranieri e questo fa sembrare la cosa autentica e adula l’orgoglio del viaggiatore non turista che alberga in ognuno di noi, nomadi delle vacanze. Ancora una volta colpisce il misto modernità/tradizione, i del indossati per il grande evento, i ragazzi in jeans e maglietta (ancora Nino D’Angelo!!). Gli adulti e gli anziani rispettano rigorosamente il vestito tradizionale, ma le signore si concedono qualche tocco frivolo, la borsetta elegante, scarpe Chanel, cappellini come ad Ascot. La tribuna d’onore è per gli anziani, è bello questo rispetto per chi porta addosso i segni della vita. Le ‘danze’ dei lottatori, le bandiere al vento, l’entusiasmo contenuto degli spettatori, nessun applauso, nessun grido esultante: non so cosa mi aspettassi, sicuramente confusione, invece è un’atmosfera festosa ma pacata a cui certo io non sono abituata. Ci aggiriamo per il mercatino improvvisato ed assaggiamo l’airakh: fatto anche questo. Sembra così stupido voler fare uno di tutto…Ripartiamo per il camp che dovrebbe ospitarci per la notte, ma non sappiamo a cosa stiamo andando incontro. Il paesaggio è meraviglioso, finchè riusciamo a godercelo. Ci sono varie nuvole, batuffoli di ovatta appesi in cielo, quasi sembra che se ti alzassi in punta di piedi potresti toccarle, non riesci a darle una collocazione spaziale, sembrano lontane ed allo stesso tempo vicine perché oltre c’è il cielo infinito. Mi ricordano i quadri di Magritte, in realtà è esatto il contrario: riguardando quel quadro mi ricorderò questo cielo.Stiamo correndo verso l’ignoto, ci siamo persi in un deserto che diventa ogni minuto più inospitale. Incontriamo ancora qualche animale, gli stazzi, ripari per l’inverno, qui e lì e perfino qualche gher (agli abitanti delle quali chiediamo info totalmente inutili). Spunta la considerazione: perché questa gente si ostina a vivere qui, cosa li trattiene? Mi torna in mente il solito pensiero di quando giro per luoghi dove c’è solo sudore e fatica e spesso fame. Anche stamani riflettevo su cosa questa gente poteva pensare di noi guardandoci. Come ci interpreta, chi lavora come un ciuccio tutti i giorni e conosce solo il Nadaam come festa, riesce a dare un significato alla parola vacanza, turismo? Che animali strani siamo per loro?Continuiamo a correre verso il nulla e ad una nera tempesta, intorno a noi si scatena un uragano di pioggia vento e sabbia, fiumi improvvisi si formano e vengono a pararci la strada: che spettacolo, le forze della natura in piena azione, colori vividissimi, anche se è il grigio a dominare, vorremmo godercelo a pieno, ma non ci riusciamo completamente. La tensione cresce, non si sa la direzione, non si riesce ad andarcene da lì. Infine riusciamo ad arrivare ad un paesino conosciuto alla guida ed agli autisti, è già notte, abbiamo girovagato per quasi 9 ore, siamo stremati. Non siamo riusciti ad apprezzare tante cose, accortezze e gentilezze: la stanchezza e la mentalità occidentale ci obnubilavano il cervello. Tre ragazze del paese ci hanno accompagnato per mostrarci la strada fino ad un camp lì vicino. Abbiamo svegliato gli abitanti di una gher per chiedere info e non ci hanno maledetti. Alle 11 di sera ci hanno preparato una cena completa, sempre con un sorriso e mai con scortesia. Ma nove ore di ballonzolamenti e girovagare nel deserto senza sapere dove stessimo andando sono la nostra giustifica. Ora invece lo apprezziamo e siamo contenti di poterlo raccontare a chi vuole ascoltarlo. La nostra ricompensa è stato il cielo stellato e la Via Lattea.11 LUGLIO 2008Arrivare alla Valle delle Aquile è stata un’impresa: ci aspettavamo una giornata di tutto relax ed invece… anche oggi piste impossibili e la certezza di finire ribaltati in uno dei tanti calanchi lungo il nostro cammino prima di giungere alla meta.Mentre eravamo intente a filosofeggiare sulle differenze culturali (oltre che linguistiche) che impedivano di capirci e di capire, il panorama scorreva stupendo a lato, in una giornata limpidissima e tersa.In ogni caso parlare dei panorami oggi mi sembra superfluo. Vorrei solo ricordare l’incontro con una anziana donna, una vecchina piccola piccola, raggrinzita, incontaminata, racchiusa nel suo del azzurro con gli stivali tradizionali: le ho dato una manciata di caramelle e mi ha regalato un dolcissimo sorriso sdentato, un dolcissimo sguardo incassato fra migliaia di rughe ed una carezza sulla guancia. Bayarchlà (come si scriverà?) è l’unica parola che ho capito, considero tutto il resto la sua benedizione. Vorrei poter descrivere la sua espressione, ma non conosco le parole per definire la bontà e la dolcezza delle persone anziane che non sono incattivite passando attraverso i torti della vita e degli uomini, che con semplicità hanno saputo scegliere la saggezza e la misericordia e non l’astio.12 LUGLIO 2008Partenza alla volta delle dune del Gobi. Stamane i primi feriti fra mal di pancia, diarrea ed insolazione. E’ un caldo infernale, un’afa che asfissia , vento pressocchè nullo. In macchina saranno 3500 gradi, il motore sputa in faccia sbuffi di aria bollente, guardare fuori dai finestrini (che non si aprono!) non aiuta: un distesa di pietrisco, un deserto che ricorda altri ‘hamada’. Ci fermiamo per una sosta – boccheggio vicino ad un abbeveratoio dove stazionano un centinaio fra capre e pecore in cerca di acqua. Un secchio permette di prelevarla da un pozzo, un atto di carità far abbeverare queste povere bestie, povere pecorelle che indossano un cappottino di lana a 35°!Arriviamo alle dune, il sole cuoce ancora chiunque non si trovi un riparo, chi ce la fa a salire fino a lassù? Invece, ovviamente, ce l’ho fatta ad arrivare fin lassù, a sedermi a cavalcioni della duna più alta, a godermi il panorama dall’alto, il mare di onde di sabbia che degrada a valle, il silenzio rotto solo dal sibilare del venticello: finalmente un po’ di pace sulla terra; corse e capriole nella sabbia per scendere giù, tanta sete e trovare ad accogliermi disgustosa acqua calda.Anche al camp, apprezzo la calma ed il silenzio, silenzio che non conosciamo più, estraneo alla nostra quotidianeità. Si avvicina un leprottino, ignaro della mia presenza o, forse, è ancora molto fiducioso del mondo. Una calma serata estiva, il tramonto illumina e colora di rosso dune e montagne, una gradazione di colore che vira dal rosa corallo al brunastro violaceo… non è questa visione (questi tramonti li conosco, ho la fortuna di potermeli godere a casa mia), è la quiete, la pace interiore che rilassa i muscoli ed il mondo diventa lontano, non esiste, mi sembra di essere un’altra persona in un’altra dimensione, un’altra vita, cosa mi aspetta, sempre e comunque, al ritorno è un ricordo/pensiero lontano...13 LUGLIO 2008La corriera traballante continua a macinare km in questo deserto dove si alternano un po’ di vegetazione, un po’ di erbetta, qualche cespuglio… steppa, savana, deserto qualsiasi nome gli si voglia dare è l’infinito che circonda il nulla, sembra che non possa esistere altro al di fuori di questo, che non ci sia niente di diverso oltre l’orizzonte. Il panorama cambia leggermente ma solo per diventare una semplice distesa di pietrisco brulla.Oggi manca il cestino per il pranzo, pare che il camp si sia dimenticato di prepararlo. Sunny decide di fare spesa (sorpresa: ma dove?) e cucinare per noi. Ci fermiamo ad una gher, nelle vicinanze c’è perfino un baretto con bancarelle di souvenir (sono stata capace di fare shopping anche nel deserto del Gobi), chiede di poter usare stufa e pentolame per poter cucinare per noi. Nel nostro paese, in campagna, da qualche parte, esisterà ancora una tale forma di ospitalità? Ricordo il diario di viaggio di un giornalista di Repubblica: qualche anno fa, d’estate con la vecchia 500, attraversò l’Italia seguendo la dorsale degli Appennini, percorrendo le vecchie statali fino a giungere alla famosa Nazionale delle Calabrie per arrivare alla punta dello stivale, sbuffando su e giù per valli e cime e passi e paesini accartocciati su spuntoni di rocce, senza aria condizionata, alla scoperta del paese che esiste dietro le vetrine della Tv e dei giornali. Forse è così che dovremmo viaggiare in Italia per riuscire a conoscerla davvero.Alla gher c’è grande attività perché è stata appena uccisa una capra ed inizia la sua dissezione. La dissanguano, la scuoiano, sistemano le varie parti per preparare tutto per la conservazione, non si butta via niente. Il sangue è raccolto in una pentola, a cui hanno aggiunto qualcosa (cipolle? spezie?) e poi travasato tutto nelle budella. La nostra amica tedesca esclama ‘das Blutwurst’, ha ragione sono le nostre salsicce di sangue di maiale, il ns. sanguinaccio, ma chi li vede più e, soprattutto, chi li mangerebbe più, per di più credo che sia ancora vietata la produzione.In poco tempo della capra è stato sistemato tutto, alla vista resta solo la pelle lasciata ad asciugare. Noi, curiosi, intorno a loro per seguire le operazioni, gli attori, abbastanza meravigliati del nostro interesse, avranno pensato: ma, a casa loro, non mangiano? La considerazione è che quasi nessuno di noi sa quello che mangia, ormai il cibo che ingurgitiamo è totalmente slegato dalla sua provenienza e dal sudore e dalla fatica necessari per farlo arrivare sulla nostra tavola, la fettina di carne non è legata al manzo da cui proviene, ma alla vaschetta di polistirolo da cui, evidentemente, si crea per gemmazione spontanea.Non sono riuscita ad assistere alla recisione della giugulare né al dissanguamento dell’animale, anche se era già morto. Non sappiamo più cos’è la morte, in modo infido la nascondiamo o la spettacolarizziamo per esorcizzarla, ci illudiamo che morte e vita non siano le due facce della stessa medaglia, mentre convivono quotidianamente, una è parte dell’altra e qui, come in tutti i paesi ‘arretrati’, la loro familiarità con la morte ci ricorda che questa è la realtà delle cose. Come è diventato ipocrita il nostro approccio alla vita, come se una non facesse parte dell’altra.Una bimba di 10 mesi è lasciata sola in un angolo, mentre il resto della famiglia lavora intorno alla capra; nonostante non abbia proprio nulla con cui giocare e distrarsi rimane lì, buona buona, guardandosi intorno. Quella che deve essere la nonna, la prende e la poggia in piedi (in piedi?!) sul predellino della moto (sulla moto?!). Già mi figuro un tonfo colossale, una catastrofe umanitaria, e senza lasciarmi un secondo per capire che sto facendo, non so, chiedere un permesso, la prendo in braccio, convinta che sia più sicura fra le mie braccia che non barcollante su di una moto: sarà poi vero?Sunny nel frattempo sta cucinando, anzi, friggendo, panzerotti (ottimi!!) ripieni di patate. Il dovere dell’ospitalità contempla offrire qualcosa, in questo caso yogurth di capra da un secchio di plastica. La preoccupazione dell’igiene è sparita da quando ho messo piede sull’aereo, se dovrà essere diarrea che diarrea sia, ma certo non mi lascio scappare l’occasione, con lo zucchero diventa un delizioso dessert.Ancora altro deserto infinito, prima di vedere spuntare delle collinette verdeggianti, punteggiate di rocce scure, ci accampiamo sulle rive del fiume Ongi, anche stavolta distrutti.E’ il compleanno di una compagna di viaggio: si brinda con un liquore mongolo ricavato da un qualche frutto, ovviamente non si è capito quale, ma che è coltivato solo dai mongoli e dai cinesi. Come al solito, i terribili cinesi sono arrivati in un secondo tempo ed hanno rubato la primogenitura e la notorietà ai mongoli. All’annuncio di un brindisi con vino mongolo, siamo rabbrividiti, invece è buono, ricorda un vino liquoroso del tipo marsala, anche se non è vino.La giornata si chiude con una passeggiata lungo il fiume ed un bel tramonto che colora le nuvole, le colline, il verde e tutto il panorama circostante regalando una confortante sensazione di pace.14 LUGLIO 2008Prima di riprendere il viaggio verso Kharakorum, visita alle rovine del monastero oltre il fiume. Ennesima spiegazione su Buddha e sul buddismo, il mandala, il destino, anzi la predestinazione, ancora una volta cerco di mettere insieme i tasselli per avere un quadro completo, ancora una volta la mia vis polemica trova una serie di contraddizioni.Si torna a vedere un po’ di verde, le nuvole sospese a mezz’aria, come se fossero tenute con un filo dall’immensità del cielo, oppure sono solo dipinte su di uno sfondo celeste?Il primo stop nella steppa mi regala una serie di punture di moscerini-dracula. Il braccio si sforma e continua a gonfiarsi a dismisura durante tutto il giorno: sarebbe da preoccuparsi se non fossi a conoscenza delle mie allergie; c’era da aspettarselo prima o poi con tutte queste bestie libere al pascolo.Il panorama comincia lentamente a cambiare: sosta per il pranzo, ancora niente alberi ma almeno del verde. Nelle vicinanze delle gher, da cui partono alla nostra volta due bambine che improvvisano per noi uno spettacolino: ci viene riferito che è una classica canzoncina per bambini, normalmente accompagnata da una sorta di recita che prevede l’uso delle mani, ma le loro sono colme di caramelle penne e quaderni (nostri, ovviamente).Raggiungiamo verdi colline, di nuovo freddo, ricompaiono vacche e qualche yak, nuvoloni neri si addensano, ma a Kharakorum ci attende un sole stupendo che illumina vallate verdissime, per un attimo ho la sensazione di essere al Kronplatz.Prima di giungere a destinazione c’è la sosta al monastero di Shank, accompagnati da un monaco un po’ sonnolento (o ha raggiunto la vera pace interiore?). Riparte la discussione su buddismo, religioni, filosofia, cristiani. Persevero nella mia idea che le religioni sono sostanzialmente uguali nei concetti, applicati in modo diverso, e mi trovo a difendere il Cristianesimo o, meglio, il mio modo di intendere la religiosità e la spiritualità che è in ognuno, che si estrinseca in modi diversi secondo le diverse sensibilità. Viaggiare è sicuramente un modo di conoscere, scambiare opinioni diverse, chiarirsi le idee.A conclusione della serata, il concerto di musica tradizionale mongola, gli strumenti tipici (il famoso violino con testa di cavallo), il canto ohmi e… , sorpresa!, ‘O sole mio, un momento di orgoglio e riscatto del popolo napoletano. E’ la seconda volta che in posti dimenticati dal mondo ho l’onere di cantarla date le mie origini, dovrò decidermi a studiarla approfonditamente. Ma chi l’avrà fatta arrivare fin qui? Elvis? Non mi sembra che i Beatles l’abbiano mai cantata.15 LUGLIO 2008Le tre ore di visita al monastero di Erdene Zuu passano fra altri tangka, altri lama, altre spiegazioni sul buddhismo: ulteriori spiegazioni, invece di chiarire, aggiungono ancora più confusione. Decido di rimanere con i miei dubbi e nella mia ignoranza, Sunny è una fervente credente e ritengo sia inutile continuare a chiedere precisazioni, ma fra di noi nel gruppo continuano le discussioni su cosa, perché e chi. I giri culturali continuano nel pomeriggio, su e giù per le colline intorno Karakorum. Arrancando sbuffando per raggiungere la tartaruga in pietra, si ferma il van: stop momentaneo, nessuna avventura, è solo finita la benzina.Il clou della giornata è la visita alla famiglia nella loro gher oltre il fiume. Sunny ci ha insegnato le regole principali di comportamento, secondo la buona educazione mongola. Riusciremo a comportarci bene ed allo stesso tempo ad essere simpatici, spontanei? Come vivono questa visita chi ci ospita: sono imbarazzati, curiosi? Cosa si aspettano da noi e come ci inquadrano? In fin dei conti queste sono domande inutili ed oziose, quello che è importante è vivere semplicemente questa esperienza con l’emozione che riserva una cosa genuina, essendo attore e non spettatore.Il patriarca della famiglia risulta subito simpatico e per nulla a disagio. I riti di ospitalità prevedono l’offerta dei loro prodotti: lo yogurth, una sorta di burrata (buonissima, da far rimpiangere il non avere con sé una fetta di pane ‘cafone’) ed il loro formaggio secco, tremendo: perché non hanno una tradizione di formaggi? Con questo latte sarebbero speciali!! Assistiamo alla mungitura della giumenta, si affastellano una serie di racconti sulla loro giornata di lavoro e sulle loro attività, mi chiedo quanto tempo ancora potrà durare questo stile di vita. Penso alla transumanza dei pastori delle mie parti, di come oggi sia cambiato tutto, giustamente, vivono meglio, ma anche di cosa abbiamo perso. Egoisticamente rimpiango gli zampognari che scendevano in città e che insieme alla signora delle caldarroste annunciavano che Natale non era lontano: sì, è molto egoista, ma non si può cercare una mediazione? Forse bisogna amare talmente tanto la propria terra e le proprie tradizioni per rinunciare alle comodità. Ed il vecchio patriarca, dopo una serie di nostre domande più o meno futili, ci pone la domanda più intelligente: ‘nel vostro paese c’è qualcuno che vive come noi?’ Cosa rispondergli? Come spiegarglielo, il nostro paese?Il finale di giornata è contrassegnato dal guado del fiume con il pulmino, l’acqua quasi tracima dentro l’abitacolo, ma ce la facciamo ad attraversarlo e ad arrivare salvi sull’altra sponda, uno spicchio di avventura da raccontare anche oggi.16 LUGLIO 2008Giornata al rallentatore… Si vede qualche yak, continua la steppa, ‘goat/sheepboys’ a cavallo, a guardia dei greggi. Poi, un altro monastero in una valle che ricorda la spianata degli ulivi, e poi ancora steppa. Arriviamo per pranzo al nostro alloggio, alla vista dell’ottava insalata russa di fila mi butterei giù dalla sedia, e neanche il pensiero di bambini africani denutriti e della siccità in Etiopia riesce a farmi ingurgitare un solo pezzettino di cibo. Dov’è una semplice patata bollita? Mi lascio convincere a partecipare ad una passeggiata a cavallo nel pomeriggio che risulta deludente… andare al passo con un ragazzino che tiene le redini è una pena, non ha senso in questo paesaggio; nella steppa ha senso una galoppata, se il caratterino dei cavalli mongoli non consente di andare liberamente, allora meglio andare a spasso con i propri piedi. Anche se siamo nel regno di Chingiss Khan. In questo pomeriggio di relax e riposo riesce più facile lasciarsi andare ad ogni sorta di considerazioni e pensieri, fra tutti, l’incredibile pulizia dei bagni dappertutto e gli ineccepibili servizi di accoglienza ad ogni camp.17 LUGLIO 2008Un’altra tappa di avvicinamento ad Ulaan Baatar. Sunny non si sente bene. Cerco di interpretare i suoi pensieri, al di là di quello che prova per il dolore fisico. Sicuramente preoccupazioni sul futuro lavorativo, è l’inizio della stagione, non può permettersi di stare male, non esiste INPS, c’è solo l’incertezza del domani. Com’è difficile entrare in contatto con l’anima di una persona e trovare il modo di rassicurarla.Stanno riparando la strada asfaltata che porta alla capitale, forse i lavori sono iniziati anni fa e forse non termineranno mai, a giudicare dal fatto che non si vede nessuno al lavoro. Motivo per cui ognuno si sente legittimato a crearsi la propria strada… tante piste zigzaganti nella steppa, tante ferite nel verde dei pascoli. Se non fanno in fretta rimarrà poco di verde e di pascolo. Non sfuggo alla deformazione professionale ed elenco le mie considerazioni pedoagronomiche: la struttura e la tessitura del terreno non sono delle migliori, il clima e gli eventi meteorici di tale intensità (vento, pioggia, neve, gelo, sole e caldo) producono fenomeni di erosione notevoli. Le nuove piste che continuamente vengono create scoprono sempre nuovo terreno, rovinando, distruggendo il manto erboso e se argilloso si formano da subito piccoli e grandi calanchi. L’erosione prosegue trionfante dove non trova più quel po’ di erbetta e ti accorgi che spesso sotto quell’erbetta c’è sabbia, solo sabbia e la stessa distesa di erba che in distanza sembra un tappeto uniforme, in realtà è formata da tanti ciuffetti sparsi di piante diverse, che nei millenni hanno rosicchiato il loro diritto a vivere ad ambienti inospitali, non si può chiedere loro di più, non è giusto continuare ad umiliarle stritolandole sotto gli pneumatici. Quello che l’esperienza millenaria dei nomadi, che saggiamente hanno preservato la loro terra spostando continuamente mandrie e greggi, antesignani dell’ecosostenibilità, è oggi spazzata via da incuranti nomadi motorizzati.Giungiamo all’Hustai National Park insieme a due ciclisti franco-belgi, noi più o meno comodamente seduti, loro dopo un peregrinare di migliaia di km durato quasi due anni. C’è da riflettere su cosa significa muoversi per conoscere. In serata si parte alla ricerca dei cavlli takhi, i veri cavalli liberi e selvaggi: di libero nel mondo è rimasto ben poco, in effetti anche loro hanno un recinto, però almeno non se ne accorgono.La buona notizia è che Sunny si sente molto meglio, la forza della determinazione, e a cena (questa sera abbiamo un tavolo da biliardo come desco) ha mostrato di nuovo il suo sorriso e la sua allegria.Ultima sera a guardare il cielo davanti la nostra gher turistica, un cielo non tanto stellato. Ogni sera si rannuvola sempre un po’, ma è bello comunque. Nonostante gli schiamazzi di bambini e locali festeggianti chissà cosa, ogni tanto si riesce a godere il vero silenzio. La luna è quasi piena, da dietro le nuvole sparge una luce spettrale.20 LUGLIO 2008Rientrati alla base. Qui solito traffico, molta afa e cielo uggioso. Ho il quadernetto con le mie memorie... questa volta sono stata brava, tutte le sere ho scritto qualcosa scacciando pigrizia e stanchezza.Le ultime notizie sono che i prezzi stanno aumentando alle stelle e che prevedono un agosto difficile perché in occasione delle olimpiadi la Cina chiuderà le frontiere e quindi nessun rifornimento di cibo. Sarà il solito sciacallaggio? Ora non resta che comprare i regalini a chi si aspetta sempre qualcosa da tanto lontano e poi... lunedì si torna in miniera.
GEREntro nella gerCome dentro un uovoFuori posso immaginare l’infinitoDentro è come in un riparoNon è come casaTana di marmotteÈ sempre là fuori anche se sono entratoDopo cosa ci aspetta a noiChe dobbiamo sempre dimostrareDi aver messo in piedi qualcosa.L’OSPITEÈ rimasto del tè in fondo alla teieraNon posso far miracoli per tenerlo in caldoPrima o poi la notte arrivaE l’ospite avrà la precedenzaOra sella il tuo cavallo e non pensarciÈ per il tuo non-padre che lo faiLa notte non è lunga abbastanzaIl tè non è tanto freddoL’ospite tardaEd in fondo le stelle sono meglio di questa baracca.UBRIACHIQuesta notte il vento è fresco sotto la tendaSono soloNella terra sognataLontano gli ubriachi corrono in motociclettaIntorno vastità e polvereForse è così la lunaSpazzata dal soleEd io che ho pensieri terreniDi cosa posso ubriacarmi c’è altro oltre la solitudine?GÖVI-ALTAJConosco una famiglia e non potrei usare un altro nome,una famiglia è tre ger, quattro genitori e cinque figli,due cani e una bicicletta senza catena,otto cavalli e centinaia fra capre, pecore e mucche,un pannello solare, una parabola e nessun televisore,una jeep fuori uso, una latrina, un palo col cesto da basket,cumuli di sterco di mucca seccato e rami per la stufa,questa è una famiglia.COSE DA RICORDARE- il cavallo che scivola sulle dune di sabbia- il verso del clacson fatto dal piccolo Osakkam- il pisolino pomeridiano fatto nella ger- il rumore delle pecore che strappano l’erba- la pecora mamma che bela e l’agnello che tra centinaia la riconosce e attacca a succhiare- (ovviamente!) i tiri a basket con sfondo le dune del GobiRICORDARE- Ristoranti negli alberghi sovietici. Stile, arredamento, tovaglie, ritardi e silenzio.- Il poliziotto che pranza col buisnessman, e si dicono cose all’orecchio, le ragazze che escono dalla stanza privata per ordinare altra vodka ridendo, se guardo oltre la porta lasciata aperta vedo ufficiali della polizia con gli sguardi alcolici. E penso che come sempre in questi casi, le persone migliori sono la cameriera e la giovane cuoca e noi, sono sempre quelli senza potere ad avere l’aspetto migliore.ULAN-BATAAR - MOSKOW - ROMESuccede che le scritteDonne che erano bambineScarpe cinesi coi tacchiQualche volta vestitiO il sole ti bacia il senoO da qualche parte sono riflessoPiù volte e più veloceVorrei essere non evanescenteVentiquattrore apertoSucco di frutta con polvere al 10%Appoggiato al corrimano sovieticoTV LCD migliaia di polliciTrasmette le novità U.S.A.E poi la vedo pensare all’ombra nel parco screpolatoDalla porta sul retro la giovane cuoca sorrideSono il principe azzurro passato più volteRimane solo il ricordoLa gonna jeans ti sta corta abbastanza mentre rollo la sigarettaNon piegare le lebbra cosìHo solo un bigliettoCittà di una stradaScrepolataMarciapiedi sotto il peso di KOREAN AIRLINESVastità al tramontoOgni cosa è cambiataCalpesto questa sabbia di mantra perpetuoCanto di golaMacellano la pecora non sacrificataTalvolta è notte per tutto il pianetaOrione tramonta prestoÈ dietro quella collina e non ha salutatoINTERNET 24 ORE APERTONon ho tutto questo tempoOggi il mio volo parteULAN BAATAR - MOSCOWSU0564Ho un ora per accettare la mia stupiditàUltimo della lista poso 9DOperai posmoderni annaffiano sovietiche siepiQuesta volta niente medaglie per la parataAnarchia alla vodkaPerché l’uomo d’affari è sempre grasso?Di chi era il compagno di banco?Ma è sempre stato così grasso?Ora gli piacciono le donne magreMa a loro?Il potere consuma da dentroSi vede la tossicità dagli occhiLa luce è cambiataLà dentro bruciano impianti di combustione e stritolano cementoLe tue gambe nascondono la tua AsiaUn profumo già maturoOfelia bella e onestaMuore impazzita nel traffico visionario di questa arteria sperduta e sprecataGioco per bambine intelligentiAll’aeroporto si aspetta in silenzioMentre hostess raccattano giapponesi dispersiVoce dal megafono e tutti aspettano in fila tranne i bambiniIo sono quello pieno di polvere e dentifricioMONGOLIAN DUTY FREEFIRST CLASS LOUNGESandwich morsicatiTroppa senape sul tavolo di plasticaC’è sempre un neon che frigge da queste partiHo una battaglia d’acqua scampata all’11\9Scontrino pronto messo in tasca come una poesiaL’aereo si muoveIo seduto in modalità apertoModalità poeta introversoModalità io ho visto il desertoNon ce la faccio sono in pausaHostess col culo troppo grandeL’Europa ama la minima distanza tra due individuiNon sopporta il caldoNé il silenzioEppure i due si riconosconoStesso parco giochi da bambiniScivolo altalena scivolo presi per manoScivolo altalena presi per manoOra di cena di nuovo domaniHai la faccia dell’ultimo viaggio mentre mostri la maschera ad ossigenoOcchi lucidiVuoi cadere nel tuo specchio per trucchiSpuntano pastelli tra la steppaSempre odore di qualcosa che bolleLatte yogurt formaggioSenza etichettaSenza data di scadenzaBatoktok con polo nikeNessuno lo sa laggiù nel GobiMai silenziosoJeep sporca e fermaTirare su con il naso mentre l’anima cerca di uscireCi siamoAnima aggrappata all’ala sinistra del Tupolev vecchio siberianoLibretto giapponese su carta cineseParola d’ordineNon guardare indietroLo hai fatto?Le unghie laccate ora cigolanoRicordo Sain Bain NurParole senza pauraPolvere nella boccaInverno, lupi, e quelle stelleDavvero credi che la notte sia una coperta bucata?Arjuna Cecchetti
Sono tornata dalla Mongolia. Che dire? Mi ha rubato il cuore. I suoi paesaggi, la gente, la gentilezza l'ospitalità: non ho parole per descrivere la tristezza nel lasciare quelle terra che in soli venti giorni mi ha regalato cosi tanto. Ma allo stesso tempo ho il cuore pieno di gioia perché so che presto ci tornerò. No, non era la solita malinconia di fine vacanza quando saluti i compagni di viaggio e ti rattrista il tornare alla vita di tutti i giorni. E' qualcosa di più. Prima di partire mi avevate scritto: "La Mongolia è lo specchio della nostra anima. Ci si può perdere e ci si può trovare". Io mi sono trovata. Sono stata così fortunata da vedere il Naadam vicino al monastero di Amarbayasgalant, di trovare una guida e due autisti con i quali è nato subito un rapporto speciale e l'ultima sera nessuno di noi ha risparmiato le lacrime.Serena PinziIL RITORNOLe parole scritte nel mio precedente diario di viaggio racchiudono le emozioni provate al rientro dal viaggio fatto lo scorso agosto. In Mongolia ci sono tornata a Novembre questa volta per lavoro.Finalmente la seconda volta ho potuto cogliere quegli aspetti della popolazione che mi erano mancati nella vacanza estiva. Non ero più una turista di fronte alla guida o agli autisti ma una semplice amica. Alcune persone si chiedono perché finito il viaggio non è facile rimanere in contatto con le guide che il più delle volte sono coloro che rendono il nostro viaggio indimenticabile. Molte volte loro ci vedono come “clienti”, persone da accompagnare in giro, da far ridere, da far divertire e ogni tanto da far avvicinare alla loro cultura. Molte volte noi “clienti” sembriamo più interessati a far capire loro quanto la nostra cultura europea sia più evoluta rispetto alla loro e quasi mai vogliamo realmente entrare a contatto con le loro usanze notando soltanto la scarsa igiene del cibo consumato nelle gher e preoccupandoci solo se quello che ci offrono ci farà male alla pancia e ci costringerà a passare qualche ora in bagno.A Novembre mi sono liberata da questa etichetta di europea saccente e finito il mio lavoro ho accettato l’invito dei miei amici mongoli a festeggiare il compleanno di una loro amica che vive in una gher nel parco del Terelj. Ho vissuto un’esperienza unica. Abbiamo comprato una torta di compleanno dal sapore di cartone ma dall’aspetto appetitoso. Sono stata accolta nella loro casa come un’amica di vecchia data, con loro ho bevuto litri di te’ salato al latte (caspita non ho avuto problemi di stomaco..), ho aiutato la padrona di casa nella preparazione dei buuz, ho riso con loro nel vedere che non ero capace a prepararli, ho usato le mie tre parole di mongolo che naturalmente in pochi hanno capito ma poi mi hanno aiutato a migliorare la pronuncia, ho mangiato, con le mani senza posate, pezzi di carne bollita arrivata da non so dove e cucinata in un pentolone usato anche per cuocere te’ e buuz, ho visto attingere l’acqua al ruscello vicino la gher e la padrona di casa, la festeggiata, che non ha toccato cibo fino a quando tutti noi fossimo sazi. Come da tradizione noi donne abbiamo svolto il nostro lavoro nella parte destra della gher.Ulaanbaatar a Novembre e’ diversa da come l’avevo vista in estate. Quasi inesistenti i turisti in giro per le strade della città. E’ piacevole, anche con -15, camminare per le strade e vedere che se si è urtati per caso da qualcuno subito quella persona sconosciuta si gira e ti tende la mano sempre come da loro tradizione. I bambini di strada affollano l’uscita dei locali frequentati dagli uomini d’affari, è dura non dare loro qualche soldo, solo la visita presso i centri di associazioni dove i bimbi sono aiutati davvero ci da la forza di desistere. Seduta in un pub bevendo vodka, ascoltando musica guardando gli amici maschi giocare a carte ho passato ore magnifiche con le amiche mongole discutendo di sogni, di viaggi, di preoccupazioni per l’amore che non arriva, di speranze di una vita libera e felice le stesse conversazioni che affollano le serate con amiche italiane... anzi no qualcosa di diverso c’è: io ho un passaporto europeo, poche pagine che mi permettono di viaggiare libera in tutto il mondo, di decidere dove studiare dove vivere o solo dove passare una vacanza. Alcune di loro sognano solo di passare un inverno in Italia per vedere com’è vivere con temperature che raramente scendono sotto lo zero.Vorrei aiutarle a coronare questo sogno ma la burocrazia me lo impedisce. Vorrei consigliare a tutti i futuri viaggiatori di partire con la voglia di scoprire una popolazione unica, piena di tradizioni e contraddizioni e di non giudicare severamente i loro comportamenti a volte incomprensibili a noi occidentali. Serena Pinzi
Roberto Chiodi è giornalista e appassionato di auto storiche. Ha partecipato al rally Pechino-Parigi sulle orme del viaggio di Barzini, a bordo di una Alfa Romeo Giulietta TI del '57. Ecco le pagine dedicate alla Mongolia.La giornata più nera - 30 maggio 2007Frontiere, ritardi, ripartenza alle 13, 18. Dopo una ventina di km di sterrato si rompe il montante dell’ammortizzatore. Provo a fissarlo con il fil di ferro, vengo sorpassato da tutti i concorrenti, una ventina, partiti dopo di me, fatta eccezione per la 105 dell’equipaggio femminile, anch’esse con problemi di andatura. Piste e tracce varie, ci allontaniamo un po’ da quella principale, torniamo indietro. Sopraggiunge un fuoristrada dell’organizzazione e ci consiglia di andare avanti ché tanto le piste si ricongiungono. Dopo un po’ ci insabbiamo. Altrettanto la Citroen. Vani tutti i tentativi per ripartire, l’assistenza dice che verranno a prenderci. Passano più di tre ore, sotto il sole del pomeriggio e folata di sabbia. Ritelefoniamo, si sono insabbiati anche loro!. Riusciamo a disincagliare la Citrroen copnm la forza della disperazione e con quella a tirar fuori dalla buca anche la nostra Alfa. Riprendiamo la pista, ci raggiunge un camion dei Nomads, organizzazione locale di appoggio. Sono le 18: sassi, buche, sabbia, ondulée. Mi si affievolisce la batteria, le signore della Citroen spaccano in una buca di sabbia il parafango. Fermi per sistemarlo. Fa notte e la batteria muore. Passa a condurre la Citroen, in tutto riusciremo a fare appena cento chilometri. C’è un villaggio, Nomads va a cercare una stanza. Alle 3 di notte siamo dentro i sacchi a pelo stesi su due tavolacci. Abbiamo messo la sveglia alle 6,45 perché dobbiamo chiedere che ci mandino un meccanico. O che ci affittino un camion.Alla rincorsa – 31 maggio 2007La risposta e' che arriverà' – chissà' quando – un camion per portarci a Ulan Baator, Previsione ottimistica, un giorno a mezzo. Siamo rassegnati. Ma anche i meccanici hanno avuto problemi, dozzine gli insabbiamenti e le rotture. Arrivano, ricaricano la dinamo, alle 10 ci mettono in condizione di ripartire. Cento chilometri supertosti nelle prime quattro ore, pieno a Sainishand e si va ancora per oltre 400 e passa chilometri. Difficile tenere i 40 all’ora, ma l’ultimo tratto è una nuova, splendida, riposante striscia di asfalto che porta dritti alla capitale. Tramonto in superscope Technicolor, ma poi sosta perché il sole in faccia acceca completamente. Ne approfittiamo per mangiare un po’ di parmigiano (siamo digiuni da 36 ore…).Alla periferia della capitale finisce l’incantesimo: tanto traffico, tante luci perennemente abbaglianti e l’irrinunciabie smarrirsi in città. Sono tutti curiosi della nostra macchina, un gruppo di ragazzi, saputo che siamo italiani, mette nel mangianastri “Parole, parole” di Mina. Ore 23, cena fredda, ma finalmente passabile con pollo riso e gelato. Le signore della 105 non si sono fermate al villaggio, a Sainishand sono arrivate alle 9 di mattina e alle 9,30 sono ripartite. La classifica? Siamo 27 di categoria e abbiamo una macchina da riparare. Però siamo rientrati in carovana e domani c’è un giorno di sosta.C’è Santo Stefano - 1 giugno 2007Cerco di braccare subito Peter, il capomeccanico. Ciri ed Elio mi distraggono, dicono di andare con loro, ma io voglio restare in fila e farmi aggiustare l’ammortizzatore. Insistono, sto per arrabbiarmi. Ma era solo per farmi un sorpresa, dietro di me ci sono i baffi e il sorriso simpatico di Stefano Ruggeri, l’amico con cui avevamo progettato di fare questa gara con le “500”. Si mette a disposizione con i suoi “scudieri”, un ragazzo con un Suv che parla bene inglese e un meccanico di memorabile orecchio e manualità. Gli scagnozzi di Peter perdono un sacco di tempo per montare l’ammortizzatore ma alla fine dell’opera Celestina sembra sciancata. Stefano capisce che hanno montato l’ammortizzatore posteriore davanti! Rita torna avventurosamente in albergo (qui è festa nazionale, tutte le famiglie in centro. In macchina, ovviamente) a sistemare le vettovaglie. Nel tardo pomeriggio c’è una lista di lavoretti da fare che vengono quasi tutti sbrigati, sempre con la supervisione e la competenza di Stefano. C’è un problema con la frizione, il cuscinetto reggispinta geme se premuto a fondo. Domani gli scudieri andranno a comprarne 3-4 compatibili. Ma soprattutto Stefano se li porta dietro, con noi, per le prossime tappe in Mongolia. E si caricherà tutti i pesi che gli vorremo affidare. Due giorni fa ci sentivamo perduti, oggi siamo superprotetti e pronti ad affgrontare nel migliore dei modi la parte più difficile dell’avventura.Nel tepore della gher - 2 giugno 2007Soffia un vento da giorno del giudizio, freddo, fortissimo e tagliente. Lungo la strada ha sollevato polveroni di sabbia rossastra, che penetra dappertutto. Ma qui nella ger, la tenda circolare di feltro e legno che i pastori nomadi sanno issare in pochi minuti, l’ambiente è confortevole. Due lettini, mobiletti, una stufa di ferro nel mezzo che emana un confortante tepore. Oggi siamo filati senza problemi, agili sugli sterrati e dignitosi in asfalto. Una prova speciale sabbiosa, veloce e senza tante insidie, al punto che abbiamo superato l’Aurelia partita due minuti prima di noi. Partenza dall’opera house, una grande piazza, con bande e suonatori, figuranti e un politico importante che deve avere investito tutti i suoi risparmi nei denti d’oro. Ciriminna si è ritrovato alla partenza senza benzina e l’hanno dovuto spingere. Poi, ha rotto un giunto. Per fortuna che c’era Santo Stefano , pronto ad aiutarlo. Rita ha avuto da ridire con Philip che aveva fatto scrivere su Internet che c’eravamo insabbiati (con noi nella foto) 40 km fuori dalla pista. Obbligo di correzione. Ai sensi dell’articolo 8 della legge sulla stampa?Aiutati dai Pinguini – 3 giugno 2007Ci toccava la tenda stanotte, ma gli scudieri di Stefano hanno trovato stanze, garage e officina. Siamo una squadra fortissimi… Peccato per Ciriminna, ha rotto il mozzo di una ruota, difficilissima la saldatura, dovrà tornare in camion a UB e di lì provare a raggiungerci passando da nprd. Molto tosta la tappa. Finito l’asfalto (ingioiato a 85 all’ora), prima speciale corta e nervosa. Piste a nono finire con un tratto montagnoso ripido come un sesto grado. Per superare la Brasier dei tre Pinguini finisco in un tratto sabbioso e mi blocco. Loro tre scendono e a spinta mi tirano fuori. La seconda speciale è un lungo tratto ondulée che affrontiamo di gran carriera, l’unico modo per soffrire di meno. Insomma, mai un minuto di sosta, la macchina che tira bene. Eppure, alla fine accusiamo mezz’ora di ritardo sulla tabella di marcia, nonostante l’ora di tolleranza. Questo per dire quanto siano tirate le medie su questi percorsi. Ventesimi in classifica, ma si parla già di almeno venti auto in grosse difficoltà e molte costrette al ritiro. Affascinante il monastero visitato prima della partenza, paesaggi mozzafiato. E due ore per fare rifornimento dopo l’arrivo.C’è chi sta molto peggio - 4 giugno 2007Deserto e sabbia, pietre e polvere, buche e tremendo ondulée. E ancora polvere, tantissima polvere. Tappa di 390 km, uno solo d’asfalto. Il concetto di vastità rappresentato in natura. Ma anche quello di desolazione. Rarissimi esseri viventi e noi che arranchiamo verso colline e vallate immense. Ma dopo 65 km, ecco un rumore infernale, stavolta è l’ammortizzatore anteriore sinistro. Tre tentativi di stringere i dadi allentati dopo che si sono persi i gommini. Ci aiutano tre camionisti fermi nel nulla. Quando si scottano toccando il collettore di scarico rovente, ridono. Ma il rumore rimane. Continua navigazione con il Gps per non perdere mai la traccia giusta tra le centinaia che si presentono davanti, Pietraie, sconquassi, botte tremende, macigni che non si riescono a scartare e che ci colpiscono duramente. Lungo la strada tante le macchine ferme, qualcuno ha già aperto la tenda e attende assistenza. Brutte notizie dal fronte Ciriminna, fermo da ieri per una rottura: ancora nessuno è passato a prenderlo. Stefano non ci ha potuto aiutare perché fino a mezzogiorno ha seguito una saldatura per conto di Theo…Qui ad Altay abbiamo una specie di suite, c’è anche la vasca da bagno ma l’acqua è gelata. Finita la cena alle 23, gli scudieri vanno a lavorare un po’ su Celestina. Senza di loro questa parte del rally, da tremenda si sasrebbe trasformata in infernale.Le peggiori piste della vita – 5 giugno 2007Strade così mai nella vita! Dieci ore di massacro, con sofferenze anche fisiche. Le mani a un certo punto non ce la facevano più a reggere il volante e le scariche di un percorso mai visto così terribile. Decine e decine di chilometri di un ondulato squassante, che non consentiva alcuna andatura e che sembrava capace a ogni metro di spaccare qualsiasi componente della vettura. Oltre tutto, rendeva la macchina ingovernabile ed esposta a buche, sassi, voragini di sabbia e di pietre. Abbiamo anche bucato e il crick, ovviamente, non funzionava per la troppa polvere negli ingranaggi. Ce lo hanno prestato i danesi della Bentley argento e nera. All’arrivo giungono voci di rotture e disperazioni lungo tutta la strada, gente rimasta accampata dove il deserto è più sassoso, impenetrabile e brutale. Difficile recuperarli tutti subito. Anche una delle ambulanze di servizio si è rovesciata, un marshall si è rotto un braccio. Dopo l’arrivo, tutti alla ricerca di officine e saldatori. Ai tre ragazzi che ci hanno accompagnato a comprare un crick cinese abbiamo regalato coupon per 125 litri di benzina mongola avanzata. Cena con gli americani del Maggiolino e doccia calda. Dietro l’hotel, grandi riparazioni sulla Bentley Le Mans. Considerato il valore della macchina, i danni si possono stimare in un miliardo di vecchie lire…In tenda, al confine – 6 giugno 2007Pietraie a non finire, altri 300 chilometri di massacro. E cinque guadi, di cui almeno due altamente impegnativi e affrontati solo perché tornare indietro sarebbe stato peggio che andare avanti. Per via degli impenetrabili misteri del sistema dei fusi orari, ci ritroviamo alla polverosa partenza un’ora prima. Facciamo qualche provvista, provo a cambiare dollari in banca (capisco alla fine che accettano solo tagli da 50 o 100). Prima speciale tranquilla, poi forte rumore di ammortizzatore in coma. Qualche tentativo, più per capire che per riparare: è l’anteriore sinistro, ha perso un tampone della testa, sciacqua e rumoreggia. Ma finché dura il rumore (230 km) vuol dire che non ce lo siamo perso. Un paio di soste per verificare, tre camionisti fermi nel deserto ci danno una mano per stringere qualche dado. Si scottano toccando le parti roventi. Ridono invece di bestemmiare. Siamo in ritardo e saltiamo lo start di una speciale. Nei primi due guadi Celestina è come se si tuffasse di testa. Dieci ore a lottare contro la pista che sembra ci voglia respingere, predisponendo agguati e attacchi, imboscate e controffensive col suo esercito di pietra, la polvere, gli improvvisi e ansiogeni banchi di sabbia. Timbriamo nell’ultimo minuto consentito e ci avviciniamo all’attendamento. Il campo è una visione da day after. Tutte le macchine a bocca aperta, sollevate, piegate e piagate. Ne mancano almeno 40. Gli americani del VW ci cambiano l’ammortizzatore (compensati con pacco di bresaola). Cena alla mensa, tenda, alle 9,20 siamo nei sacchi a pelo. Fa freddo e siamo distrutti. Ma sopravvissuti. E se Dio vuole, la Mongolia è finita.Roberto Chiodiwww.girodelmondo.com
Siamo rientrati da alcune settimane dalla Mongolia ma è come essere ancora là: è stato un viaggio bellissimo. Era il mio primo viaggio extracontinentale e ho provato delle emozioni davvero intense. Innanzi tutto per essermi rincontrato, dopo ben 15 anni, col mio grandissimo amico mongolo Palam (nella foto, il nostro brindisi). Poi per aver vissuto quindici giorni della mia vita in un paese meraviglioso e con gente straordinaria. I primi quattro giorni li abbiamo dedicati alla visita della capitale Ulaanbaatar. Quindi, abbiamo fatto un giro di circa 1600 km nella steppa attraversando diversi paesi e siamo arrivati al lago Terkhin Tsagaan nuur.Abbiamo alloggiato nelle gher dei pastori e consumato il pasto insieme a loro. Abbiamo vissuto per una settimana col vero popolo mongolo! Con gente umile, ma straordinariamente dignitosa; e con una cordialità e una simpatia veramente contagiose. Purtroppo pero, anche in Mongolia ci sono anche cose negative, sopratutto in Ub ho visto cose brutte: bambini abbandonati, alcolismo eccetera, cose comunque che purtroppo troviamo in tutte le parti del mondo e che speriamo vengano risolte.Una cosa che mi ha dato particolarmente fastidio nella steppa è stata vedere ovunque ai margini delle strade un'infinita di rifiuti plastici e bottiglie.Bisognerebbe trovare un modo per sensibilizzare la gente per non rovinare il loro bellissimo paese. In merito a ciò, appena posso, scriverò a Batjargaal (genero del mio amico Palam) che dirige una radio libera a Ulaanbaatar: gli parlerò del problema chiedendogli se può fare qualcosa.Mi sono ripromesso, appena possibile, di tornare in Mongolia e soggiornarci più tempo, perché ciò che ho visto in confronto a quel che offre il paese è veramente poco.Franco Garau
La terra dove la realtà e il sogno si confondonoPoco importa che io fossi solo o no, quello che conta è ciò che ricordo: ho davanti agli occhi immense distese dove lo sguardo si perde, cieli di un azzurro che mai avrei creduto fosse possibile ammirare e, mentre cammino calpestando questo suolo dove ogni passo si posa su sassi coloratissimi, su minuscole piante ogni volta diverse, il vento caldo mi accarezza la pelle che i vestiti leggeri non coprono.Lungo tutto il cammino ho incontrato la vita con sembianze di cavalli, cammelli, pecore, capre, aquile, falchi e marmotte.Dal nulla apparivano gli uomini, diversi da me nell’aspetto ma soprattutto nel cuore.Ogni loro gesto era poesia, ogni atto rivoltomi esprimeva generosità nell’offrire quello che con tanta fatica avevano ricavato dalla vita che lungo il cammino avevo visto.Nel loro volto bruciato dal sole c’era sempre un sorriso, non capivo la loro lingua, ma sapevo che loro comprendevano il mio stupore.In quelle mani di bambini non c’era nulla, ma nei loro bellissimi visi c’era tanta curiosità per quello straniero tanto diverso da loro; le loro mani vuote erano pronte a raccogliere quel poco che avevo da offrire e quel meraviglioso sorriso appariva così appagante!Questo mio grande sogno aveva ed ha un nome: Mongolia!.Emanuela Buggio
Dopo aver contattato mongolia.it per alcune info essenziali per il nostro itinerario, siamo partiti spaziando (è proprio il caso di dirlo!) per la Mongolia per 25 giorni utilizzando una 4x4. Abbiamo scelto una tipologia di viaggio "fai da te" e piuttosto faticosa (sempre in tenda e cucina da campo) e forse anche per questo abbiamo vissuto delle esperienze davvero indimenticabili visitando le zone dell'estremo ovest (Khovd, Deluun, Tsambagarav Uul, Bayangol, Khovd Gol), del nord (Amarbayasgalant Khiid, Khovsgol Nuur) del centro (Tsagaan Nuur, Tsetserleg, Kharkhorin) e del sud (Bayanzag, Khongoryn Els, Yolin Am).Michela Bertagnolio
Verso Oriente - Cronaca di un viaggio in MongoliaTrascrivere un “diario di viaggio” in una forma definitiva comporta la necessità di scelte stilistiche comprensibili a chi legge. In occasione di un viaggio precedente, come per questo che mi accingo a raccontarvi, mi è accaduto di percepirmi non unico ‘autore’, ma co-autore, insieme ad altri, da cui ho tratto spunti, suggerimenti, annotazioni.Questo viaggio, per la maggior parte in Mongolia, deriva da uno stimolo che definisco cultural-musicale – chi mi conosce sa qualcosa di questo pungolo: si tratta dell’ex gruppo musicale dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti), ormai scioltosi. Non è questa la sede per narrarvi la loro storia, gli influssi e gli stimoli che ne sono scaturiti e che, perseguiti e sviluppatisi, sono ora parte concreta della mia esistenza. Vi basti sapere che il gruppo ebbe, nel 1997, occasione di fare un viaggio in quelle lande, apparentemente prive di attrattiva. Ne usci uno splendido cd, Tabula Rasa Elettrificata, e un volume, In Mongolia in retromarcia, pubblicato nel 2000 da Giunti, editore di Firenze. Così, come per un resoconto di viaggio precedente a questo, accadrà che la mia voce narrante si mescolerà a quella di canzoni del gruppo, a libri letti, a brani citati, senza soluzione di continuità.Poiché è sacrosanto dare a Cesare quel che è di Cesare, la scelta stilistica consiste (1) nel mettere tra parentesi ciò che cito, ciò che al mio narrare si sovrappone, si impone, o resta semplice sottofondo e (2) di segnalare in nota i precisi riferimenti bibliografici, eccezion fatta proprio per Tabula Rasa Elettrificata, pilastro e colonna sonora del mio peregrinare: non è cattiveria, ma solo un modo per non appesantire eccessivamente la notazione e invitarvi all’ascolto dei CSI.Chinggs Khaan hotel, Ulaan Baatar (Mongolia)Pascolano le nuvole, nel cielo di Ulaan Baatar. Grandi greggi. Unico pastore, il vento. Nuvole bianche come lana di pecora, che abbiamo toccato con le ali del Boeing 737 Air China sul verde rasato e brullo [convergono le mandrie alla piana / muovono lentamente l’orizzonte / punti neri punti bianco bigi bruni / tutto il verde per terra / pozze d’acqua di piombo / nastri d’argento i fiumi / neanche un’ombra. / ci volano le gru non ancora convinte / che sia tutto finito / meraviglia d’un mondo d’età ruvid’acerba (3). Spazia lo sguardo su tutto ciò che c’è intorno e nulla sembra ottundere i sensi, risvegliati dalla luce turchese del cielo.Siamo passati, in un paio d’ore, da una situazione al suo opposto: da una densità di popolazione spaventosa ad una scarsità altrettanto considerevole: tutta la popolazione della Mongolia è riassumibile nella città di Napoli. Un terzo di questa popolazione vive nella capitale (circa 800.000 persone), mentre il resto è sparso nelle regioni circostanti, densamente spopolate [densamente spopolata è la felicità]. In compenso ci sono circa 33 milioni di animali tra pecore, capre, mucche, cavalli e cammelli. Visitiamo, appena arrivati, il monastero del lama Choijn, unico superstite alla rivoluzione culturale, stavolta non cinese ma russa.Architetture originali e ben conservate, di pregio gli originali di alcune statue bronzee di Zanabazar (1635-1723), raffiguranti Buddha. Fedeli al motto nietzschiano di “eliminare la poltrona di Dio” e a quello di Marx per il quale “la religione è l’oppio dei popoli”, i russi hanno se non altro avuto il buon senso e il buon gusto di risparmiare l’opera di quello considerare l’equivalente di un Michelangelo o un Canova asiatico.Ulaan Baatar è una città architettonicamente sghimbescia, sbilenca, disarmonica, con palazzi ultramoderni giustapposti a edifici fatiscenti, ad architetture “soviet” e cinese, frapposte a cartelloni pubblicitari (come in Cina, come da noi) che magnificano le doti di automobili e telefoni cellulari, su uno sfondo di ciminiere fumanti nate in mezzo al nulla desertico di cespugli d’erba verde e rada. Il tutto immerso in un traffico stradale incomprensibile. Il nostro autista – che segaligno e scuro di pelle vedrei molto meglio su un bel cavallo che alla guida di un bus – è riuscito letteralmente a far volare la nostra guida locale che, in piedi e voltata verso di noi, cercava di spiegarci qualcosa: frenata brusca e la guida, poverina, è scomparsa ruzzolando sugli scalini della porta anteriore, fortunatamente chiusa. Alla seconda frenata un po’ decisa ho capito che era meglio per me fare viaggi disorganizzati: le lamentazioni della prima frenata si sono trasformate in un coro di proteste del quale mi sono un po’ vergognato. Un po’ per il tono, un po’ perché del tutto ingiustificate, visto che semplicemente l’auto che precedeva ha inchiodato in mezzo alla strada senza apparente motivo. Limite di appartenenza ad un gruppo over 55: scarsa adattabilità a ciò che è altro dai propri standard.La polemica è poi proseguita a seguito di una incomprensione sulla sistemazione per la notte. Da programma avevamo il pernottamento in albergo, mentre l’agenzia mongola aveva previsto – sorpresa! – un’accoglienza al campo nomadi, con tanto di festa di benvenuto e dormita in tenda. A me andava bene un po’ tutto, ma non così per tutti. Qualcuno ha malignato che la sorpresa fosse organizzata ad arte per evitare di occupare l’albergo per una notte: pare che in coincidenza del nostro arrivo ci sia un’importante fiera (e corsa) di cavalli, che attira un po’ di persone. Più conveniente per l’albergo offrire letti per più notti. Dopo qualche telefonata intercontinentale e qualche manager tirato giù dal letto in Italia, pare che la questione si sia risolta: siamo, come da programma, in albergo. Ho deciso per vacanze serene e alla fine sono abbastanza contento che queste beghe se le sbroglino altri. Da come si sono evoluti rapidamente gli eventi però devo dar credito alla voce maligna, che a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Virtù di appartenere al gruppo over 55: molti del gruppo hanno grande esperienza di viaggi organizzati e per molti si tratta di un film già visto [voglio ciò che mi spetta / lo voglio perché mio / m’aspetta].Ho fatto poche foto. Solo oggi avrei dovuto scattarne almeno una trentina, soprattutto ai mongoli, che trovo un popolo bellissimo. Solo che mi sentivo idiota e marziano a far foto alle persone, e ti ci senti anche quando sono tutti gli altri a farlo al posto tuo, perché alla fine anche tu appartieni a quel gruppo. Non c’è niente di male nel voler scattare foto agli altri, ma la percepisco come una questione di pudore, di tatto: preferisco, per quanto posso, documentare il mio viaggio con le parole.Dopo il monastero/museo siamo andati alla piazza più grande della città, una sorta di Tienanmen in miniatura e, ovviamente, molto meno popolata: sulla sinistra il mausoleo – per fortuna in via di smantellamento – dell’ultimo dittatore filorusso. Lo stile, al solito, è l’indefinibile razionalismo che sembra essere stata l’arte preferita da tutti i totalitarismi, dal fascismo al comunismo.Anche qui qualche (meno insistente) pletora di questuanti e venditori, vera vittoria del capitalismo: i primi contatti con un altro popolo, con un’altra civiltà sembrano passare nei tempi moderni invariabilmente attraverso la dura legge del mercato. Il solo essere turista significa questo. È una cosa che mi pesa un po’: mi piacerebbe avere amici nei posti, ma è difficile quando il rapporto è professionale e – come nel caso delle guide locali, per esempio – è pure occasionale.Passiamo davanti a un quartiere del quale avevo letto: alcuni nomadi, stanchi di esserlo, hanno piazzato definitivamente le loro gher e le hanno rese stanziali. Oppure hanno costruito una casa in muratura e hanno messo la gher in giardino, per andarci ogni tanto. È buffo per noi, ma il nodo – simbolo del nomadismo, perché ha facoltà di essere sciolto – si trasforma in chiodo – simbolo dell’animale/uomo stabile, stanziale (4). Il problema è che sempre più famiglie operano questa scelta per problemi ovvi, il primo dei quali è mandare a scuola i figli. Al termine del solito ristorante per turisti, veniamo intrattenuti da un concertino in abiti tipici. Siamo gli ultimi avventori e praticamente questi suonano solo per noi. Apprendo da qualche compagno di viaggio che il cantante sfrutta una tecnica particolare – chiamata il canto di gola – per far funzionare le proprie corde vocali simultaneamente. Esce dalla sua bocca una strana melodia, più simile a uno strumento che alla voce umana. Ne vengo suggestionato al punto che mi vengono i brividi, perché mi sembra che canti l’ululare del vento siberiano. Quel vento che fa della mite Ulaan Baatar di oggi un posto che, d’inverno, arriva senza difficoltà a –35°C (3).Campo base di Elsen Tasarhal (Mongolia)Il tempo rallenta qui al campo base [rallenta il mio respiro / scende in profondità / si adatta al soffio del mondo (4). Siamo a gruppi di 2 o 3 nelle gher. Stamattina la polemica è proseguita e c’è stato un nuovo scontro tra nodo e chiodo: non possiamo portare tutti i bagagli sulle jeep e si rende necessario selezionare ciò che più ci sarà funzionale per questa escursione di 3 giorni. Lamentele e proteste si levano perché pare che molti non siano attrezzati adeguatamente o, più semplicemente, non abbiano borse o zaini nei quali stipare un bagaglio più piccolo. Riesco, pensandoci 10 minuti, a fare un solo zaino da 30 litri, nel quale metto tutto. Bagaglio minimo, macchinista ferroviere! Le esigenze del nomadismo (per quanto praticato come turismo), del viaggiare leggeri (5) si scontra con la pesantezza, il fardello di chi da sempre nasce, vive, frequenta case in muratura. Pare che i mongoli ci mettano un’ora a smontare la propria gher. Più o meno quel che noi impieghiamo per prepararci a uscire di casa dopo esserci sistemati un po’.Una volta chetata la questione, siamo pronti a partire, non prima però di una visita al monastero di Gadanteng Cheling, quasi del tutto ricostruito dopo la fine della dominazione comunista (circa 1990). Vediamo un altro maestosissimo Buddha (ricostruito nel 1996), alto 26 metri, di rame, ricoperto d’oro. L’interno, cavo, contiene le offerte. Mi trovo a girare, senza pensarci, i rulli della preghiera: non ho, in questo momento, desideri da esprimere. Posso solo ringraziare della pienezza che sto vivendo, del desiderio esaudito di essere qui, ora. Il cilindro dei rulli mi affascina per l’idea di ritorno, di tondo, di ciclicità, di reincarnazione. Di presenza.Facciamo “irruzione” in un’altra ala del monastero, mentre ci sono dei monaci in preghiera. Pare si possa. Siamo figure sullo sfondo. Un odore caprino mi assale le narici, poi, ma solo dopo, d’incenso. Possiamo girare intorno e parlottare tra noi. Non sono disturbati. Del resto è un po’ come da noi quando si dice messa: non è vietato entrare. Altre analogie col cattolicesimo (frutto di sincretismo?): ieri all’altro museo/monastero la raffigurazione di paradiso, inferno e una specie di purgatorio. Oggi chicchi di cereale (orzo? Segale?) vengono lanciati dai monaci durante la preghiera. Sono beneauguranti (e i fedeli li raccolgono) come forse lo è da noi il rametto d’ulivo per la Pasqua.Per tornare al viaggio fin qui: vengono approntate 5 jeeppone nipponiche per i nostri molli fondoschiena occidentali. Si presentano all’albergo, gli autisti, con le auto lucide e loro vestiti di tutto punto, come dovessero portarci al gran gala anziché in qualche remota località desertica. Il fuoristrada Nissan che ci accoglie credo abbia un utilizzo promiscuo: lo tradiscono i chilometri (227mila e spiccioli) e, come al monastero, un odore pecoreccio, mistificato e vanamente camuffato da una specie di “arbre magique” locale. Di nuovo vengo colpito dalla totale giustapposta disarticolazione di questa città: giocatori di biliardo (6) ai bordi della strada, sotto una tenda improvvisata, vicino alla casa dello sciamano (che magari è uno dei giocatori…), vicino al mercato.Superiamo nel traffico gorgogliante, ingorgato peggio che da noi, un filobus che sembra stare in piedi solo perché ha le antenne attaccate ai fili; in alternativa pulmini di modeste dimensioni fanno da trasporto pubblico; vecchi camion Uaz sovietici che neanche da bambino avevo il modellino: musone, piano di carico alto sopra le ruote, aerodinamica anni ’50/’60 del secolo scorso, verdi militare, forse dismessi dall’esercito. Ne incontreremo di simili lungo il percorso, molti dei quali invariabilmente con la bocca del cofano aperta, bisognosi di cure d’emergenza. Ai lati del lembo d’asfalto, terra, senza marciapiedi. E ancora: città oblunga, come fosse in rifacimento dopo una guerra, ma senza apparente criterio. Mi scorre davanti al naso il cartello che pubblicizza la prima televisione mongola via internet: TV5.mn. Per il 5 nutro, scusate, berlusconiano sospetto. È tutto giustapposto, non stratificato in epoche: tutto coesiste insieme. Oggetti che arrivano da passati remoti (per noi, ma forse sarebbe meglio dire presenti prossimi per loro) con oggetti, idee, velleità proiettate verso un futuro che è, in tutto e per tutto, il nostro.L’insieme, per le strade, mi stordisce, mi sbilancia e mentre mi godo pascolante nella mente e nello sguardo tutto questo, vedo, con la coda dell’occhio, l’auto davanti a noi con gli stop accesi e culo alzato dalla frenata brusca. Il nostro autista, che gli alitava sullo scarico nella modesta velocità cittadina, con prodezza e prontezza non tocca freno e scarta di lato. Lo manchiamo per uno zip, però lo manchiamo. Fuori dal gorgo cittadino il lembo di strada si assottiglia: l’asfalto diventa un’idea, una supposizione, mentre ben più concreti si fanno i crateri, le buche da evitare. Dopo qualche chilometro non esiste più un vero e proprio senso di marcia: diventiamo serpente che zigzaga a destra e sinistra per evitare il peggio, mentre stai sulla tua destra solo quando arriva qualcuno in senso inverso. Il problema spesso si pone quando un mezzo più lento ti precede nello zigzag e per fargli capire che non vuoi centrarlo, ma solo sorpassarlo, gli suoni. Il clacson anche a Ulaan Baatar è molto usato come mezzo di comunicazione. Lasciata la città trovi carovane, zone semiresidenziali, prototipi di fattorie in bilico fra nodo e chiodo.Campo base di Tsenkher (Mongolia)La tortura più grande, alcune volte, è non poter scrivere quando si vorrebbe. Devo munirmi di registratore portatile: così parlo. Ma dovrei essere solo. E, in un viaggio organizzato, questo non accade quasi mai. Fine della lamentazio e della parentesi. Credo che la mia scrittura subirà un’evoluzione. Cercherò di evocare immagini, foto. Tutte quelle che non ho scattato perché sulla jeep in corsa (7) quelle per cui il momento e la situazione mi sono sembrate degne di un racconto.La strada. Ieri. Alla prima sosta pipì gli autisti si allontanano e sul prato di fronte espletano il loro bisogno. A noi, che eravamo di qua dalla strada, è sembrato controvento: che siano capaci di controllare anche quello? Lo sterrato di fianco alla strada, quando la strada c’è, serve ai veicoli lenti. Più si va avanti più la strada è pista, è idea, è direzione per andare verso il luogo nel quale si vuole arrivare. E le jeep rivelano sempre più il loro motivo d’essere strutturate in quel modo, la loro efficacia di automobili. [La macchina, signore e signori, è un mezzo di trasporto, ma non come voi lo intendete. È un vettore mistico, una rivelazione in atto della potenza e della fame, del genio e della miseria. È l’impeto senza nome della specie. È la materia che vuol sorpassare se stessa. È un trasporto passionale, fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, Prospero Ariel e Calibrano. Le avanguardie appaiono lente e fiacche, povere e goffe, sempre in retroguardia rispetto a questa concentrazione di materia e lavoro, di brutalità e volo, di dentro e fuori, nella pressione costante del presente. Mai contenta, la macchina del cervello, sempre in movimento, incapace di stare. […] Dio è il grande meccanico e Ayrton Senna il suo profeta, il suo figlio malinconico e prediletto (8).Buchi, crateri, balzi, sorpassi. Ci fermiamo quasi con cadenza regolare. I pali della copertina di Tabula Rasa Elettrificata ci accompagnano, ci lasciano, attraversano la nostra strada. Ad un confine [il confine è d’aria e luce / aria e luce] sul nulla, immaginario, immaginato, di pura convenzione, probabilmente con una provincia più ricca, la strada migliora di colpo: asfalto liscio con addirittura una striscia di mezzeria. Un lusso. I chilometri corrono più veloci sotto le ruote. Il verde deserto ondoso, uguale a se stesso, muta continuamente toni, specchio del cielo. Di colpo, senza cartelli, senza preavviso, usciamo fuori strada, con regolare freccia a sinistra.Strada immaginaria, immaginata, in mezzo a cespugli che solo successivamente scoprirò quasi totalmente di artemisia. Ci raccordiamo ad una pista, ad una traccia che non sia direzione arbitraria. Scorgiamo in lontananza la nostra destinazione: il campo tendato di Elsen Tasarhal. Prendiamo possesso delle gher, dopo pranzo. Voglio sorvolare per i pranzi, molto per turisti, credo. La prospettiva falsata del turista. Il problema è che turista sono, ma non vorrei esserlo. So che è contraddittorio, ma è così. È una cosa che un po’ m’infastidisce, mi indispone. Cerco in Mugi (9) la nostra giovane giuda mongola, un contatto che vada al di là della disponibilità compresa nel prezzo – so che molti di voi stanno malignamente fraintendendo, ma non importa. Preferisce parlare inglese, anche se è stata in Italia 2 anni. Sono contento: del gruppo nessuno osa spiccicar parola (a parte la guida) e, si sa, in un gruppo di ciechi chi vede da un occhio è quello sano.Ci riportano a fare un giro con le jeep, non paghi dei 280 km di oggi. Andiamo poco lontano, alle dune. Mugi mi spiega che questa duna praticamente parte dalla Mongolia del nord e, per uno strano gioco di correnti, viene sospinta dal vento siberiano verso sud. Un vento che spira costante, solo in quella fascia. Incredibile, come il film La storia del cammello che piange. Mi dice di averlo visto e che l’episodio del violino non è del tutto di fantasia. Proprio come nel film passiamo davanti a una gher con pannelli solari e parabola (altra foto mancata, dalla jeep…); come nel film vediamo cammelli tosati. Pascoliamo, con le macchine fotografiche. Solo, che al solito, gli umani rompono i coglioni e, con regale altezza, i cammelli si voltano di culo, così le foto smettono.Ho rischiato di continuare a scrivere stasera, a luce di candela. Rischio ovviamente ben accetto. Come con accettazione mi rassegno alla pila scarica della macchina fotografica digitale, per domani. Unico modo di impressionare pellicole: la scrittura che fluisce come esigenza fisiologica. Dopo i cammelli, si diceva, la duna. Una grande duna di vera sabbia desertica in mezzo al deserto dei cespugli. Un vento che sembra soffiare solo per lei, creando effetti bellissimi di trasporto di sabbia sulla superficie. Saliamo. Sento la camicia che si gonfia, che fa vela, che non si cheta [Il mio viso si intontiva / davanti al tuo parlare difficile / c’era da indossare subito / una camicia hawaiana / e sventolare contento / davanti a un cielo primitivo (10) Impronte. Di noi. Del nostro effimero passaggio. [Capita, in questo fuggevole passaggio, di illudersi nell’ascolto di voci del tempo andato, di illudersi di parlare con voce che resista per sempre. Ma il frantoio non ha pietà. E il sapore dell’olio, anche il migliore, di qualità intensa e persistente, maturato tra siccità sasso sole e silenzio, dura ben poco. Se pensi alle stesse montagne come fluide onde geologiche, loro che appaiono imponenti e imperiture, la tua smania di permanenza si traduce nel vapore del palmo della mano impresso sulla finestra di un giorno d’inverno. Guardi fuori, distratto, e il tempo è già passato (11). Così è. Anzi così ripenso quando arriviamo alla tenda di alcuni pastori da cui assaggiamo l’airag, la bevanda alcolica derivata dalla fermentazione del latte di cavalla o di yak. Il nostro impatto turistico mi fa venire la tentazione di rimanere chiuso dentro la jeep o, ancora meglio, di avviarmi al campo a piedi.Entro per l’unica mediazione tra me/noi e loro: Mugi che parla la nostra e la loro lingua. Mi sembra di essere uno di quegli antropologi idioti che va a ficcanasare nelle vite altrui, come se gli altri fossero marziani. Non siamo richiesti. Bastare a sé. Noi occidentali sembriamo non bastare mai a noi stessi. Assaggio volentieri e con riconoscenza ciò che mi porgono: latte, yogurt, airag. Forse per smorzare la discrasia creatasi nella gher, tra noi e loro, tra quelli con le macchine fotografiche – e dai, mettetevi in posa che vi facciamo una foto – e i pastori che mettono a disposizione tutto, senza chiedere nulla, gli autisti improvvisano un gioco cantato, cadenzato come una nenia, simile alla morra cinese.Chi perde beve. Airag, ovviamente. Il lato positivo è che anche loro sono curiosi di noi, almeno quanto noi di loro. Lo percepisco dagli sguardi: “ma che ci fate voi qui?”.Pali della corrente elettrica da fotografare. Ancora sulle jeep. Destinazione: un montarozzo granitico poco distante. Con le jeep tutto è strada. Con le ruote schiacciamo artemisia. Così dalle bocchette di aerazione oltre alla polvere entra uno splendido profumo. Colonna sonora: Kocani orchestar. Le colonne sonore varieranno, ancorché invariabilmente occidentali (turismo è turismo, come business is business…): saranno le più suggestive e, al tempo stesso, le più surreali.Chiedo a Mugi se vuole fare una passeggiata fuori dal campo, dopo cena. Giusto per far quattro chiacchiere in ital-english. Worst english, I’m sorry. Parliamo di tutto, a ruota libera: dalla politica alla cosmologia, da Gengis Khan alle ambizioni personali. I cani del campo ci seguono, pastori dal riflesso condizionato a fare il loro dovere e ai loro occhi probabilmente non siamo tanto differenti da pecore, mucche o altro. Ci ronzano intorno, concentrici, mentre avanziamo nel buio. Nomadi pure loro, un po’ pulciosi e spelacchiati, hanno l’andatura del cavallo. Prossimità delle quattro zampe. Nomadi, ma col senso del territorio: evidentemente, senza accorgerci, abbiamo sconfinato e i cani, dall’altro confine, sono venuti ad accoglierci, ringhiosi.Cambiamo strada e discorso per evitare che si azzuffino, mentre sopra le nostre teste la volta celeste si fa indicibile. Via Lattea (si dice così anche in mongolo!), centro della galassia della quale – con il solo sguardo suggestionato – sembra di intuire lo scoppio di supernovae distanti anni luce. Torniamo al campo. A mezzanotte, come da programma, spengono tutte le luci, così cessa anche il modesto inquinamento luminoso locale: adesso è buio, anzi è IL BUIO, quello dei primordi, dell’uomo di Neandertahl. Prossimi alla notte di S. Lorenzo vedo un numero considerevole di stelle cadenti, anche senza andarle a cercare. Le vedo incorniciare di tanto in tanto il volto di Mugi, mentre parliamo. Se per noi è motivo di espressione di desideri, per i mongoli il periodo delle stelle cadenti non è una cosa di cui gioire: per loro ogni stella è un uomo e, per ogni stella che cade, un uomo muore. Mi sembra di capire, più in generale, che tutto quel sta in cielo è, per questo popolo, sacro. Non cacciano né mangiano uccelli e come i tibetani usano (o forse usavano) fare a pezzi i propri morti e darli da mangiare agli avvoltoi. Usanza che a noi sembra barbara, ma se lo spirito dimorava nella carne del defunto, quella carne, dopo essere stata mangiata, torna, attraverso l’animale, al cielo. Lo spirito si ricongiunge al firmamento, per via della carne, per via dell’uccello che la mangia, preparandosi ad una nuova reincarnazione, a dimorare in nuova carne che nascerà. È il momento della buonanotte. Alzo ancora, magnetizzato, gli occhi al cielo. Sembra di scorgere la carie nei denti di Dio, o forse la pagliuzza nell’occhio di Buddha. Che sia una buona notte, Mugi. Che tutti i tuoi desideri di giovane donna che ha già visto molto, si realizzino [We can see together / the beauty of souls / hidden like diamonds / in the clock of world (12).La mia, di notte, buona non sarà. Sulla duna oggi Mugi mi ha mostrato un piccolo coleottero. Con candore mi ha detto che può involontariamente infilarsi nelle orecchie e non aver più voglia di andarsene. Sto per prender sonno e mi sveglio di soprassalto perché mi sento camminare su una gamba. È lui: lo afferro e lo lancio stizzito in mezzo alla gher. Fatico ad addormentarmi, al pensiero stupido dell’insetto dentro l’orecchio. Avevo chiesto ai compagni che condividono con me la tenda di lasciare aperta la finestrella in alto; visto che non è freddissimo avrei potuto starmene a guardar le stelle, in attesa del sonno, comodamente sdraiato nel mio letto. Niente da fare. Tutto chiuso. Ancora chiodo contro nodo. E chiodo vince.Alle 9 stamattina tutti in pista. Destinazione: qui, da dove scrivo. Adesso a lume di candela, per gruppo elettrogeno in ferie. Terra battuta, di nuovo asfalto, ma per poco. Su un lungo rettilineo, dopo una curva il nostro autista calcola male o non vede l’auto di fronte, un’altra jeep, durante un sorpasso. Ero dietro e distratto dal paesaggio, per fortuna e solo all’ultimo mi rendo conto di quel che sta accadendo. Evitiamo per una manciata di centimetri un frontale a velocità sostenuta che avrebbe interrotto le nostre vacanze e forse non solo. Passiamo millimetrici tra il furgone che stiamo sorpassando e l’auto in senso contrario. Complimenti per il sangue freddo. Poi ricordo le parole di Mugi ieri sera. Parole che spiegano molte cose: gli autisti sono professionisti che fanno parte di un’agenzia statale.Il loro mestiere è portare a spasso personalità e membri di stato. Solo che quando i ministri e il presidente sono in vacanza bisogna continuare a vivere, così portano a spasso i turisti, anche se non siamo esattamente corpo diplomatico. Si spiegano quindi le frontiere (sul nulla) passate con un cenno della mano, la grande perizia nella guida, la conoscenza capillare del territorio, la disposizione “a flotta” delle auto quando ci fermiamo e l’ordine durante la marcia (siamo sempre stati la quarta auto). Si spiegano i bei vestiti del nostro autista. La gentilezza – quasi una seconda natura – di aprirti la portiera dell’auto una volta fermi.Il sole spunta, in mezzo alle nuvole, dallo specchietto retrovisore. Pare non abbia intenzione di sorpassare. Anzi, poco prima della visita a un “ovo”, una sorta di pilone votivo formato da un cumulo di sassi, inizia una pioggia via via più fitta, incalzante. Mugi ci offre un paio di possibili spiegazioni sull’origine di questi “monumenti”, formati da cumuli di sassi e sciarpe da lama. Quella che mi rimane in mente è la versione più laica: anticamente ogni soldato che si recava in guerra lasciava una pietra in quello che poi diventava un cumulo. Tornando sottraeva nuovamente una pietra al cumulo e, per differenza, le pietre che rimanevano costituivano l’equivalente spannometrico (non tutte le pietre hanno uguali dimensioni!) delle perdite in battaglia. Insomma: memoria dei caduti. Non capisco se questo è legato in qualche modo al buddismo e il perché, oggi, dell’usanza di lanciare (come voto? Come offerta?) tre sassi nel cumulo e fare tre giri in senso orario. Sempre tre? Perché non uno? Ho chiesto, ma neppure lei lo sa. So troppo poco.La pista è sempre più pista. Più Camel Trophy. Più roba da motocross. Le jeep reggono tutto e anche noi dentro di loro. Salti, buche, un fondo bastardo che è terra dura e poi di colpo sabbia nella quale senti affondare e scodare le 2 tonnellate abbondanti della jeep. Un leggero controsterzo, di nuovo il cambio di fondo, qualche altro salto e tutto si aggiusta. Indicatori sulla via da seguire: inesistenti. Da questo dettaglio capisci che in Mongolia non puoi andare senza un indigeno che conosca un minimo di lingua franca, con la quale poter comunicare. Ammesso e non concesso che l’indicazione la trovi, è scritta in cirillico. Ma sapere il russo non serve a niente perché semplicemente la scritta è una traslitterazione del mongolo!Arriviamo a guadare torrenti, prima di giungere sulla dirittura di arrivo di una corsa – manco a dirlo, di cavalli – riservata ai piccoli (cavalli, 2 anni, e bambini da 5 a 12). Ci godiamo in diretta lo spettacolo e ci fermiamo per la premiazione, marziani. I bambini soprattutto ci guardano come se lo fossimo. Curiosi come faine, ci fissano. Tentiamo di mimetizzarci in mezzo agli altri, ma senza successo. Anche perché – al di là delle ovvie differenze di abbigliamento – siamo senza cavallo. Troppo evidenti, troppo diversi. Mi appare evidente il motivo di tanta grazia e bellezza (scoperta dell’acqua calda): l’armonia con la terra, che li forgia come lo scultore fa con le statue. Lineamenti corpi sorrisi canti cadenzati rituali per premiare cavallo e cavaliere vincitori, ma anche tutti gli altri. Una sorta di Nadaam in miniatura.[Infine ci sono sempre, ovunque, i cavalli. L’autore, come fosse davvero il vecchio nomade seduto nella jurta (13) li conosce, li ama, li ricorda a uno a uno. Quando descrive una fuga, un inseguimento, un viaggio, non parla di cavalli in quanto categoria astratta, è sempre quel concreto cavallo fotografato con l’occhio della mente, o baio, o zoppo, o alto, o spelacchiato, o magro, o pezzato, o magari con uno strano bozzolo sul capo. Su questi cavalli stanno in sella uomini instancabili, feroci, vendicativi, crudeli, ma anche improvvisamente generosi e ospitali (14).Siamo stati fortunati, prima di arrivare qui nell’eden, a 2.200 metri di altitudine, dove trovo i primi alberi che, a questa altezza, non possono che essere larici. Paesaggio decisamente alpino e meno altipiano. Mi sento a casa. Nel mezzo, ancora, in mezzo al nulla, Kharakhorum, dove torneremo attraverso la stessa Camel Trophy street. Ancora qualche foto mancata per eccesso di velocità.Campo base di Kharakhorum (Mongolia)C’era, disponibile, ieri sera, un servizio di “accensione stufa”. Ne avrei fatto a meno: non mi sembrava freddissimo o comunque la temperatura all’interno della gher, considerate le coperte, non mi era sembrata tale da giustificare l’intervento di una giovane fanciulla che venisse ad accendere. Invece? Invece sì.Le gher sono fatte per resistere a –30° e oltre, per conservare il calore interno. Le stufe sono fatte per l’inverno. A 10 minuti dall’accensione dentro si schiantava letteralmente dal caldo. La persona che ha insistito per avere il servizio in camera, dopo 3 minuti era fuori della gher in pigiama. Voglio astenermi da giudizi sin troppo facili da emettere, però sto parlando di persone di 50 anni che possono menar vanto di aver girato il mondo. Ma non è finita: era previsto che questa mattina alle 6 la gentile fanciulla ripetesse l’operazione dell’accensione per garantirci il comfort della sveglia. A parte di preferire il freddo (che freddo non è) all’essere svegliato alle 6 di mattina, l’esclamazione più idiota che abbia sentito è «va’ che storia!…» come se questa persona NON avesse MAI visto un fuoco acceso. Fine dell’episodio.Passiamo alla mattinata. Alle foto non scattate per assenza di batteria nella macchina fotografica, tornando verso Kharakhorum.Questa sera siamo andati a uno spettacolo. Una sorta di rievocazione storica della nascita della prima (forse) riserva naturale della storia. Di fronte a Ulaan Baatar c’è una montagna tutt’ora considerata sacra, dove non si possono toccare gli animali e la natura in generale. La montagna aveva questo status già nel 1206 e le persone che contravvenivano questa legge, venivano uccise “senza (spargimento di) sangue”, vale a dire tramite la rottura della colonna vertebrale.Un temporale ha rischiato di mandare a monte tutto, ma poi ha smesso. Al campo in cui si tiene lo spettacolo bambini giocano ad una specie di gioco dell’oca chiamato – provate a indovinare – “corsa di cavalli”. Il tutto (cavalli sulla pista e dadi) è fatto con ossa di garretto di pecora e l’anziano, che attraverso Mugi mi aveva spiegato il gioco, mi regala uno di questi dadi e si raccomanda di spiegare, quando tornerò a casa, come si gioca quando lo mostrerò agli amici. Non posso non promettergli che lo farò, che ne lascerò traccia proprio in queste righe.Una brezza tagliente ci congela tutta la sera. Ci offrono latte di cavalla rigorosamente freddo. La rievocazione va avanti, mentre sulla scena, nel teatro naturale che è il paesaggio di fronte, si susseguono lottatori, tiratori con l’arco, contorsioniste, musicisti, cavalieri che corrono. Questa ragazzi è l’incredibile Mongolia. Una luna, alla fine, esce enorme sul verde, a tingere il blu fondo del cielo [I feel the Earth tumbling down (15)Chinggs Khaan hotel, Ulaan Baatar (Mongolia)Latte di cavalla, freddo, notte di vento siberiano – non so se lo fosse, ma gli 11 gradi misurati in tenda lo lasciano supporre. Cani abbaiano latrano vicini lontani per ore. Discutere e abbaiare rappresentano la «vergogna del regno animale»: si riempie di sé lo spazio, compulsivi, isterici, senza controllo, senza disposizione all’ascolto, incatenati alla difesa della proprietà privata del padrone di turno: quella torbida e sfuggente del “mondo interiore” e quella marcata da steccati porte cancelli serrature, protetta dalle alchimie telematiche dei capitali finanziari – insomma, ogni mezzo capace di assicurare una parvenza di benessere e persistenza. Gli amanti isterici discutono, i galoppini mediatici del potere discutono (mentre nelle “alte sfere” si spara e si fa la guerra, senza discutere troppo): «i cani abbaiano a quello che non conoscono», sentenzia Eraclito. La razza canina schiava e parassita, abbaia perché da qualche millennio frequenta l’eruttazione fonica dell’uomo, senza capire niente di quel che vien detto. Soltanto come randagi cominciano a ritrovare la loro dignità selvaggia di creature libere e disperate, predisposte più al silenzio che al latrato. Prendi un lupo: tace oppure ulula, alla luna, all’universo, a quello che non conosce. Non ci discute, da gran signore. Invece, queste bestie al guinzaglio, basta un fruscio e subito ad aggredire con furore, ad agitarsi senza controllo. C’è sempre un cane che abbaia: sta’ zitto, stupidog! Sarà mica un caso che la bestemmia più diffusa è canina? (16)Mi sveglio stranito, sul letto marmoreo e capisco che qualcosa non va. Assistiamo a una cerimonia buddista al monastero di Erden Zuu, visto in parte ieri. [raccontami Ongii / che scorri / incessante preghiera che mormora al cielo / del tuo monastero perduto / dimmi la bellezza dei gesti e dei colori / che ti hanno traversato e hai riflesso]. È incredibile come tutta la poesia e il fascino di un luogo del genere svaniscano come neve al sole di fronte a una impellenza fisiologica: il luogo di maggior interesse per tutta la durata della cerimonia (alla quale non ho finito di assistere) è stata la toilette, dentro il negozietto turistico all’inizio di Erden Zuu.360 km di buche, da Kharakhorum a Ulaan Baatar, passati a controllare lo sfintere anale ad ogni sobbalzo, per non farmela addosso. Virus intestinale e buon ferragosto a tutti. Scopro le virtù terapeutiche della Coca Cola, consigliata come disinfettante (sgasata) nei posti esotici. In arrivo a Ulaan Baatar alle 18, il solito traffico. Guida a destra, guida a sinistra, guida selvaggia. Il nome di questa città è un urlo di battaglia. Combattuta a colpi di clacson. Apprendo che i nomi delle strade non ci sono. Semplicemente non mettono cartelli. Non li mettono per andare da un posto all’altro nelle piste, figuriamoci in città. Come facciano a recapitare la posta resta un mistero. Pare che cercare un indirizzo in città sia un’impresa titanica. Rivincita del nodo sul chiodo. Rigurgito dello spirito nomade sullo stanziale: del resto a che ti serve avere un indirizzo se poi prendi la tua casa, in un’ora la smonti e te ne vai?Gli stessi edifici sono del tutto approssimativi: sembra non riescano a fare uno scalino uguale all’altro! Manca il concetto di “alzata”…Arrivo in albergo e mi fiondo a letto, febbricitante. Il maxischermo della finestra proietta i chimerici cieli della città mutevoli ogni minuto al tramonto, quando, di tanto in tanto, nel dormiveglia apro gli occhi. Mugi mi telefona alle 23 per sapere come sto e mi consiglia il metodo mongolo: vodka o whisky per disinfettare le budella e dormire. Forse farei meglio a seguire il suo consiglio, anziché prendere antibiotici. Speriamo domani vada meglio. Per adesso la febbre c’è ancora.Campo base Tovshin II, Deserto dei Gobi (Mongolia)Benebenebene. Ieri, grazie a una provvidenziale soppressione di aerei destinati al Gobi, siamo riusciti a stare un giorno e una notte in più a Ulaan Baatar. Provvidenziale per le mie precarie condizioni di salute, che via via migliorano. Ho scariche che si attenuano nell’arco della giornata. Visitiamo, ieri, un paio di musei (di Storia Naturale e di Storia della Mongolia), di cui una cosa sola realmente mi colpisce: utilizzano BC e AC (avanti e dopo cristo, in inglese), pur non essendovi cristianesimo da queste parti. Mi spiegano che è una specie di standard internazionale che si è imposto anche laddove la parola “Cristo” è quasi del tutto sconosciuta, quindi… ci si adegua. Potenza del cristianesimo. Per il resto i musei hanno un allestimento per certi aspetti approssimato e un po’ raffazzonato con elementi che si ripetono sia nell’uno che nell’altro (in particolare sulle origini dell’uomo che si ritrovano in entrambi i musei…), ma qui c’è da far la tara a quel che dico perché – allievo di Paola Rodari e Matteo Merzagora per il corso di museologia scientifica il secondo anno di master Sissa – ho l’occhio allenato alla visione di allestimenti che andrebbero migliorati, a sale che andrebbero illuminate diversamente, in cui gli oggetti dovrebbero avere altre collocazioni e via dicendo. Nel pomeriggio ci siamo recati in visita a un monumento sulla collina. Ringraziamento e commemorazione ai soldati mongoli che hanno aiutato i russi nell’avanzata contro i nazisti e i giapponesi (1943-1945). Posizione panoramica sulla città. Stile bolscevico. Nella visita al museo che parla della Mongolia c’è tutta una sezione dedicata al periodo di adesione al bolscevismo. Il presidente – l’ultimo prima delle libere elezioni del 1990 – è stato in carica 44 anni. La scheda per votare era unica. Un simbolo unico e qualche nome. Potevi scegliere tra varie gradazioni di rosso: da quello chiaro al rosso scuro, tendente al nero… Neanche Gengis Khan è riuscito a rimanere in sella così tanto [barbaro umanesimo bolscevico / l’età del bruci il mondo / caschi in terra / l’età del tutto giù / nuova la Terra / rosso fiammante].Stamattina solita sveglia impossibile. Destinazione: deserto dei Gobi. Ad attenderci all’aeroporto un Fokker-50. Aeroplano doppia elica. Domestic flies. Altri turisti. Qualche indigeno. Sonno. Tanto sonno. Solita questione bagagli. Sempre troppi. Riesco a essere ancora più essenziale.Volare sulla Mongolia è come volare su un immenso tessuto di seta, increspato, fine, dai colori cangianti. Cuciture le strade, artificiali, rettilinee, essenziali, scarse, scarne. Vene, arterie, vasi sanguigni i fiumi, i torrenti, reali o in secca.Dormo. Mi sveglio di soprassalto convinto di essere rimasto in albergo per non aver sentito la sveglia. Invece stiamo volando. Il doppia elica ronza allegro, su un cielo sereno. Atterriamo su una pista di battuto. Il carrello sinistro dell’aereo lo vedo affacciandomi al finestrino. Il braccio meccanico scende, in primo piano, mentre sullo sfondo la terra sotto si avvicina. Una ripresa da telecamera che forse sarebbe piaciuta a Federico, penso. Le ruote toccano terra, sollevando un gran polverone. Landing! C’è un timore irrazionale che qualcosa debba andare storto, ma non c’è un reale motivo. Procedure collaudate, ma inusuali la prima volta senza asfalto. Ci sono molte “prime volte” in questo viaggio: misura di quanto poco abbia visto e girato il pianeta. Che effetto fa, la prima volta, il deserto? Strano. Paesaggio lunare, brullo, piatto. Essenziale.Ad attenderci pulmini di fabbricazione russa. Somiglianti vagamente ai vecchi Volkswagen che i figli dei fiori usavano per andare in giro negli anni ’70 o, più modestamente, ai nostri Fiat 238 (o 242?). Sono pazzeschi per estetica, per il livello di tecnologia, per il loro essere spartani. Siccome siamo sulla Luna, devo trovare un nome per questi veicoli che ci condurranno in giro questi due giorni: lo battezzerò UML, acronimo di Uaz Moon Lander. Del resto quando questi mezzi furono costruiti i tempi di Gagarin non devono essere stati molto lontani.Le strade sono piste. Il deserto dei Gobi è anomalo: è in alto (più di 1.000 m. sul livello del mare) e freddo (d’inverno si arriva, come nel resto di queste regioni, a –20°). Non ultimo c’è da ricordare che nelle vallette qua intorno sono stati ritrovati l’80% degli scheletri e dei resti di dinosauri che sono esposti in giro per il mondo. Le sue anomalie lo rendono patrimonio dell’Umanità dell’Unesco.Abbiamo due unità UML da 10 posti – alcuni dei quali riservati necessariamente ai bagagli – e quindi due autisti. Parlano poco, i mongoli, in generale (17). Quelli che abitano queste regioni, ancora meno. Sempre gentilissimi e professionali – si prestano sempre se hai bisogno di fermarti; per galanteria ci aprono sempre le porte (18)– restano impenetrabili anche (forse soprattutto?) alla contagiosa (?) “gioia” delle combriccole di italiani in gita, al pascolo.A 10 minuti di strada dall’aeroporto facciamo una sosta per rifornimento cibarie. È caldo, ma è secco e asciutto. In movimento l’aria sembra addirittura fresca, ma sono solo le 10 del mattino. Quel che sappiamo essere un falcone (dalla visita di ieri al Museo di Storia Naturale), ci guarda di pietra da un dosso. Immobile animale sacro di questo pezzo di Luna su cui siamo sbarcati.Chilometri. Tanti? Pochi? Come si fanno a misurare a intuito in un deserto? Sembra d’esser per mare. Tutto relativo. Conviene parlare di ore di viaggio. Le ore delle UML, unità di misura delle velocità che puoi tenere da queste parti. UML che qui sostituiscono le jeep (ci sono anche quelle, ma Uaz) e cavalli, perché più capienti e perché in fondo il deserto non ha pendenze insormontabili. Ci fermiamo per il pranzo, “al sacco”. Con prudenza mangio solo il riso scondito e “vendo” al miglior offerente la mia razione. Ci fermiamo ancora in un paesino che è il centro più grande della zona: 1.000 anime e altre 3.000 sparse nel territorio della provincia. Del resto è tutto proporzionale: siamo o no in un deserto?Verso le 14,30 vediamo l’autista uscire dalla pista: freccia a sinistra, anzi: nessuna freccia, e stop. “Huston, UML 1 in avaria, we have a problem”. Una spia rosso bolscevico è fissa sul cruscotto, a indicare pressione dell’olio insufficiente. Prova ad aggiungerne un po’, ma si tratta di una perdita seria. Così scendiamo tutti in mezzo al nulla, a 40° ventilati. Vengono tolti i sedili davanti perché i pistoni stanno lì a scaldare i fondoschiena di autista e passeggero davanti. Nel frattempo arriva anche la seconda unità UML. Perderemo (?) in tutto un’ora e un quarto.Con Mugi, per ingannare il tempo, facciamo un gioco che già avevo visto fare e che consiste in quella specie di morra cinese per la quale a turno si deve tirare a indovinare la somma di quel che ognuno di noi ha deciso di mettere nella propria mano destra (abbiamo raccolto 10 sassolini a testa prima di iniziare). Il gioco, a noi sofisticati occidentali, sembra un po’ stupido all’inizio. Poi invece capisci che è sottilmente psicologico, ancorché legato alla fortuna. Le chiedo – per capirne meglio le regole – quando si considera finita la partita. Mi sorride e dice: «The game will be finished when you have lost!». Hai capito la signorina mongola! Di fronte alle mie rimostranze, si corregge con un: «no… you or me!». Ora va meglio.Azzecca una puntata lei, perdo 6 sassi. Ne indovino una io. Ad un certo punto perdo secco: ho solo più 3 sassolini, ma non mi perdo d’animo. Gioco a spiazzarla, dico numeri esorbitanti cercando di immaginare cosa lei possa avere in mano, oppure bassissimi, seguendo il saliscendi, la scia ondivaga di quel che mette nella sua mano. Indovino due puntate secche che la lasciano con un sassolino e tocca a me dire il numero per primo. A questo punto del gioco la psicologia e la fortuna non c’entrano più; è sufficiente l’abaco: ho 3 sassi in mano e dico 4. Lei in mano o ha un sasso o ne ha nessuno. Avendo scorto la sua meraviglia di fronte ad alcune puntate nel quale non avevo messo nessun sasso (zero è un numero dignitosissimo, le ho ribattuto) ero quasi certo che in mano avesse l’unico sasso che possedeva, quindi…Non si capacita d’aver perso. Le dico per scherzo che conserverò i 20 sassolini scrivendoci sopra come ricordo: «The game will be finished when you have lost!».Manco una foto per distrazione: motociclista e passeggero indigeni e stracarichi su una di queste moto di marca russa o forse coreana. Spesso monocilindriche, 150 di cilindrata. Ciclistica anni ’70 o forse prima. Altro che enduro supertecnologici! Venire qui, in questi luoghi fa bene, serve a capire la misura esatta del superfluo che abbiamo. Tecnologie belle, fragili, talvolta inutili, un po’ fini a se stesse per eccesso di edonismo. Differenze di sostanza – penso al me stesso motociclista – tra l’essere (/l’andare) in giro per divertimento vs. per necessità. Necessità di nomade, esistenziale, di sussistenza, e quindi essenziale. Poi mi viene il dubbio: ma vuoi che non ci si diverta anche con un Jfmco, a spasso nel deserto, senza casco? Credo di sì.Resta il fatto che non è una questione di ciclistica o di ultimo grido: questo deserto è solcato da mezzi che appartengono a buon diritto al secolo scorso, e non per pochi anni. Questo pezzo di Luna è fantastico, soprattutto perché dopo i taglia, incolla, cuci, smonta e rimonta pezzi, i due autisti – evidentemente anche meccanici – ricostruiscono una guarnizione artigianale per sostituire quella andata. E lo fanno con il tappetino di gomma che uno dei due ha sotto i piedi mentre guida. Lo osservo, il tappetino, e a giudicare da come è messo, non è da escludere che sia stato usato nello stesso modo per altre occasioni. “Huston, problema risolto, possiamo ripartire”. Alle 18 siamo al campo da cui scrivo. Tovshin II. Nome da base lunare, appunto.Chinggs Khaan hotel, Ulaan Baatar (Mongolia)Dal campo base l’avventura non è finita, anzi. Una merenda/cena è prevista per andare a vedere il tramonto sulle dune. Altri 20 km ad andare e 20 a tornare in UML, dove si arriva fino a un certo punto. Poi è parco, area protetta. Si va a piedi, passando per piccole dune di vegetazione che ben si adattano al clima. Inatteso un corso d’acqua e poi le dune vere, alte un centinaio di metri. Il sole cala. La luna sorge. Tutt’e due stanno appesi lì, come nelle favole, in un cielo turchino che cambia colore ogni minuto. Così la sabbia e il mondo intorno. Cerco di catturare con la macchina fotografica ciò che mi sembra impossibile. Continuo a scattare, ma a chiacchierare anche con Mugi. Siamo noi due su una duna. Tutto il gruppo è intorno, sparpagliato.Ma lì abbiamo creato di nuovo una piccola intimità che fa fluire i nostri discorsi ancora su di noi, sui nostri desideri, speranze, ambizioni. La cornice intorno è l’eden, prima della cacciata dell’uomo. Mugi è combattuta: quando torneremo alle nostre case lei partirà per il college, a New York, per 4 anni. Le ho chiesto, per sdrammatizzare, che “percorso” le convenisse fare: passare dal Giappone o dall’Europa? Mi risponde che è praticamente equivalente, il posto dove andrà è esattamente agli antipodi, dall’altra parte del globo. E io che in certi momenti ho vissuto come un trauma il distacco definitivo da casa mia, in età adulta, per andare a 300 km di distanza. Mi vergogno un po’: lei ne farà 30mila, a 22 anni ancora da compiere.Mi sbaglio pensando di essere nell’eden prima della cacciata dell’uomo. Sicuramente è dopo, visto che la divinità ha già introdotto il fattore tempo: lo percepiamo dall’avvicendarsi degli astri. Il sole scompare definitivamente per mescolare la tavolozza di ocre, tutte, ancora una volta, con la luna [d’oro giada bordeaux si tinge il mondo / bagliori d’amaranto viola la fine / segue lo sguardo il montare della sera dal fondo delle valli]. Mi sono portato una bottiglietta perché vorrei riempirla della sabbia del Gobi. Da regalare. Mugi lo fa per me. Le mani si chiudono a imbuto. La sabbia fluisce fine, impalpabile. Gesto concreto, come le pastiglie naturali (“no antibiotic!”) che mi ha portato da casa, contro la diarrea. Doni.Lascio pezzi di cuore sulle dune. Emozionato. Così mi percepisco. Promessa a me stesso – forse “vacua e solenne” – di un ritorno. Ma quando? Dolore lancinante per la brevità di tutto ciò che siamo, per il respiro di vita corto e sciupato e gettato, barattato col denaro, misura quantificazione qualificazione di ciò che siamo. [Si dice sempre che il tempo è denaro. Ma bisogna ricordarsi che l’equazione non è reversibile: il denaro non è tempo. Il tempo è vita. Io decido dove investirla: nella pesca, nell’orto, al sindacato, in famiglia. Questa è libertà. Una parola grossa che bisogna imparare presto a riempire di cose piccole (19). Dolore per il modesto capitale di tempo che abbiamo. Tutto troppo in fretta. A partire da questo viaggio, di cui riesco a cogliere istantanee, ma solo in differita. Pensieri inespressi (voglio un registratore!) per i troppi dondolii dell’UML o di qualsiasi altro mezzo su cui sono a bordo. Per eccesso di stanchezza.Torniamo che i cammelli pascolano insieme ai cavalli alla luce della luna. Arriviamo agli UML che è buio. Alla nostra unità lunar-terrestre non si accendono i fanali. L’autista/meccanico si prodiga. In pochi minuti ne viene a capo e i fanali funzionano di nuovo. Questo ragazzo è un prodigio! Mugi ha un umore saltellante: alterna momenti di tristezza a momenti di serenità. La invito a bere una birra con me.Ci acquartieriamo sulla specie di veranda che è nella struttura principale del campo base. Le gher sembrano strutture aliene (colonizzatori lunari?) in quella luce: una luna che guarda la luna. Il suo viso tondo riluce, con il taglio d’occhi nel quale non si vedono le palpebre. Le sue forme, pur abbondanti, hanno nel portamento un che di regale. Parliamo ancora per un’ora. Cerco di illustrarle il mio punto di vista sulla questione, nel mio inglese biascicato, misto all’italiano when the word is missing. Per crescere è necessario perdere qualcosa. Il bambino perde il palloncino che la madre gli ha comprato. Oggi, nel deserto, ha perso un ciondolo che aveva comprato da poco. Dovrà lasciare casa, rinunciare alla presenza e all’affetto dei genitori, che avrà sempre, ma non più come gesto concreto. E quindi crescere. Ma rimanere se stessa. Essere serpente che cambia pelle. [Secondo natura e destino che giunge / ad ognuno il suo Dunque. / Per caso banale o scontro su strada. / O nel ghetto di sempre. / Per cielo corrotto o terra che trema. / E veleni ingeriti. / Sul telaio che produce alla moda / colori a chilometri. / E seduto in vetta alla piramide. / Mentre reggi il timone. / Ti cattura negli agi del superfluo / che fa la differenza. / Arriva nel sonno. Ti strozza. Lo sai. / È la resa dei conti. / Ognuno è fiume-serpente che morde la sua coda nel Dunque. […] / Scatta la morte sulla preda attesa. / Il posto dei serpenti lo conosce. / È dove si tradiscono lasciando / la traccia intera della pelle vecchia. / E da serpente tu la sfida accetti. / Ma lei ti pianta un sasso nella testa. / E viene al mare col serpente dietro. / Alla barca del nulla assicurato. / Inerte corpo dalla pancia al cielo (20).Poi la stanchezza prende il sopravvento. Buonanotte piccola regina della Mongolia. Di te mi rimarranno 20 sassolini raccolti nel deserto e la sabbia che hai voluto depositare nella bottiglietta di plastica. Metterò tutto nella indefinita scatola ad hominem della mia esistenza. A futura memoria. [Poi mi domandò, anzi, mi implorò di vendergli la Scatola. Naturalmente rifiutai. Nei minuti che seguirono, mi offrì una somma molto più alta di quanto l’avessi pagata. Gli risposi che non l’avevo comprata per guadagnarci nel rivenderla, ma che mi sarebbe piaciuto sapere perché era così interessato. Se fosse stato un habitué delle aste, si sarebbe rifiutato di rispondermi o avrebbe tentato di combinare qualche affare. Per fortuna, invece, era un professore di storia dell’arte e si mostrò accomodante. “Sa che cos’è un memento hominem?” chiese, col suo accento tipicamente italiano. “Memento hominem?” domandai. Ne avevo una vaga idea. “Teschi e orologi senza lancette.”Mi corresse. “Lei lo confonde con il più comune memento mori, cioè con quei simboli della morte che si trovano nei dipinti e nell’architettura funeraria europea.” Mi spiegò che un memento hominem non serve a rammentare la morte, ma piuttosto è il documento di una vita. Ogni oggetto nella scatola rappresenta un momento o un rapporto importante nella vita di colui che l’ha preparata. Gli oggetti scelti sono spesso comuni e banali; ma non lo sono mai le ragioni della selezione. Disse che era una cosa comune in Svizzera e in Francia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Esuberante come possono esserlo solo gli italiani, mi rivelo che la Scatola dell’inventore narrava una storia, una storia veramente singolare(21).Stamattina trasferimento da Tovshin II a I. Da base lunare a base lunare. Gli UML e gli autisti in splendida forma. Soste. Foto. Pipì. Carcasse di cammelli. Le tracce che i mezzi seguono sono esili, quasi indistinguibili dal resto. Elemento essenziale per un paesaggio minimale. Tutto torna. Non c’è bisogno d’altro. Scendiamo al solito un po’ shakerati. Mangiamo per ripartire subito, diretti alla valle di Iol. Il Gobi continua a essere uno strano deserto. Molto popolato di specie animali per dirsi tale. Volendo cercare la definizione nella morfologia che lo vorrebbe piatto, non avremmo ugualmente successo: non esattamente tale per dirsi deserto. Infatti andiamo verso le montagne. Gazzelle – nel deserto? Sì, in questo ci sono anche loro! – a branchi. Velocissime, manco avessero dei leoni a rincorrerle. Pazzesco.Il deserto con le montagne ha questa valletta famosa, detta delle aquile, perché da queste parti ci sono anche loro. Abbandoniamo i fidi mezzi lunari e ci addentriamo a piedi, per il sentiero. Chi vuole ha a disposizione, almeno fino a un certo punto, cammello o cavallo. Preferisco andare a piedi, per smaltire cibo e shakeraggio. Tutto cambia nell’arco di pochi metri. Un rivolo d’acqua, responsabile della gola, scorre innocuo. Mugi mi dice che nemmeno un mese fa qui c’era ancora un metro di neve. Non c’è da stupirsi se d’inverno s’arriva a –25°, ma non posso non stupirmi!Su insistenza di Mugi torno in cammello. Lei espertissima ne “guida” uno tutto suo, mentre il mio è condotto a passo d’uomo da uno dei proprietari delle bestie: viene tirato attraverso una specie di cordino che funge da briglia, innestato sul naso attraverso uno piccolo ramo. La leggenda che circola da queste parti vuole che il cammello sia l’ultimo discendente del dinosauro. Un’altra leggenda lo vuole animale-chimera, ovvero animale che è frutto dell’assemblaggio, dell’unione di parti di animali diversi. Ma quali? Quelli dell’oroscopo cinese, ovviamente: le orecchie del topo, il collo del drago, and so on. L’assunzione delle parti di altri animali non è però solo formale: il cammello assume su di sé il carattere delle altre fiere. Sta di fatto che è un animale buffo. Ti guarda di sguardo laterale, torbido, illanguidito, ipnotizzato e ipnotico. Mastica come bradipo per lentezza e precisione. Mandibola disarticolata: un colpo a destra, un colpo a sinistra.Quando non è impegnato nella masticazione tiene le labbra semiaperte, come in un’espressione di eterna sorpresa o estasi. Come i cavalli sono di bassa statura rispetto agli animali della stessa specie che vivono a latitudini meno rigide: i –25 hanno il loro peso genetico. Di indole mite, quando si spaventano pisciano puzzolente. Gli zoccoli, ricoperti di pelo, sembrano morbide pantofole. Le zampe hanno articolazioni che ho osservato per diversi minuti, soprattutto quando si chinano per l’accesso alle gobbe, per salire e scendere, si abbassano con movimento curioso: si inginocchiano con le zampe davanti, poi dietro e poi ancora si accucciano. Buffissimi. Fortissimi.Aquile, nella valle delle aquile, comunque poche. Troppo via vai. Troppo casino. Siamo in troppi, anche nel deserto. Torniamo al campo base. Le navicelle UML atterrano dopo salti buche fossi, silenziose. Ci tocca una merenda/cena perché abbiamo un checkin alle 18. Tutto si svolge rapido e veloce. Ci congediamo dall’autista. Neanche nel momento dell’addio gli strappiamo un sorriso. Non è cattiveria la sua, si capisce. È riservatezza, imbarazzo, introversione. Tiene gli occhi bassi, fissi a terra.Il Fokker-50 Aero Mongolia scarica e carica persone e bagagli. Il rito collaudato. Nessuna sorpresa anche senza asfalto. I carrelli rientrano, meccanici, che la terra è ancora vicina. A una mezz’ora dall’atterraggio incontriamo banchi di nuvole. È come essere su una delle strade/piste che congiungono il paese: buche e scossoni. I vuoti d’aria si fanno sentire. Il chiacchiericcio di sottofondo si smorza per lasciare spazio a un silenzio attento in sala, partecipato. Chi dormiva si sveglia. Il comandante, con voce asettica, come fosse routine, raccomanda di tenere le cinture allacciate e di evitare di andare a spasso per l’aereo. Per fortuna le buche del cielo durano pochi minuti. Scendiamo sulla pista d’asfalto. Thank you for flying with us. Le nuvole nelle quali eravamo sono parte del paesaggio. Rientriamo in albergo, stanchi. Mi assegnano una stanza che perde acqua dal soffitto del bagno. Chiedo il cambio per telefono. Mi dicono che mandano su qualcuno. Aspetto, ma non arriva nessuno. Vado di sotto alla reception per chiedere de visu che mi cambino la stanza. Nell’open space di fronte noto tre belle ragazze che chiacchierano davanti a una coca cola.L’operazione di assegnamento dura qualche minuto: dovrò tornare giù a restituirgli la chiave della stanza fallata perché devo spostare i bagagli. Vado. Torno. Quando torno all’ascensore per salire definitivamente in camera ho alle calcagna una delle tre fanciulle. Marziano, anzi appena rientrato dalla luna del deserto, ancora impolverato, insabbiato, stopposo di capelli, poco dignitoso nel vestito, da ripulire, penso di fare il gentile tenendo la porta dell’ascensore aperta. Dopo trenta secondi netti capisco tutto. Trattasi si abbordaggio in ascensore in piena regola: «Excuse me… do you need massages…», dice lei. «Oh no! Thank you!» declino io, che non voglio comprare niente, credendo – quando ha iniziato a parlare – che mi volesse chiedere da dove vengo, per quale motivo sono lì o che so io. Insomma: io che supponevo la classica conversazione da ascensore, mi ritrovo a sentir completare la frase nell’istante stesso in cui la porta si apre sul mio piano: «…or sex?». Plin plon. Zzzzttttt. La porta è aperta.Declino. Forse mi incrino, ma prima di sgretolarmi come un cartone animato, schizzo fuori, tappo di sughero di una bottiglia di spumante. Inebetito di bollicine. Totalmente disorientato e confuso per il “candore”, per la maniera dannatamente NON occidentale di offrirsi. Sono uomo, ma anche maschio. Fatto di ciccia e non di ferro. Con l’aggravante che non tocco una donna con l’unghia del dito mignolo da un tempo che non voglio rivelare, perché sono fatti miei.«Cavolo, ma non potevi dire di sì! Ma hai visto com’è bella? Che taglio d’occhi. Ma quando ti ricapita per le mani una così! Cacchio sembrava una principessa…» «Sì, sul pisello! No, no e no! Già abbiamo pochi principi, ma ch
Quando mi capitava di osservare il planisfero appeso sulla parete di camera da letto, spessissimo lo sguardo si posava su un paese immenso situato fra i due giganti Russia e Cina, nel quale nient'altro era rappresentato se non la capitale dal nome affascinante e un po' buffo: Ulan Bator. Mi immaginavo perciò che la Mongolia fosse un enorme deserto stepposo in cui vagavano pochi disperati che erano costretti alla vita nomade per sopravvivere, indegni eredi del più grande impero che la Terra abbia mai conosciuto. Mi immaginavo però anche che, come sovente accade, tali supposizioni potessero essere profondamente errate e che invece il paese avesse delle attrattive che in effetti, a pensarci bene, portavano da quelle parti molte persone che ne ritornavano poi entusiaste. Così, quando nella primavera del 2007 io e Francesca ci siamo chiesti che tipo di viaggio fare l'estate successiva, io ho buttato lì la Mongolia. Alla ovvia domanda "Ma che c'è in Mongolia?" abbiamo cercato maggiori lumi indagando su internet, e scoprendo che in effetti il viaggio poteva essere assai interessante, oltretutto in un paese sicuro e, cosa non da poco, senza alcuna necessità di vaccinazioni. La scoperta del sito www.mongolia.it, è stata la svolta: Federico Pistone ci ha trasmesso un grande entusiasmo e consentito di organizzare al meglio il viaggio con Amgalan, oltre a conoscere i nostri tre mitici compagni di viaggio Serena, Daniela ed Hervè.Abbiamo così capito che avremmo visitato un paese immenso, vario e ancora relativamente poco frequentato dal turismo, con paesaggi che spaziavano dalle montagne alle steppe al deserto del Gobi, punteggiati dalle gher, le caratteristiche abitazioni dei mongoli e dai templi buddisti risparmiati dalle purghe staliniane degli anni '30. Saremmo andati a cavallo e sul cammello, sperimentato la tradizionale ospitalità mongola (ingestione di improbabili cibi quali l'airag, latte di cavalla fermentato, compresa) e percorso strade (strade?) ai limiti della praticabilità.La prima tappa è stata naturalmente Ulaanbaatar, la capitale, dove siamo giunti con il Tupolev dell’Aeroflot da Mosca e dove ci ha accolto Bagi, un simpaticissimo ragazzo mongolo alto un metro e novanta, la nostra guida. La città ha appena superato il milione di abitanti, è caratterizzata da un traffico caotico e da tanti edifici in costruzione, segno di un paese che sta provando a rinascere dopo la “rivoluzione democratica” del 1991, anno del crollo del sistema comunista. Intorno alla piazza Sukhbaatar si snoda il centro cittadino affollato di gente, fra cui tante donne e ragazze vestite alla moda occidentale: uno degli aspetti che mi ha più colpito della Mongolia è la condizione della donna: la maggioranza delle impiegate sono donne, l’80% degli studenti universitari, secondo Bagi, è donna e ovunque si percepisce, almeno ad uno sguardo superficiale, un livello di emancipazione sconosciuto in altri paesi del mondo. Ad Ulaanbaatar abbiamo dormito in famiglia, in un dignitoso appartamento al primo piano di un edificio di stampo sovietico poco lontano dal centro, visitando i principali monumenti e punti di interesse (piazza Sukhbaatar, il palazzo d’inverno di Bodg Kahn, il Gandan, il tempio di Chojin Lama). Dopo due giorni siamo partiti per la grande avventura in 4x4: la prima parte del viaggio ci ha portato verso nord, lungo la strada (asfaltata) che da Ulaanbaatar conduce verso la Russia; prima della città di Darkhan abbiamo svoltato a sinistra, sempre sulla strada asfaltata, per poi, subito dopo aver superato il fiume Orhon (un affluente del Selenge, il maggiore fiume della Mongolia), prendere la prima delle strade sterrate del nostro viaggio, attraverso la quale ci siamo inerpicati per le colline fino a raggiungere la vallata in fondo alla quale si trova il monastero meglio conservato della Mongolia: Amarbayasgalant. Qui abbiamo trascorso due notti in un campo gher all'inizio della vallata e, oltre a visitare il monastero e le vicinanze, abbiamo anche fatto visita ad una famiglia che viveva nei pressi e, per una fortunata circostanza, abbiamo potuto assistere alle manifestazioni legate ad un festival organizzato dal monastero che si è tenuto proprio in quei giorni, fra cui la spettacolare corsa equestre dei piccoli cavalieri. Dal monastero di Amarbayasgalant al lago Hovsgul, la nostra tappa successiva, la distanza è veramente notevole: almeno 500 km di cui la maggior parte senza una strada degna di questo nome. L'asfalto infatti finiva presso la città di Bulgan, dopodichè ci si addentrava in lande sperdute in mezzo a montagne ricoperte (perlomeno sul versante settentrionale) dalla taiga siberiana, fino a raggiungere quasi i confini settentrionali della Mongolia, in corrispondenza del lago Hovsgul, un gigantesco specchio d'acqua (contiene il 2% di tutta l'acqua dolce del mondo!) considerato il fratello minore e più giovane del lago Bajkal, che è situato appena a 150 km a nordest. Data la distanza, ci siamo fermati a dormire in tenda nei pressi del cono di un vulcano estinto, l'Uran Togoo Uul per poi proseguire il giorno successivo verso Moron, per raggiungere la quale abbiamo anche attraversato su una zattera il fiume Selenge e successivamente Khatgal, la cittadina sulle sponde del lago nei pressi della quale era situato il nostro campo gher. Il viaggio è stato lungo e faticoso, ma i paesaggi attraversati erano bellissimi e, per fortuna, il tempo (a parte qualche pioggia pomeridiana il primo giorno , subito dopo Bulgan) estremamente positivo. Gli ultimi 6 km, da Khatgal al campo gher sono stati terrificanti (la non-strada era piena di radici, sassi, dossi, pietre e non si arrivava mai) ma il posto, immerso nella foresta siberiana sulle sponde del lago, ci ha compensato delle fatiche fatte, dandoci la possibilità di farci una passeggiata a cavallo e addirittura di una gita in gommone....Dopo due notti trascorse al lago, al momento di ripartire, per la prima volta da quando eravamo in giro, il tempo appariva decisamente peggiorato: cielo velato, freddo (qua se non c'e' il sole fa sempre freddo) e minaccia sempre più concreta di pioggia. La nostra successiva meta era la regione montuosa del Terkhiin Tsagaan Nuur (un altro lago) e del vulcano Khorgo: anche in questo caso il tragitto ha richiesto due giorni dovendo attraversare catene montuose e passi percorrendo centinaia di kilometri; era perciò prevista una seconda notte da trascorrere in tenda ma, dato il maltempo, abbiamo vissuto l’esperienza di dormire in una locanda, invero spartana, in un tipico villaggio mongolo, semideserto data la stagione estiva. Abbiamo poi visitato il lago, che si è formato a causa dell'eruzione del vulcano Khorgo che ha bloccato il corso del fiume Chuluut, e abbiamo fatto un'escursione fino alla cima del cratere dello stesso vulcano, estremamente spettacolare. Dopo un paio di giorni nella zona, ci siamo spinti ancora più a sud-est nell'aimag dell'Arkhangai fino a raggiungere una singolare pietra alta 25 metri che si erge solitaria in mezzo alla prateria sulle sponde di un fiume: il Thaikar Chuluut, luogo sede di numerose leggende locali. Qui, ospiti di una famiglia nella gher, ho assaggiato finalmente l’airag, senza le paventate nefaste conseguenze per il mio stomaco: Bagi mi ha detto che potevo sentirmi un mongolo a tutti gli effetti! Siamo successivamente ripartiti per Kharkhorin, l'antica Karakorum, la vecchia capitale del tempo di Gengis Khan che, secondo quanto ci hanno detto, entro il 2030 dovrebbe di nuovo diventare la capitale della Mongolia. A Kharkhorin c'è il monumento più visitato dell'intero paese, l'Erdene Zuu Khild, il monastero circondato da un quadrilatero costituito da 108 stupa. Per arrivare a Kharkhorin abbiamo attraversato l'aimag di Arkhangai, passando per il capoluogo Tsetserleg ed effettuando una deviazione sulle montagne per fare una sosta in una stazione termale dove ci siamo rilassati facendo un bagno nell'acqua bollente. Il tragitto è stato caratterizzato dalla giornata più piovosa del viaggio, e vedere all'opera il nostro autista mentre si districava per non rimanere impantanato nelle strade fangose è stato motivo di interesse e preoccupazione...L'ultima parte del viaggio ci ha portato nel sud del Paese: dopo giorni e giorni di verde, montagne, alberi e tantissimi animali, abbiamo cominciato a vedere il panorama cambiare lentamente verso la steppa, fino a trasformarsi in deserto vero e proprio: il deserto del Gobi, ritenuto uno dei più infidi del mondo, con temperature che d'estate possono superare i 50° ma che d'inverno, di contro, scendono oltre i 40 sotto zero. Abbiamo percorso tantissimi km per raggiungere le piccole ma spettacolari dune sabbiose di Motshgol Els, le Rupi Fiammeggianti, dove sono stati trovati fossili e uova di dinosauro e lo Yolin Am, una incredibile gola in mezzo alle montagne al centro del Gobi dove il torrente rimane gelato anche 11 mesi l'anno (non ad agosto, comunque!!). Il tutto, con il deserto sorprendentemente verde a causa delle inusuali abbondanti piogge da poco cadute: uno spettacolo emozionantissimo. Il ritorno ad Ulaanbaatar, non privo del brivido dell’avventura quando ci siamo persi nel deserto con un’incombente tempesta di sabbia, ha concluso un viaggio spettacolare in un paese che potrei definire sorprendente. Sorprendente per lo spettacolo offerto dalla natura, per la mitezza e gentilezza dei suoi abitanti, per il livello di emancipazione delle donne, per la lingua, incomprensibile e dura ma nello stesso tempo dolcissima, e sorprendente per il desiderio di modernizzarsi senza cancellare le proprie tradizioni: la gher con la parabola e il pannello solare è il simbolo di quest’ultimo aspetto che magari potrà non piacere al turista, ma che testimonia un’equilibrata predisposizione al legittimo progresso. Di nuovo, un grazie di cuore a Federico Pistone per l’entusiasmo e il supporto che ci ha dato, consentendoci di vivere una bellissima esperienza. (Il resoconto dettagliato del viaggio con tutte le foto è su www.decano.it)Francesco Pizzirani
FOTO DI LORETTA RONDI REYSiamo nel deserto del Gobi, alle rupi fiammeggianti di Bayan Zag, prima di raggiungere il campo delle gher. I cammelli vanno ad abbeverarsi a una pozza d'acqua.Al campo di Khongoriin Els, dove ci sono le grandi dune, dopo cena quando il sole sta per accomiatarsi e il paesaggio si tinge di colori caldi, saliamo verso una collinetta e bianco come la neve, un piccolo stupa con i suoi mulini di preghiera, le offerte a Budda e il cappello mongolo sulla sommità, ci accoglie per regalarci un piccolo momento di alta spiritualità.E' uno di quei cavalieri che accompagnano i turisti tenendo il cavallo legato al loro, ci vado anch'io ed il mio accompagnatore mi porta a raccogliere i cavalli di un amico, che meraviglia, peccato che ritorno quando è quasi buio e i miei amici sono preoccupati ed arrabbiati.Incontriamo un futuro marito che sta costruendo la sua gher accanto a quella dei suoi genitori.Parco nazionale di Hustain Nuruu, i cavalli selvatici che sono prototipi del cavallo moderno, li chiamano taki o secondo il polacco che li ha scoperti, Przewalski.
Dopo cinque giorni a Pechino, tra un popolo senza educazione e un'afa impressionante, ben felici abbiamo preso la Transmongolica diretti a Ulaanbaatar e quel viaggio in treno, sebbene lungo 30 ore, non ci ha per nulla stancato e abbiamo goduto di paesaggi inimmaginabili.... Approdati alla stazione di Ulaanbaatar, dove il tempo sembra essersi fermato, la nostra prima tappa, dopo l'hotel e il giretto d'obbligo in centro città, è stato il monastero di Gandan dove ci ha accolto una atmosfera quasi onirica e noi ci siamo lasciati trasportare.La mattina presto, siamo partiti alla volta del deserto del Gobi, dove ci siamo divertiti come pazzi con la nostra "caffettiera" russa che, nonostante anche 430 km giornalieri di piste, non ci ha frantumato la schiena. Ci siamo preoccupati da morire poiché spesso rischiavamo di ribaltarci col pulmino negli sterrati e ci siamo arenati una sera senza apparente possibilità di uscirne. Eravamo angosciati poiché qualsiasi imprevisto in quella terra era per noi motivo di ansia, non potendo risolvere le varie incognite con un colpo di telefono. Ma ci siamo tranquillizzati perché per ogni problema esisteva una soluzione da un pastore o cavaliere amico, che con un sorriso o una pacca sulla spalla riusciva a farci ritrovare il buonumore, grazie anche al nostro fantastico autista. Impossibile pensare che al giorno d'oggi esistano popoli fondati sull'aiuto reciproco, sull'ospitalità, sull'amicizia e totalmente scevri al business... Ma la Mongolia è anche questo, oltre a paesaggi incontaminati ma mai monotoni, a tradizioni ancora molto radicate ma non anacronistiche, a religioni passate e a religioni attuali. Un popolo dignitoso e disponibile, generoso e fiero del proprio habitat dove negli occhi dei bimbi aleggia la spensieratezza della propria età.Annamaria Buggio
Il viaggio in Mongolia è stato sicuramente un'esperienza unica sotto diversi profili. Io e la mia compagna di viaggio Elisa siamo state accolte all'aeroporto da una sorridente ragazza mongola che ci ha sistemate in un albergo e poi ci ha fatto visitare alcuni siti della capitale (Gandan, il museo di storia naturale, Choijin monastery e il Zaisan memorial). Il giorno dopo, nonostante Elisa fosse in preda alla "vendetta di montezuma" (dissenteria del viaggiatore), siamo partite alla volta del deserto del Gobi (Yol canyon, Khongor sand dune) che abbiamo raggiunto dopo un paio di giorni. Siamo poi state a Bayanzag (red flaming cliffs), all'Ongiin khiid, Kharakhorum (Erdene zuu), Orkhon waterfall, Tsenkher hot spa, Terkhiin tsagaan lake, Tsetserleg, Zaya gegeenii sum, il vulcano Khorgo, Ogii lake, Khustai nuruu park per tornare, infine, a Ulaanbaatar. Questo è il giro che abbiamo fatto. Inutile che mi dilunghi sulla descrizione delle bellezze naturali e dei paesaggi maestosi che i nostri occhi hanno scorso lungo le centinaia di chilometri battuti in quindici giorni: le fotografie parlano da sole e comunque credo che altri luoghi non siano da meno. Quello che veramente mi ha impressionata è stato percepire lo spazio, il silenzio ed il buio assoluti. Confesso che quando mi sono trovata a passeggiare sulla duna di sabbia ho avuto paura. Ho pensato che se mi fosse successo qualcosa sarei morta stecchita lì, magari tra atroci sofferenze, senza che nessuno potesse darmi adeguato soccorso. Poi, dopo l'ennesimo pasto a base di pasta in brodo e montone (ottimo!!), mi è passata la paturnia.E poi la gente... In viaggio eravamo io, Elisa, Zolo e l'autista Dugree. Per qualche giorno sul nostro furgoncino è stato ospitato anche un ragazzo francese (Pascal) completamente fulminato che, dopo aver dato le dimissioni dal lavoro a Tolosa, con la liquidazione aveva iniziato a girare l'Oriente (Laos, Cambogia, Cina, Mongolia e poi, chissà...) solo con uno zaino e una macchina fotografica.Zolo è una ragazza di vent'anni molto bella, sveglia, brillante, intelligente. Studia biotecnologie, parla un ottimo inglese, cucina benissimo e monta le tende senza battere ciglio. Insomma una tipa davvero in gamba. Abbiamo parlato molto delle nostre abitudini così diverse e abbiamo colto anche molte similitudini nei nostri struggimenti amorosi e accidenti familiari (insomma sotto ogni cielo i cuori battono allo stesso modo). Nonostante il suo essere "cosmopolita" (naviga in internet, aveva vissuto sei mesi in Thailandia, conosce ogni anno decine di turisti, era molto interessata al mondo della moda) manteneva però intatta la sua identità nomade (fino all'età di sei anni ha vissuto in una gher): diceva che il suo sogno era quello di comprarsi una gher e andarci a vivere con i suoi amici, divorava interiora di montone come se fossero giuggiole, aveva un portamento da regina e modi da bestiolina (ometto i dettagli più scabrosi). Insomma una vera meraviglia. Ci siamo scritte un po', ma poi non ha più risposto alle mie mail.. chissà che fine ha fatto. Dugree è un omone che parla solo in stretto mongolo. Unico con cui comunicava senza l'intermediazione di Zolo era Pascal (che annuiva e rispondeva in francese). Non abbiamo mai capito cosa si dicessero, però erano in perfetta sintonia, specie quando lanciati a 60 km/h su una pista nel deserto abbiamo perso una ruota. Dopo che io e Elisa abbiamo pascolato i bulloni sparsi in giro (ne abbiamo recuperati solo 4 su 8, ma... non c'è problema!) Pascal (ex meccanico di moto) e Dugree, bofonchiando qualcosa di tanto in tanto, si sono messi a riparare il tutto e siamo ripartiti. Alla fine della vacanza Dugree ha espresso il desiderio di avere una pecora da portare ai figli ed è stato accontentato (non prima che ce ne facesse assaggiare un po' bollita, buonissima!). Durante il giro abbiamo dormito in tenda, gher e un paio di notti (freddissime e umidissime), nel furgoncino.Le gher erano di campeggi e in alcune occasioni delle famiglie nomadi. E qui si apre il capitolo più toccante... Mi ha colpita la semplicità delle persone e la loro generosità. Hanno poco, ma quel poco te lo offrono. Non può quindi dirsi che siano povere (anche se nella capitale le cose sono ben diverse purtroppo..). Non chiedono praticamente nulla alla natura così ostile in quelle zone e ne rispettano religiosamente l'equilibrio. Vivono isolati e questo dimostra una grande serenità di spirito. Alcuni si sono accasati stabilmente nelle città, ma i più continuano a girovagare per deserti, lande brulle e montagne pacifici, eppure discendono da Gengis Khan!!!! Cosa si può dire di fronte a tutto questo?Come spiegare la commozione provata quando due anziani nomadi che ci avevano ospitate ci hanno mostrato come un tesoro le fotografie della loro famiglia, del loro matrimonio, dei nipoti? E poi ci hanno salutato annusandoci le guance, dopo averci offerto il loro stesso pasto. Mi sembra di essere entrata in un'altra dimensione, più umana. Anche se questo significa fare una doccia alla settimana e fare pic nic in mezzo allo sterco di animali di ogni genere: cammelli, cavalli (compresi alcuni di una razza rarissima e protetta), yak (stupendi), capre, marmotte, cani, scoiattoli. abbiamo visto persino i gabbiani (ma che ci fanno lì??), dei rapaci e delle specie di gru, oltre a piccole farfalle. Dimenticavo la cavalcata a perdifiato. Erano anni che non andavo a cavallo a causa di un incidente che mi ha sbriciolato il ginocchio, ma lì non ho resistito e ho sfidato il dolore. Fantastico!!! Io non ho il fisico purtroppo, ma lì puoi galoppare senza freni senza fermarti MAI!!! Mamma mia che bellezza..Quando son tornata ho avuto un trauma. Qui siamo appiccicati come sardine, chiusi in loculi di cemento e corriamo come pazzi di qua e di là. Ma in fondo cosa concludiamo in più di un nomade? Mi sembra di aver perso un po' il senso delle cose. Ma questa è un'altra storia, la mia personale, che un viaggio così ha potuto solo confermare. Nonostante i numerosi giri propiziatori intorno agli ovoo.Lucilla Raffaelli
Il freddo; la neve; le strade prive di lampioni illuminate però da una stellata senza pari; la difficoltà di comunicazione persino con la guida stessa; persone con tratti somatici diversi che guardano incuriositi; le gher alla periferia della capitale di coloro i quali hanno accettato la vita in città ma non vogliono sganciarsi, per il momento, dalla tradizione nomade; i primi autobus che nonostante l’ora cominciavano ad affollarsi; l’immancabile zuppa con patate e pasta; il the a base di latte di capra sempre pronto per essere offerto agli ospiti dalla padrona di casa; lo stretto contatto con gli animali che vivono con la famiglia fino al 20° giorno di vita; la mancanza di acqua; l’assenza di campi coltivati; l’estrema devozione della donna verso il marito a tal punto da mangiare dopo di lui in segno di rispetto. Questo è la Mongolia, l’Asia, dalle mille contraddizioni e difficoltà ma con un senso di appartenenza orgogliosamente radicato.Sara Giordana
Le mie emozioni: la prima L'ESSERCI dopo aver aspettato mesi la partenza e averla desiderata parecchio. Poi la galleria della natura, a Bayan Bulag, non tanto per le pitture rupestri, quanto per le rocce consumate dagli agenti atmosferici: credo siano le foto più belle che io abbia fatto, o almeno lo sono per me. Poi la steppa ancor più del deserto di dune che già mi affascina da morire, ma la steppa ti dà la sensazione dell'immensità, dell'infinito: ho avvertito veramente la rotondità della terra. Sensazioni da vivere. E poi Yolin Am (la valle delle aquile) e una località raggiunta poco dopo: l'immensità con un tempietto, delle gher, degli armenti e la pace assoluta: La giornata di Yolin Am credo sia stata la più bella ed emozionante di tutte. Avrei voluto gridarlo al monto intero, ma non potevo nemmeno comunicarlo via sms, non c'era campo. E l'emozione è stata tutta mia. Poi Terkin Tsagan Nuur (chissà se si scrive così), le gher che si rispecchiano nel lago, la sciamana, e la continua sensazione di pace. E nelle vicinanze il Vulcan Horgo. Essere sul bordo del suo cratere... E tanti animali, di tante specie, di terra e di cielo. E poi il nord: il lago Huvsgul, grandissimo e disabitatissimo, a parte il nostro campo il Toilogt, circondato da larici e con un ricchissimo sottobosco, nontiscordardime, giglio martagone, ma secondo me somigliante alle nostre montagne, con valli dilatate al massimo, stelle alpine che crescono in mezzo all'origano. E chi se ne importa se ho litigato con un componente del gruppo. Queste sensazioni mi hanno ripagato di tutte le negatività del viaggio. Grazie Muren, grazie Federico.Neda Terzi
Il mio viaggio in Mongolia è stato fenomenale, ho trovato tutto quello che mi aspettavo per un amante della natura quale sono. Il Paese è molto tranquillo i rischi per i turisti sono nulli, noi abbiamo viaggiato con due persone espertissime, un ottimo autista che ancora mi chiedo come faccia ad orientarsi nel nulla delle strade della steppa e del deserto, un paesaggio sempre uguale per chi guida, ma sempre diverso per chi guarda. Tanti ambienti diversi, steppe, laghi, altipiani, ghiacciai nel deserto, terre rosse, foreste pietrificate, boschi... Con noi c'era anche la guida una ragazza molto gentile, che parlava un buon italiano e che ci ha aiutato a capire anche la situazione economico e politica della Mongolia cose che spesso nei viaggi ai turisti non vengono mostrate e che ci ha aiutato moltissimo visto il nostro scarso inglese. La natura e' stupenda anche se siamo arrivati un po' presto: i colori sono più accesi in lug lio e agosto ma devo di che a maggio ti mostra una natura che sta preparandosi a dare il meglio di sè nella stagione estiva. Abbiamo visto un sacco di animali: cavalli addomesticati e cavalli selvaggi che nella steppa lasciavano una lunga scia di polvere, maestosi yak dall'incedere calmo che trainavano pesantissimi carri spronati da laboriosi contadini, cammelli, insetti strani soprattutto nel deserto, gazzelle al limitare della steppa. Ma non solo animali: un sera tra le gher del nostro campeggio ci siamo ritrovati invasi dalle auto della terza edizione della Pechino Parigi corsa che si tiene ogni 10 anni, un'altra esperienza fantastica. Auto d'epoca nel deserto dei Gobi, uno strano incontro. La gente è cordiale, il cibo è eccellente e molto simile al nostro, la fatica è notevole, l' auto un po' stancante e passeggiate interminabili ma ce le siamo cercate. Nonostante abbia sempre mangiato tutto, sono calato sei chili (prima di partire ero 116 adesso 110). Ho solo il rammarico di non avere potutoassaggiare l'airak, i formaggi e la carne di cammello.Fabrizio Martinelli
Ancora oggi non c'è giorno in cui non pensiamo almeno per un momento, alla bellissima esperienza vissuta in Mongolia lo scorso ottobre e credo che con un po' di presunzione si possa parlare di Mal d'Asia. Molti si chiedono se la Mongolia si possa visitare in ottobre: la risposta è sì anche se fa un po' freddino e le praterie non hanno più il loro bel colore verde. Si ha però la possibilità di vivere momenti unici ed in completa solitudine anche nei luoghi che, per la loro importanza, sono più frequentati nella bella stagione. Il viaggio è andato bene, non ci sono stati problemi particolari, solo qualche piccolo inconveniente che ha reso la cosa più divertente da raccontare agli amici. Ogni giorno ci ha riservato delle sorprese e degli aneddoti. I viaggi lontano da casa sono sempre un'esperienza che lascia qualcosa ma se ci si aff ida ai molti tour “vedi e scappa “ si ritorna sempre con l'amaro in bocca. Secondo noi il contatto diretto con la gente che abita i luoghi che si visitano dà un valore aggiunto impareggiabile; vuol dire vivere la diversità che c'è nel mondo e nel contempo valorizzarla. E' bello vedere che si è tutti diversi e nello stesso momento tutti uguali. La visita ai monasteri Amarbayasgalant, Erdene Zuu e Shankh, Khongoryn gol nel deserto del Gobi e Bayanzag sono state per noi le mete che più di tutte ci hanno entusiasmato senza contare che gli stessi trasferimenti, anche se non proprio rilassanti, ci tenevano sempre incollati al finestrino. I bambini a Ulaanbator, il traffico e la sensazione che questa sia una città che fra qualche tempo non riconosceremo più, il persistente odore di carbone quando il vento non pulisce l'aria. Il furgone UAZ con cui abbiamo percorso i km di molte piste e poco asfalto, certe volte si preferivano le piste alle strade piene di buche.La totale mancanza nel cielo di scie di aereo per tutto il viaggio. L'improvvisata fatta ad una famiglia nomade amici di Gerlee, il nostroautista, una delle esperienze più belle. Le risate della piccola comitiva. Le soste per uno spuntino o semplicemente per una tazza di the, il silenzio che ti avvolge ed il tentativo di ritrarre in una fotografial'immensità di quello che ti circonda per portare una testimonianza a chi ti aspetta a casa. Il cibo? Si sa, non si è né in Italia né in Francia, ci si deve adeguare ma l'abbiamo fatto con piacere e poi lo yogurt, il formaggio, la carne, i biscotti e l'airag offerti dai nomadi incontrati erano squisiti e sani (nella foto sotto, Fiorenza davanti all'ennesima zuppa di carne). E ancora, la discesa verso il deserto, forse quella che sta diventando un po' la nostra passione. Dopo aver visto quelli di Namibia e Marocco eccoci alle dune del deserto del Gobi. Le giornate più entusiasmanti, passeggiate lunghissime, rilassanti con cui appagare lo sguardo e l'animo. Le greggi, il bestiame, le aquile, gli avvoltoi, le gazzelle, una natura ancora selvaggia e intatta. Ci sarebbero moltissime "immagini" da raccontare e che ci sono rimaste impresse nella memoria ma si sa, ognuno vive i propri viaggi a modo suo e le esperienze acquistano valori diversi a seconda di chi le vive. Molte volte penso che mi piacerebbe non cambiasse nulla di quei posti, di quella gente, forse perchè la loro semplicità e spontaneità ricordano quello che la società dove viviamo noi occidentali rischia di dimenticare cioè il saper apprezzare le cose semplici, il conquistare qualcosa con le proprie forze rimanendo solidali con chi ci sta attorno. Sono sensazioni che fanno riflettere, la vita in Mongolia è dura come dura è la "scorza" che hanno i nomadi Mongoli.Marco De Rosa
LA MONGOLA D'INVERNOIntanto devo dire perché la Mongolia e spiegare così la scelta del periodo. Innanzitutto sono stato ispirato dalle letture di Tucci sul buddhismo e di Thubrow ("Il cuore perduto dell'Asia"), poi l'interesse verso le culture tribali e nomadi. Ho optato per il periodo invernale perché la vita dei mongoli non è condizionata dalla presenza dei turisti e anche per provare a vivere un'esperienza vera e per certi aspetti dura. L'occasione è stata quella dello Tsagaan Sar, il capodanno mongolo che quest'anno cadeva a metà febbraio 2007. Non posso negare però che, oltre a questi motivi "culturali", molto nella scelta del periodo hanno contato le condizioni materiali che avrei incontrato: meno 25 gradi, niente elettricità, niente docce, dormire in tenda. Insomma da un lato la sfida a vivere come vivono i mongoli durante la maggior parte dell'anno, dall'altro qualcosa di diverso da una vacanza Alpitour. E tutto è andato bene.Il freddo aiuta a capire molto e non mi ha mai bloccato o impedito, anzi dopo tre giorni in tenda riuscivo a uscire in maglietta come un mongolo; ho fatto festa in sette famiglie e mangiato e bevuto tutto ciò che mi veniva offerto (e questa è un'emozione indescrivibile). Sono tornato molto più rilassato di quando sono partito. Confidando che internet arriverà presto nelle gher vorrei salutare: Rash e Balgikhun che mi hanno ospitato e tenuto al lato destro durante la festa, Munjii e la figlioletta Baigal, Purevbish (che mi chiamava "compagnone") e la famiglia, Giamian e la famiglia, e tutte le altre famiglie che ho incontrato.Ciao, Moreno
Sono tante le impressioni, le immagini e le emozioni riportate che diventa difficile descriverle. Qualcuno mi aveva detto: "In Mongolia? Ma ci sono solo spazi immensi, monotoni e senza niente. Che ci vai a fare?". E io a queste persone non posso che rispondere con una frase di T. Monod: "Monotono? State scherzando? Per il cieco senza dubbio, come per il viaggiatore banale, ordinario,senza curiosità, che non sa né vedere né guardare". L'immagine più bella: il volo di un'aquila proprio vicino alla luna che era appena sorta: l'aquila è l'animale che mi piace di più fin da quando ero bambina perchè pensavo che volando co sì in alto potesse vedere cosa c'era dentro la luna. Il momento più suggestivo: assistere a una cerimonia buddista ad Erdene Zuu. Ma anche l'ospitalità dei nomadi, quando mi invitavano a entrare nelle loro gher a bere airag o té salato con latte cercavamo di comunicare con gesti; e l'orgoglio dei partecipanti al festival dei cammelli mentre sfilavano nei loro splendidi vestiti tradizionali. E poi il cielo: "la terra penetra il cielo" cantano i Csi, o forse è il cielo che penetra la terra. Di sicuro qui è così magica l'unione tra terra e cielo, e senza bisogno dell'arcobaleno. Mi viene in mente un passo della Genesi "L'arco starà tra le nubi, e vedendolo mi ricorderò dell'alleanza stabilita per sempre fra Dio e ogni essere vivente di qualsiasi specie che è sulla terra".Ulaanbaatar mi ha incuriosito. Ho fatto il classico giro della città con la visita a Gandan, ai musei e la piazza centrale, che mi ha lasciato abbastanza indifferente; poi l'ultimo giorno prima di ripartire per l'Italia, il pomeriggio ho passeggiato per le strade senza una meta precisa tra il caos delle auto e le strade innevate, osservando le persone, i negozi, i telefoni bianchi che continuano ad essere utilizzati nonostante i cellulari, il contrasto tra le costruzioni stile russo e i templi buddisti e le ger.Penso che sicuramente presto tornerò in Mongolia, perchè sono ancora tante le cose che mi piacerebbe vedere o approfondire, e perchè ci sono dei posti che in qualche modo ti mandano dei segnali e ti chiamano. Un abbraccio e bayarta.Paola Storti
Il mio viaggio in Mongolia inizia quasi per caso. Nulla di pre-organizzato, ma un semplice invito da parte del Comitato Olimpico Mongolo a mio padre (foto sotto), quale presidente mondiale della stampa sportiva, in occasione dei festeggiamenti del Nadaam e soprattutto della ricorrenza degli ‘800 anni dalla nomina di Ginghis Khan a primo imperatore della Mongolia. Un’occasione unica, irripetibile e da prendere al volo.Un viaggio ufficiale quindi, ricco d’intermezzi istituzionali e visite a ministri, alte cariche dello sport, banchetti e cene con giornalisti, interviste televisive e visite nelle redazioni dei giornali. Situazioni e persone che hanno arricchito culturalmente la nostra visita, che hanno permesso di addentrarci in profondità nel loro tessuto sociale, di conoscere abitudini, routine lavorative e valori che difficilmente un turista può cogliere.Curioso ad esempio è stato incontrare il ministro dello sport.All’interno di palazzone apparentemente di stampo sovietico ma di costruzione cinese, si trova “The Ministry of Sport Ability - Ministero delle abilità sportive. La struttura e gli interni mi ricordano molto le mie scuole elementari: soffitti bassi, uffici come aule dalle porte di legno laccate e grandi scaloni in marmo.Il ministro ci illustra lo sport in Mongolia, terra di lottatori. Racconta che in tutte le 21 aimag (province) si fa attività, dalla taiga al deserto dei Gobi e che il basket e la pallavolo sono le discipline più diffuse e praticate in queste regioni remote. Esistono 5 piscine in tutta la Mongolia, 3 di queste si trovano nella capitale.Gli sport che hanno regalato più successi sono la lotta con una medaglia di bronzo alle ultime olimpiadi di Atene, e gli sport invernali come lo short track, sci di fondo, e gli sport sul ghiaccio praticati all’aperto negli inverni rigidissimi di Ulaan Bator. Il nostro occidentale jogging non è praticato. Nessuno alla mattina si alza a correre, anche perché di parchi non ne ho visto l’ombra.Il nostro viaggio ci ha regalato luoghi e paesaggi unici come la steppa, e ci ha fatto conoscere l’incredibile vita dei nomadi. Spesso mi sono chiesta se fosse così la Mongolia che mi aspettavo e ricordo che, quando in Italia chiudevo gli occhi e cercavo di immaginare questo paese, sognavo immagini strappate dai documentari: spazi immensi, verdi, sovrastati da cieli tersi, infiniti e un popolo a cavallo, dagli occhi a mandorla e dalla pelle cotta dal sole e dal vento. E così è stato. Quello che immaginavo ha preso forma proprio nella visita alla steppa.La cosa che più mi ha impressionato è la vastità della steppa. Potrei cercare di descriverla semplicemente dicendo che è tanto vasta quanto il cielo, impossibile intravederne l’inizio e la fine e difficile da contenere con lo sguardo.A naso in su, mi sono tornati in mente i cieli dell’Outback australiano, così immensi e tersi, dalle nuvole talmente alte e striate che ti danno la sensazione di trovarti dall’altra parte del mondo, in un paese lontanissimo!Ma, il racconto di questa visita alla steppa deve per forza iniziare dalla narrazione dai mezzi e i modi con cui dalla capitale ci si arriva. Da Ulaan Bator si prende una strada che noi definiremmo statale, ma assurge a ben più importanti ruoli, in quanto è la principale via di comunicazione tra la capitale e il centro della Mongolia. Oltre ai dossi, alle buche, all’assenza totale di guard-rail e oltre al fatto di essere ad una sola corsia, capitava che d’improvviso venisse attraversata da greggi, persone, cavalli. O, nel peggior dei casi, è capitato che all’improvviso sbucassero da dietro un dosso, gruppi di lavoratori che nel mezzo della strada, senza preavviso o protezioni, gettavano catrame caldo per ricoprire i buchi e abbellire il manto in vista del Nadaam.Per non parlare delle stradine che abbiamo poi percorso, per addentrarci nel cuore della steppa e raggiungere una coppia di nomadi, amici della nostra guida-autista. Indaffarati nelle loro routinarie mansioni di mungitura e pascolo, appena ci videro sopraggiungere, abbandonarono il lavoro per accoglierci con sorriso nella loro gher (tenda). Ci fecero entrare in questa tenda circolare bianca, fatta di bastoni e ricoperta di feltro, dove la vita sembra gravitare attorno alla stufa posta nel centro e la cui canna fumaria fuoriesce dall’apertura centrale del soffitto.Ci sedemmo secondo l’ordine da loro impartito. Purtroppo non sono in grado di descrivere nel dettaglio tutto quello che ci è stato servito e chiesto di fare poiché ero troppo assorta ad osservare i dettagli di un modo strano e insolito. Ricordo solo che come prima cosa abbiamo dovuto annusare una boccettina di profumo da tenere rigorosamente nella mano sinistra, e che poi ci hanno offerto tè salato, una specie di yogurt di giumenta e formaggio seccato e salatissimo. Ero come estasiata ed era difficile capire il confine tra la realtà e l’immaginazione della vita di questa coppia di settantenni, dagli occhi a mandorla e dalla pelle molto spessa e incisa da rughe profonde, che avevano vissuto una vita in continuo spostamento, montando e smontando questa piccola casetta circolare, in cerca di campi sempre verdi per il pascolo e riparo dalle intemperie e dal vento gelido della steppa.La cosa più bizzarra era vedere il televisore alimentato dai pannelli solari e la radio che serviva, come sottolineavano loro, solo per seguire il Nadaam.Dalla gher accanto, due piccole bambine nomadi gattonarono fino alla nostra porta, attratte dalla nostra visita e in cerca di cibo. Anche stavolta, la mia immaginazione faceva fatica a comprendere come due bambine potessero crescere selvaticamente in questo modo, lavandosi nel fiume, mangiando solo prodotti di cavallo, mucche e buoi: una dieta priva quindi di vitamine della frutta e verdura, che in questo paese non viene coltivata in quanto la terra è considerata sacra, per cui non coltivabile.Penso che la nostra visita, la visita di due occidentali che hanno passato più tempo a far foto e filmati, abbia in qualche modo spezzato la loro routine scandita da mungiture e pascolo, e abbia portato un po’ di sapore occidentale.Se la vita della gher è stata per me come conoscere un nuovo mondo, non poco stupore mi ha suscitato la capitale Ulan Baatar.E’ stato come un viaggio a ritroso nel tempo, nell’Italia degli anni 50 del dopo guerra. Dai libri che leggo apprendo che la città è recente. Fino a ottant’anni fa c’erano solo carovane e bazar di mercati e oggi è un’oasi di cemento in un vallata verde. L’architettura cinese-comunista, che si manifesta nei palazzoni grigiastri dal tetto piatto e dalla forma rettangolare, spesso affiancati da baracche di legno e gher, crea l’atmosfera di questa città dalla difficile identità, sulle cui strade regna un traffico incontrollato e incontrollabile. La cosa impressionante è che per i pedoni non esiste alcun rispetto: con il semaforo verde o sulle strisce, il pedone non ha diritto di attraversare, deve girare in continuazione la testa, a destra e sinistra, e poi buttarsi ad occhi chiusi. Le strade sono piene di buchi e sui marciapiedi c’è il rischio di cadere in qualche botola o buco lasciato incostuditamente aperto. E’ quello che è capitato a noi fuori dal ristorante Marco Polo.Il traffico è molto eterogeneo: accanto a gipponi coreani e nipponici, sfilano calessi. L’auto è uno status symbol, simboleggia la ricchezza che solo pochi conoscono e che quei pochi ostentano e sfruttano come simbolo di potere. La mia giovane guida Ermun continuava a ripetermi che chi ha i soldi può fare quello che vuole: mi raccontava che suo fratello avevo preso la macchina per andare nella steppa, malgrado non fosse maggiorenne e che ciò era possibile solo perché veniva da una famiglia agiata e conosciuta in città.L’inquinamento è alle stelle, soprattutto d’inverno quando le tende e le baracche usano il carbone come combustibile. Gli abitanti raccontano che la città viene avvolta da una fuliggine grigia irrespirabile, mentre la temperatura scende a -15.Il rapporto auto-abitanti è 1 su 3 abitanti, ma l’utilizzo mi sembra smodato, anche perché i mezzi di trasporto pubblici sono ridotti all’osso. Caratteristici sono i “mini-bus parlanti”. In assenza di segnaletica e mappe che ne indichino il tragitto, l’autista ad ogni fermata si affaccia alla porta e inizia ad urlare più volte il tragitto che compierà.Pochissimi parlano inglese. La lingue scritta è il cirillico come in Russia e in ex-Jugoslavia. La lingua parlata è il mongolo: un idioma dal suono apparentemente diverso sia dal cinese che dal mongolo.I nomi propri di persona sono lunghi e difficilissimi da pronunciare, motivo per cui sono stati adottati dei nick-name, magari totalmente diversi dai loro originali ma sonori, facili da ricordare e da pronunciare soprattutto per gli stranieri.Ci raccontano che i loro modello di riferimento sono il Giappone e la Corea e quasi nessuno menziona la Cina, paese confinante. Anche Ermun ha visitato parecchie volte la Corea e il Giappone ma mai la Cina. I modelli delle pubblicità hanno però volti occidentali.Purtroppo mi pervade il senso di decadenza: strade, marciapiedi, giardini. Nulla è curato, tenuto in ordine ma tutto sembra essere lasciato al logorio. La dimostrazione più lampante è il giardino della dimora dell’ultimo budda vivente, Bogda Khan, divenuto ora museo. Ebbene, malgrado sia un museo, il giardino reale è completamente incolto e mal tenuto.Abbiamo attraversato quartieri dalle fogne a cielo aperto, con gente riversa per terra e sofferente. Non esistono vere e proprie strade e se piove,anche solo un quarto dora, la città si allaga.Alcuni vicoli sono talmente stretti che due auto, per passare, devono sormontare con le ruote sul marciapiede e continuare la corsa in equilibrio. Divertente è stato trovarsi nel mezzo di un ingorgo: la gente era semplicemente intenta a pigiare il clacson più forte che poteva, senza trovare soluzioni che potessero sbloccare la situazione.Ricordo che mio padre che scese dal taxi e si mise nel mezzo dell’incrocio a dirigere il traffico, come un vero vigile.Non esistono le monete ma solo soldi di carta e non esistono gomme da masticare in formato confetto ma solo lunghe strisce come le Brooklyn. Non esistono cabine telefoniche e chi ha bisogno di telefonare, può rivolgersi sulla strada a persone che, attrezzate di tavolino e telefono cellulare, mettono il loro telefono privato a disposizioni dei passanti. Non so come venissero quantificati gli scatti.Le donne giovani vestono all’occidentale, sandali con zeppe, gonne corte. Il loro modo di fare è estremamente ospitale e accogliente.Sul fianco di una montagna è stata disegnata la testa di Gengis Khan, o meglio Chinggis Khan, come lo chiamano qui. Il suo vero nome era Temujin e la sua magnifica abilità fu quella di riunire un popolo che era diviso in clan, creando così un impero, in grado di salvare il popolo dalla minaccia cinese, e capace di grandi conquiste, da oriente a occidente.Il Nadaam è la festa degli sport tradizionali: lotta, tiro con l’arco, corsa dei cavalli e il lancio con il dito medio di quadratini in ossa di bestiame. La lotta è la regina mentre la particolarità delle corse a cavallo è che i fantini sono poco più che bambini. Una sorta di battesimo dalle origini antichissime. I mongoli sono un popolo di cavalieri e per questo i bambini devono saper cavalcare da subito.Oltre al Nadaam, in quei giorni si disputava la finale dei Campionati del Mondo di calcio. Un grosso tendone dotato di megaschermo, dalla capienza di circa 2000 persone, era stato allestito nella piazza principale. I mongoli vanno pazzi per il calcio, malgrado non sia uno sport molto praticato in quanto mancano le risorse e, la cosa sconcertante fu che, in migliaia seguivano tutte le partite del campionato malgrado si trattasse per loro di notte fonda. Non dimenticherò mai la notte della Finale. La partita iniziava alle 3.00 del mattino, ora locale, ma l’appuntamento al bar fu attorno a mezzanotte. Servivano tre ore per prepararsi al meglio al match. Il nostro amico Sato aveva comprato magliette della nazionale italiana per tutti e, nel pomeriggio, alcuni giornalisti avevano scaricato l’inno italiano e imparato l’intonazione. Il bar si riempì presto e sul tavolo brillava la coppa. Da una parte c’erano i sostenitori dei francesi e dall’altra i sostenitori azzurri. Alle 2, erano già tutti ubriachi e qualche schiaffo era già volato tra le due fazioni di sostenitori. Quando poi Zidane colpì Materazzi, ci fu il delirio e ai calci di rigore, nessuno capiva più nulla.L’Italia vinse il mondiale quando in Mongolia sorgeva il sole. Erano le sette del mattino, quando facemmo capolino fuori dal bar per cercare di telefonare a casa e sentire i clacson dei festeggiamenti di sottofondo.Per noi era giunta l’ora di far rientro in albergo, felici e vittoriosi. Per i mongoli, iniziava di nuovo la festa.Questa è la mia Ulaan Bator, quella vista dai miei occhi e assaporata dai miei sensi.Manuela Merlo
E' stato un viaggio meraviglioso, anche se molto duro e difficile. Penso che La Mongolia sia una terra di cui non ti innamori subito ma piano piano. Le sonorità così difficili della sua lingua ti entrano nella pelle come le note della fragranza di un profumo, le note di testa all'inizio e poi il cuore, così intenso da diventare una cosa unica con la pelle della persona che lo indossa; così la Mongolia e i suoi spazi, i suoi suoni, i suoi colori, i suoi odori, ti entrano nel cuore piano e poi non se ne vanno più; restano per sempre lì. Una terra meravigliosa dove il simbolo tibetano dell'infinito si declina ovunque, negli spazi interminabili senza alberi che fanno da specchio ai propri pensieri, nel "sentire" che si legge negli occhi della gente. E' incredibile come il viaggio riesca a creare altre dimensioni, altri rapporti umani in uno spazio temporale che diventa virtuale quando si ritorna nel proprio paese? Spazi quotidiani convissuti tutte le ore del giorno e buona parte della sera con persone del luogo che improvvisamente si lasciano e probabilmente non si vedranno mai più? Come i volti ormai familiari della nostra guida e del nostro autista sempre pronti ad accompagnarci e ad assisterci con il sorriso. Improvvisamente si parte e i loro volti piano piano sfumano nel nulla fino a ricordarne vagamente i tratti somatici... come un mandala tibetano.Sono rimasta molto colpita dal Gobi, e dal lago vulcanico Terkhinn Tsagaan nuur. Vorrei tornare per visitare meglio il Gobi.Adesso sono tornata a casa e all'inizio ho fatto fatica a dormire in mezzo ai muri senza sentire yak ruminanti o il richiamo dei falchi, mi mancano da morire quegli spazi infiniti, quel vuoto pieno di cose da raccontare.Silvia Veronesi
Abbiamo trascorso un mese favoloso in Mongolia.E’ stato bellissimo: nella capitale ci siamo stati due giorni, abbiamo visitato il museo di scienze naturali e quello di storia e poi abbiamo passeggiato, siamo stati alla birreria tedesca, dove producono direttamente e la birra, alla pasticceria francese eccetera. Le due notti le abbiamo trascorse in una guest house tra il teatro e il circo, ragazze con mamma carinissime.Siamo stati poi una settimana settimana nel Gobi, una al centro e al nord, poi abbiamo lasciato il gruppo per trascorrere cinque giorni a cavallo con un ragazzo del Hovsgol Lake: quest’ultima esperienza è stata la più bella. Da Moron a UB abbiamo preso un aereo piccolo e pieno di simpatici abitanti e dopo poche ore il treno per il confine verso la Cina. Durante i giorni trascorsi a cavallo il nostro amico Mama ci ha fatto conoscere la sua famiglia e abbiamo avuto il piacere di assaggiare i prodotti dei loro animali. La Mongolia è una terra ospitale, semplice, riflessiva e ci ha fatto capire quante abitudini futili e inquinanti ci circondano e siamo costretti a seguire.Chiara Gatta e Michele Nassini
L'ARRIVOOggi sono a Ulaanbaatar! Ho finito il campo con i bambini- ragazzi a Buhug. Stamattina sono andata a mungere le mucche di una gher vicino al nostro campo. E mi son fatta ciucciare le mani dai vitellini! Ma che bella non è la Mongolia? Sono stata due settimane in un posto senza elettricità, né acqua corrente e con un piccolo "bagno" fatto di tavole di legno con in mezzo un buco! Qui c'è un cielo incredibile pieno di stelle, mai visto uno cosi; per lavare i nostri vestiti pieni di terra a causa del lavoro nei campi andavamo al fiume con una bacinella ma l'acqua col sapone veniva gettata rigorosamente lontana dal fiume. Mi mi sembrava di essere tornata indietro di 100 anni. E che tristezza lasciare i bambini e anche tutti i volontariIn queste 2 settimane con i ragazzi e i vicini di gher non mi sono mai sentita una turista o un'occidentale, ma abbiamo fatto una gita di 2 giorni a Kharakhorum e nel little Gobi e a kharakhorum. Forse l'ultimo giorno in Mongolia torno per qualche ora dai bambini, i vicini di gher mi han detto che se torno mi preparano un po' di formaggio! Ma che gente incredibile e affettuosa i mongoli. Ho terra ovunque per il lavoro nei campi e le braccia nere! Che bello! BayarteeIL RITORNOQuesta volta non sto scrivendo da UB ma da casa... dall'Italia, da Milano... Mi sento stranissima, tutto mi sembra strano qui. Sono rientrata ieri sera alle 23 ora locale ma sul mio cellulare c'era ancora e c'è tutt'ora l'ora mongola ed erano le 6. Appena chiudevo gli occhi mi venivano davanti tutte le immagini momenti e volti di questo mese e non riuscivo proprio a credere che di lì a poche ore sarei partita e avrei lasciato la Mongolia... Ero triste, felice e tranquilla allo stesso tempo.Sull'aereo ho scelto di stare in un posto finestrino per conto mio per poter vedere e sentire e salutare un'ultima volta la Mongolia, vedere le gher dall'alto e riprovare a sentire le emozioni di quando invece un mese fa ero arrivata...fortunatamente vicino a me si è seduta una magnifica persona compagna di viaggio che mi ha fatto continuare a viaggiare e portare con me la Mongolia almeno fino a Mosca. Era una bambina di nove anni di nome Oyuntsatsral che ha catalizzato da subito la mia attenzione facendomi dimenticare che stavo per lasciare la terra più immensa e magnifica che abbia mai visto e facendomi continuare a sorridere e giocare per le seguenti 5 ore e 30 di viaggio. Sua mamma è una bella donna mongola che ha sposato un uomo scozzese che era un padre magnifico (per quel che ho visto) con cui ha un altro bel bimbo di un anno. Tsatsral è riuscita a tenermi sveglia, a farmi ridere, a farmi fare giochi che non facevo più da quando avevo 7-8 anni, a farmi tornare una vera bambina anche nei comportamenti e le nostre conversazioni non si sono mai arrestate. Ci siamo acconciate i capelli a vicenda, ha continuato il lavoro che avevano iniziato i bambini al campo con me: lezioni di mongolo!!! Ha tentato con pazienza e passione di farmi migliorare la mia pronuncia mongola e insegnarmi nuove parole. Arrivati a Mosca loro son corsi via per prendere la coincidenza per Londra. Più tardi ho scoperto che non ce l'avevan fatta;ero al transfer desk per avere la carta d'imbarco e qualcuno mi abbraccia ai fianchi! Era lei! Che bello rivederla! Quando li ho salutati, quando ho salutato Tsatsral e quando sono salita sul volo Alitalia che mi avrebbe riportato a Milano, quando ci siamo staccati da terra...sì, è li che ho sentito che avevo veramente lasciato la Mongolia, è li che per la prima volta mi sono venuti gli occhi lucidi.Quando poi sono scesa dall'aereo con quel grigiume del cielo, così diverso dai cieli visti nel mese passato, quando ho respirato l'aria soffocante, così diversa da quella fresca leggera e profumata dai prati dalle mille tonalità di verde... in quel momento i miei occhi si sono bagnati di qualche lacrima, ma non era tristezza, non posso essere triste perchè sono troppo felice per le mille emozioni, sensazioni, esperienze vissute e per i volti e le persone incontrate in questo meraviglioso mese, è solo nostalgia, quella nostalgia che ti fa un po' venire da piangere ma allo stesso tempo ti fa sorridere e ridere perchè ripensi a tutte le belle cose vissute.Cristina
E' stato un viaggio 'frastornante', la Mongolia e la sua gente hanno avuto su di me un impatto emotivo travolgente e così, per tanto tempo, non sono riuscita a dire niente. Oggi ho fatto un tentativo, tanto di più non penso di riuscire a dire.CantoPratoSpazioInfinitoCieliDonnaFaticaTeporeMammellaSudoreBelatoAcquaFuocoLamaCornaAzzurroPiantiRisaBambiniTantiPanciaFreddoCaldoCiboPocoCavalleLatteCavalliCorrereVeloceVentoInsiemeEssereAccoppiarsiForzaVitaMorteUna placenta.Chiara Zanoccoli
Quest'estate siamo stati in Mongolia, per un bellissimo viaggio con i fuoristrada. La popolazione locale è sempre molto gentile. La reperibilità di mezzi, a disposizione dei turisti, è sicuramente la difficoltà principale, ma se si riesce a superare questo enorme ostacolo, il resto sarà veramente appagante: noi abbiamo sempre dormito in campi gher di ottimo livello, con letti "veri" e lenzuola linde, il cibo è purtroppo monotono, ma più che accettabile. Arrivare a Bayanzag, e vedere dal vero resti di dinosauri affioranti dalle dune è una sensazione unica che colpisce sicuramente anche il meno sensibile dei viaggiatori.La nostra esperienza è stata particolare anche per il gruppo numeroso che avevamo formato: eravamo infatti in venti persone di cui 5 ragazzini tra i 10 e i 14 anni, con 6 fuoristrada. Alcuni avevano una grossa esperienza di guida in Africa, ma due del gruppo erano alla loro prima esperienza di tale guida, e se la sono cavata egregiamente in ogni situazione. Per il prossimo anno sarebbe mia intenzione ritornare in Mongolia, per scegliere gli itinerari più a nord, alla ricerca delle popolazioni che vivono con le renne.Aldo Cereser
Lettera per convincere un'amica a partire per la Mongolia.Carissima Emanuela,anzitutto grazie per esserti ricordata del mio desiderio di sapere del Tibet e per la tua lettera molto acuta che mi ha ben inquadrato l’argomento! Io e la mia amica abbiamo poi rinunciato al Tibet come meta perché agosto risultava un po’ a rischio pioggia. Anche la Mongolia è a rischio pioggia in agosto ma abbiamo pensato che le condizioni delle strade in Tibet potevano risultare più impegnative e così… siamo partite per quel posto assolutamente incredibile che è la Mongolia. Ti confesso che ho ricevuto molto più di quanto mi aspettassi, forse soprattutto grazie a qualche divinità favorevole (esiste un Budda del clima incantato?) che ci ha sferzato solo una volta con un temporale estivo ma ci ha concesso sempre delle giornate splendide, con luci indimenticabili.La sintesi del mio viaggio è che abbiamo vissuto due settimane dentro un documentario naturalistico: dove uomo e ambiente perfettamente integrati testimoniano cosa possano essere ancora armonia serenità poesia. Ogni giorno percorrevamo 200 o 300 km facendo soste continue per assistere a eventi comunitari: la mungitura delle giumente, la preparazione delle lane di feltro, scene pastorali o bambini a cavallo che con orgoglio ci mostravano la loro abilità (altro che corsi di tennis!), il nadaam (lotta tra uomini, una sorta di sport nazional-popolare in verità piuttosto ridicola per noi ma anche per loro che spesso sorridevano) e il tiro con l’arco. E’ stato bello anche perché nulla era veramente programmato, ma gli eventi si susseguivano casualmente, come scoperte continue, ricche di fascino.Sopra di noi giocavano i rapaci inseguendosi l’un l’altro e così giocavano tra loro i cani e i capretti in spazi infiniti; e dalle gher (le abitazioni circolari, tende di feltro ben strutturate ma semovibili) ci accoglievano (solo una volta apparentemente con ferocia) cagnoni simpatici, sorta di numi tutelari della famiglia, neri pelosoni scarmigliati e spesso sporchi o zoppini, a volte gialli (come nel film), talvolta li vedevi dormire pacifici tra le dunette nell’infinito verde. Distese di erba cipollina tutta bianca fiorita e una volta un mare di fiori indaco-violetti come una Provenza asiatica. Villaggi fatti di capanne di legno recintate e nel recinto anche una gher, per le famiglie più recenti. Posteggiati fuori dai negozietti nei rari villaggi: un cavallo e una moto old fashion, a volte un carretto o uno scassato camioncino pronto a contenere un numero imprecisato di locali. Gli ovoo, fatti di pietre, amuleti e sciarpine votive, intorno a cui devi girare tre volte in senso orario per ricevere la fortuna … Sciamanesimo o superstizione? Era bello sgranchire le gambe coi tre giri attorno all’ovoo lanciando sassolini e pensando a desideri da realizzare…Per me, inoltre, la prima volta che assisto a cerimonie tibetane nei monasteri piccoli e grandi: mi chiedevo quale fascino hanno su di me le religioni islamica e buddista, in entrambe quanta sensualità e poca invece nel nostro cattolicesimo, così severo … ma sono discorsi grossi.E che dire delle gher che punteggiano candide il verde infinito delle pianure e delle colline: quel tubo centrale da cui esce un rivoletto di fumo quando la temperatura si fa rigida… nella mente mi scorrevano le immagini dei Racconti indiani di Jaime De Angulo che tanto avidamente avevo letto nella mia adolescenza. E confesso che un po’ ho mescolato i racconti degli indiani d’America a questa Asia inaspettatamente così fiabesca … E nella gher possono anche venire a scaldarti la stufa alle tre di notte, se lo desideri. E questo in nessun racconto l’avevo mai letto! Certo se piove un po’ piove anche dentro… ma non è mica grave, basta spostare il tavolino.Un viaggio faticoso, che richiede un po’ di geni alla Gengis Khan: dal caldo del deserto al rigido della montagna, cibo con un gusto molto differente dal nostro e spesso immangiabile per alcuni (e per me), il fuso orario, le lunghe piste sconnesse, insetti nel letto e sopra il letto, inizialmente compagni di poca simpatia. Ma guarda da me non potrai che ricevere incoraggiamenti perché è stata un’esperienza esaltante. Dunque per non annoiarti troppo, se decidi di partire per la Mongolia conta su di me per ogni tipo di informazione.LauraP.S. Leopardi, Rousseau e un cambio di registro. Ma forse la mia descrizione ti apparirà idealizzata. In realtà, so bene che le condizioni di vita in Mongolia, soprattutto per i nomadi, sono molto difficili. Mi risulta che non solo d’inverno i capi di bestiame siano decimati dai rigori del clima ma muoiano anche esseri umani, in dettaglio non so come e quali categorie di persone. Ma la difficoltà, l’asprezza delle condizioni di vita, la crudeltà della natura costringono ad una lotta che rinfranca, che indurisce. Forse per metà uccide e per metà nobilita, o santifica. Certo depriva di quella condizione di malata insofferenza di cui spesso siamo vittime noi occidentali europei così viziati e istericizzati.Voglio dire che l’umanità costretta a reagire a condizioni dure, condizioni naturali comunque, per questo deve mantenersi molto salda e forte, e sarà certamente più affine ai ritmi e alle tensioni della natura. Armonia serenità poesia saranno il risultato visibile di questa lotta: l’apparenza offerta a noi visitatori; un piccolo inganno dietro il quale allenarsi a ricercare la verità.
PASSAGGIO DI CONFINEDopo una giornata a vagare per Hohhot, il capoluogo della Mongolia interna, il cui nome vuol dire “città verde”, ma è una pietosa bugia perché dappertutto è grigio, saliamo sul treno 4602 delle Ferrovie Cinesi, mescolate ad un gruppo di donne che trasportano dei meloni in una rete. In una notte tranquilla di viaggio arriviamo al posto di confine, Erlian - in mongolo Eeren -, poco dopo le sette del mattino. Una volta lì, sul piazzale della stazione si rimedia facilmente un passaggio in minivan attraverso la frontiera, che si trova a pochi chilometri, ma non si può attraversare a piedi. Ci accordiamo in fretta con un cinese sui trent’anni, vestito alla moda degli uomini d'affari di qui, mocassini di pelle, pantaloni e polo scuri. Si è avvicinato appena ci ha visto spuntare sul binario, e ora mi tiene per il braccio per paura che gli scappiamo via. Cinquanta yuan, circa 5 euro, ci dice, e partenza alle otto.Il minivan ci porta davanti all'Hotel Centrale, nel cuore di questa equivoca cittadina, unica porta per terra dalla Cina alla Mongolia. Alle nove non è ancora successo nulla. Ogni tanto il nostro cinese accende il motore, partiamo per un giro apparentemente distratto nella zona trafficatissima del mercato coperto restrostante, quindici minuti per poche centinaia di metri scansando carretti e scatoloni, uomini e donne che alzano le serrande dei negozi stiracchiandosi, e ritorniamo nel piazzale.Ancora attesa; Giulia, la mia compagna di viaggio, entra nell'hotel in cerca del bagno, mentre io resto, unica passeggera sul minivan, e mezza addormentata. Ripartiamo, ma questa volta il percorso cambia: ci fermiamo davanti a un negozio completamente vuoto, salgono due donne e con una terza avviene un passaggio di una mazzetta di banconote, poi riprendiamo la strada e usciamo in periferia, dove evidentemente abbiamo degli affari da sbrigare.Il fatto è che dobbiamo caricare qualcosa di ingombrante, che richiede un'attenta pianificazione degli spazi: e cosa, se non due porte blindate complete di blocchi serratura e altrettante finestre con doppi vetri?Decidono di smontare i sedili del minivan, almeno le ultime file. Vengo fatta spostare senza troppe cerimonie avanti e la donna più anziana, vestita con un'elegante casacca blu lucente, mi piazza in mano due mazzi da dieci chiavi ciascuna: sono quelli delle porte, da tenere con cura, mi fa capire.Iniziano a caricare, la donna più giovane e l'uomo sono i manovali di fatica, l’altra donna dirige le operazioni. Sono a bocca aperta. Passiamo quindi a recuperare una tastiera elettronica, due servizi completi di stoviglie, diverse decine di paia di scarpe, cartoni di frutta, pesche e uva, collante, pacchi dal contenuto ignoto imballati da metri di nastro adesivo. Stivare tutto è un esercizio di logistica.So che Giulia sarà molto preoccupata, siamo via da ben più di un'ora, ma non ho modo di avvertirla, e non saprei come tornare da sola al piazzale. La verità è che me la sto godendo un mondo. Quando abbiamo fatto il pieno di merce, iniziamo a caricare gli umani, due madri con i rispettivi bambini, uno con una maglietta stampata con la scritta ''Jesus'', l'altro con un mitra giocattolo assolutamente verosimile; e poi ancora un ragazzo dagli occhi verdissimi e la sua fidanzata che mi vuole insistentemente parlare in russo, e altri che si infilano nello spazio libero nel retro del minibus. Siamo in quindici. Di ritorno al piazzale, trovo Giulia che sta pensando di chiamare la polizia, mentre immagina il peggio. Io sono tranquilla e divertita. Alla prima domanda svagata che le faccio, si trattiene a stento dallo strattonarmi malamente. Non è proprio momento.Raggiungiamo il confine in pochi minuti e superiamo tutti gli altri veicoli in fila facendo lo slalom, il nostro guidatore ride.Dopo la prima barriera dobbiamo scendere dal minivan, pagare di nuovo i moduli di ingresso, che abbiamo già in mano e abbiamo già pagato, e entrare a piedi con i nostri passaporti nella zona di controllo cinese, passando sotto un arco monumentale dipinto con tutti i colori dell'arcobaleno. Nella grande stanza si sono formate quattro file, nessuna delle quali avanza di un millimetro, e una folla sparpagliata. Ci sono perlopiù mongoli, alti e robusti di corporatura, e noi due sole occidentali confuse. Nessuno riesce a scegliere una fila e starci con pazienza; anche noi decidiamo di cambiare. La ragazza che voleva parlarmi in russo mi si avvicina e mi fa segno, picchiandosi vigorosamente il dito sulla testa, che sono matta a spostarmi. Un po’ contrita, ritorno a dove sono venuta, in ultima posizione; dopo tre minuti, lei sta allegramente spintonando nella fila che mi ha fatto lasciare.Ci vogliono più di due ore per avere il timbro cinese che ci permette di uscire dal Paese. La mia consigliera, che si è nel frattempo spostata nell'ultima fila di destra, finisce qualche minuto prima di me e io le faccio segno a grandi gesti di aspettarci, mi è venuta paura che ci lascino lì. Siamo le ultime ad arrivare, correndo, ma ci sono ancora, per riconoscere il nostro minivan fra i tanti parcheggiati basta cercare i serramenti che spuntano dai finestrini. Siamo diventati più di venti passeggeri e ci dobbiamo incastrare; finisco in braccio ad un signore dall'alito puzzolente, mentre riserviamo un intero sedile ad un bambolotto giocattolo seduto comodo sul suo passeggino di plastica, che non si deve assolutamente ammaccare.Avanziamo 200m a passo d’uomo, e ci fermiamo, sono insopportabilmente ritorta. Apriamo di fretta il portellone scorrevole e ci riversiamo fuori per prendere fiato; quando risaliamo conquisto una confortevole posizione orizzontale, sdraiata sulle ginocchia di tre persone. La seconda fermata è il posto di confine mongolo: qui gli spazi sono ristretti e rimaniamo incolonnati ordinatamente. Un uomo cerca di entrare controcorrente, ma subito viene acchiappato da due soldati giovanissimi e ributtato in Mongolia.Ce la caviamo abbastanza rapidamente, il tempo di un altro breve soggiorno in pullmino e siamo fuori. Ci avviamo a piedi, in mezzo a nuvoloni di terra e camion telonati carichi di merce, verso Zameen Uud, da dove parte il treno per Ulaan Baatar. All’ingresso della stazione incontriamo il primo occidentale dopo giorni, sembra un fantasma, i capelli rossi incollati al viso, la barba lunga, ricoperto interamente di polvere e non osiamo rivolgergli la parola.La Lonely Planet decreta che il sabato, come oggi, non c'è servizio, ma il treno c'è e abbiamo tutto il tempo per prenderlo. I vagoni sono già pronti sul binario, per la partenza alle 17.20; compriamo il biglietto e mangiamo comodamente alla mensa della stazione, polpette innaffiate da succo di pesca ghiacciato per la sete infinita che ci è venuta.Le carrozze sono organizzate in file con due robuste brandine sovrapposte e ci sono ampie rastrelliere per i bagagli, soprattutto merce che conviene comprare in Cina: carta igienica, una collezione di unghie finte, una tenda di perline, casse di frutta come quelle che abbiamo trasportato anche noi. Degli uomini di fatica dalla forza sovraumana aiutano a stivare i pacchi più pesanti, ci vuole una buona mezz'ora per organizzarci e sistemarci tutti comodi. Alla fine fa caldissimo e sembra non ci sia niente di meglio che succhiare gelato al latte da dei piccoli sacchetti che alcuni ragazzini passano a vendere, mangiandone la metà loro stessi.Verso sera, una delle piccole ambulanti si siede di fianco a me e pettina una bambola Barbie biondo platino, parlandole ad alta voce. Un ragazzino, con una calzetta rossa e una arancio, si dondola fra le cuccette come su un'altalena. Io mangio due uova sode che ho comprato da una venditrice anziana, come anche la donna accanto a me, che tiene sulle gambe un cartone dove entrambe buttiamo i gusci. Più volte passano dei donnoni in divisa a controllare i biglietti, mentre nel vagone si scatenano corse pazze e uomini che si arrampicano sulle rastrelliere più in alto e rimangono accucciati lì fino a che non se sono andate.Mi è capitata la brandina in basso: Giulia si è saggiamente rifugiata al suo posto e dorme, lasciandomi di nuovo al flusso di passanti che approfittano dello spazio accanto a me. Divido il lettino con una bambina mongola, avrà otto anni, sgraziata, i capelli cortissimi con una sfumatura ramata, il viso allungato, il busto magro e due gambette storte. E porta un incredibile abitino da ballerina in tulle, un po' strappato sotto le maniche a sbuffo. All'inizio lei si stringe in un angolo come un uccellino, poi si allunga a poco a poco e finisce che dormo acciambellata malamente, con i suoi piedi in bocca. Il mattino presto si sveglia e torna dal fratello dalle gambe troppo lunghe, che non le aveva lasciato spazio, fa capolino, e continua a sorridermi. Lasciar crescere i capelli, due belle trecce, farà miracoli.Il posto lasciato libero dalla mia ballerina viene subito occupato da un'altra bambina, questa già bellissima. Ha delle scarpette rosse con il tacco, da una parte si stanno scollando. Viaggia con il padre, che le ha ficcato in mano un sacchetto di plastica con il portafogli e poco altro. Dopo aver parlottato un po', comprano da una venditrice riso e carne: prima si serve il padre, ma non mangia molto, e poi le passa il vassoio di polistirolo. Anche lei prende pochi bocconi e rimette tutto nel sacchetto. Quando però il padre si assopisce, lei riapre il pacchetto e velocemente mangia ancora, riso che finisce dappertutto, mentre cerca di fare in fretta, tenere in equilibrio la sportina, la giacca a vento e di maneggiare le bacchette. Poi si ricompone e le resta solo la bocca impiastricciata. Per finire, accetta una caramella dalle nostre vicine che fanno colazione a base di dolcetti e cioccolatini.Capiamo di stare arrivando quando ricominciano le manovre con i bagagli. Tutti di nuovo spingono, superano, hanno fretta di mettersi davanti alla porta per uscire per primi. Il treno ci vomita fuori in un mattino fresco di Ulaan Baatar, dopo 18 ore di speranza e sudore.Alla nostra guesthouse, alcune stanze in appartamento dietro Peace Avenue, le porte blindate sono di fabbricazione cinese. Nei minuti che mi ci vogliono ogni volta per cercare di far girare la chiave non faccio che pensare al loro viaggio fino a qui.Paola Causin
SOTTO IL CIELO DELLA MONGOLIADurante le tre settimane in viaggio lungo le piste della Mongolia pensavo di essere finita in un’altra era, di aver sperimentato la macchina del tempo che mi aveva catapultata in un luogo lontano, lontano davvero.E’ questa la sensazione più forte che ho provato in Mongolia, un Paese che la maggior parte degli occidentali non sa neanche dov’è collocato geograficamente e come si chiama la sua capitale…Ulaan Bataar. Anche all’aeroporto di Malpensa gli addetti allo scalo non sapevano dove indirizzarci! Quando il mio fidanzato mi aveva proposto di andare in Mongolia pensavo stesse scherzando, anche io lo ammetto fino a qualche mese fa non ne sapevo molto. Però mi aveva incuriosito l’idea di andare a scoprire una terra ancora poco conosciuta. Solo Gengis Khan e il deserto del Gobi mi dicevano qualcosa.Così siamo partiti per Ulaan Bataar dove ci aspettava un pulmino con autista, l’interprete, la cuoca e tante avventure… L’unico punto di riferimento era il film/documentario “Il Cane giallo della Mongolia” uscito in Italia la scorsa primavera, utile per un primo approccio e soprattutto per prepararsi al fatto che le strade, come le intendiamo noi, erano praticamente inesistenti.Fatta eccezione per il Deserto del Gobi, che si estende nel sud al confine con la Cina, non credo sia importante soffermarsi sui siti che abbiamo visitato. Non è come andare in Italia e vedere il Colosseo, i canali di Venezia, il Museo degli Uffizi…In Mongolia non ci sono “cose” particolari da visitare, come musei, monumenti o animali esotici. E’ un Paese che trasmette emozioni.Il cielo della Mongolia ne vale il viaggio, così blu, così terso, così basso da poterlo quasi toccare, con grandi nubi bianche e morbide da sembrare dei batuffoli di cotone. L’orizzonte è sempre infinito, migliaia di chilometri si stagliano di fronte a noi.I suoi paesaggi sono unici, ogni tanto una o gruppi di gher, la casa tradizionale mongola dove vivono i pastori nomadi, l’80% della popolazione: le colline a ovest della capitale sono verdissime, punteggiate di fiori d’alta quota dai mille colori. Cosa dire, invece, delle distese di stelle alpine, da noi ormai una rarità? Se la guida non mi diceva che potevo raccoglierle, non avrei osato toccarle, pensando come da noi sono oramai diventate una specie protetta.La steppa del nord al confine con la Siberia russa è punteggiata di piccoli e grandi laghi, come il famoso Khovsgol; il vento, che soffia sempre a raso terra, è freddo anche ad agosto. L’inverno è molto lungo, dicono, e da settembre questa zona comincerà a coprirsi di neve e i laghi si ghiacceranno fino a maggio.Questa zona è terra di sciamani, che con i loro “poteri” predicono il futuro. Ammetto di essere stata molto scettica e di non essere stata coinvolta da questi rituali caratterizzati dai fiumi di vodka che “mettono in contatto” i santoni con gli spiriti. Mi ha colpito però tanto il fatto che questa gente ci creda veramente: anche la nostra guida buddista e la cuoca cattolica non hanno rinunciato ad ascoltare il consiglio dello sciamano del luogo.La gente è incredibilmente straordinaria se si pensa che vivono in condizioni ambientali difficilissime. Otto mesi l’anno la Mongolia raggiunge temperature oltre i 30 gradi sottozero. Questo fa sì che la sua terra non possa essere coltivata.La gente qui mangia tanta carne, l’unica vera risorsa sfruttata dalla popolazione. I pastori allevano pecore, capre, mucche e yak. Per un mongolo è inconcepibile non mangiare la carne e questo l’abbiamo provato sulla nostra pelle. Un uomo è un vero uomo solo se a pranzo e cena mangia carne!Il tempo scorre tranquillo. I mongoli non hanno fretta e non sanno bene definire le distanze, per loro non esiste il concetto di perdere tempo per trovare la strada. Prima o poi si arriva dappertutto. Questa è stata la difficoltà maggiore da condividere con loro nei 20 giorni di tour.Devo anche dire però che in questo modo abbiamo conosciuto un popolo e la sua cultura, tanto diversa ma tanto affascinante.Un’altra curiosità è che i mongoli non hanno il senso della privacy. Nelle gher entrano sempre senza bussare. A noi è capitato una mattina: il ragazzo che accendeva la stufa a legna si è addormentato, come se fosse a casa sua, sul letto della nostra gher senza preoccuparsi di noi.Infine, il deserto del Gobi, uno spettacolo della natura. Ho visto diversi deserti ma questo è assolutamente unico con le sue distese di fiori. Le montagne rocciose sono intervallate da una lunga catena di dune di sabbia, che si estende per 180 km, e da qualche corso d’acqua. Ogni tanto si incontrano mandrie di cammelli, ogni tanto una gher abitata da persone che non vedono quasi mai passare nessuno; ogni tanto qualche ricercatore viene in questa landa sperduta a studiare i siti con i ritrovamenti dei dinosauri.Un consiglio a chi desidera andare in Mongolia. Se non siete dei veri fanatici dell’avventura credo che due settimane bastino per assaporare questo Paese! Tre come abbiamo fatto noi sono tante considerando i disagi degli spostamenti, soprattutto a nord verso la Siberia. Piuttosto è meglio volare, come prima tappa, da Ulaan Bataar fino a Moron.Benedetta Mele
A volte sembrava di stare sulla luna. La luce ci dava un orizzonte di visibilità perfettamente tondo di una cinquantina di metri: qualsiasi direzione era possibile ma nessuna migliore delle altre, ed era difficile capire come faceva il nostro autista ad orientarsi, poiché bastava fermarsi un attimo, e guardarci attorno per capire che avevamo perso completamente l’orientamento. Si trattava dell’ultimo tratto del tragitto tra Tsagaan Nuur e Moron, 150 km che dovevamo percorrere di sera perché il giorno dopo non avremmo fatto in tempo, e il professore Suhbaatar – che ci aveva guidato per pochi soldi a conoscere alcuni sciamani tra le zone del nord - doveva prendere l’aereo.Un viaggio onirico verso la natura (quella dentro di noi, come direbbe Hillman) che in Mongolia è immediato, totale, diretto. Il resto del tempo, appena usciti dalle città, sembrava di stare nel paradiso che abbiamo perduto, nella terra dell’origine della nostra specie, la più intatta dall’inizio della civiltà (quasi che potessimo trovare vicino ad un meandro abbandonato da qualche fiume, l’albero delle mele di Adamo ed Eva, o perlomeno se ne avessi visto uno avrei sicuramente temuto di mangiarne il frutto): un paese dimenticato dalle grandi industrie perché povera di risorse, e protetta dalla cultura di chi ci vive, perché il rispetto per la natura è un rispetto per gli spiriti che la abitano.Le parole, comunque sia, su un viaggio in Mongolia sono un po’ sprecate: si è trattato di un itinerario, che era interiore soprattutto (si lo so, l’interiorità ce la portiamo sempre appresso, e non c’è bisogno di contarla, anche perché è soggettiva, ma là si trattava semmai di doverla fuggire ogni tanto, e dissacrarla, perché il contatto era forte), in una terra più incontaminata di quanto possiamo pensare.Io sono partito con un mio amico, Mario, entrambi con la motivazione di conoscere meglio lo sciamamesimo, non fosse altro per eliminare quella distanza incolmabile tra la gente del luogo e il ruolo di turista - ché si è turisti ogni volta che non abbiamo nessun motivo per stare in un posto, a parte vivere lì. Al soldo avevamo il già citato professore di etnologia, Suhbataar, (tra parentesi una specie di Mister Magoo, che andava in giro sciolto dentro le case di Darkhat e Tsaatan (a sinistra un accampamento) e non ci vedeva granchè - ma gli filava tutto liscio lo stesso, e pucciava la carne fritta dentro al tè!); è grazie a lui che abbiamo conosciuto un paio di sciamani veramente in gamba, tra cui una donna darkhat, Yura, a Ulaan Uul Sum, che ci ha ospitato, curato e cucinato, per due-tre giorni come se ci fossimo conosciuti da sempre. Assieme abbiamo attraversato le praterie del “Far East” verso i paesaggi più belli della Mongolia, e verso i modi più diretti che ho conosciuto di vivere nella natura, poi a cavallo fino agli tsaatan (foto a destra dall'interno di una tenda), culmine simbolico dell’itinerario, che, l’assenza di tutto – dalla verdura, ai bagni e ai gatti - rendeva un graduale percorso verso il nulla, ossia verso il grembo materno della nostra propria natura.Tullio ReggioPs. L’unico neo, troppo tempo passato sulla “jeep” e, un consiglio per chi vuole andare in quei posti, forse, tanto vale prendere un aereo fino a Moron e poi continuare a cavallo.
Avendo "sfruttato" il vostro sito per raccogliere un po' d'informazioni prima della partenza, mi sembra giusto aggiungere i miei appunti di viaggio. Grazie a voi e a tutti coloro che hanno arricchito il sito con i loro racconti.QUASI PER CASO IN MONGOLIAIn meno di 48 ore mi sono trovato catapultato in Mongolia, è il solito "effetto aereo" che non ti dà neanche il tempo di capire bene cosa succeda e ti trasforma in un puntino da un'altra parte del mondo. Il nostro itinerario si è svolto ad anello con partenza e arrivo da Ulaan Bataar, tutto rigorosamente via terra (parti del corpo potrebbero testimoniare) toccando i principali luoghi di interesse. Dopo pochi chilometri si abbandonava l'asfalto per infilarsi in una improbabile pista. Era l'inizio di qualcosa come 1.800 km su strade sterrate, erbose, sassose... di tutto!Siamo passati dal deserto del Gobi, non prima di aver assaporato la Yol Valley camminando lungo il suo canyon, divertendoci anche a fare gli involontari protagonisti di una trasmissione mongola, ammirando le bellissime Khongoryn Gol. Le dune, il cui colore chiarissimo in forte contrasto con l'incredibile verde e le scure montagne, lì apposta per essere salite. E poi le Red Rocks, un gran canyon in miniatura.La prima cittadina incontrata, Arvaikheer, e il primo mercato. I negozi ricavati dai vecchi container o vecchi vagoni, tutto quello che occorre a costruire e arredare le loro tipiche "case", le gher, semplicissime seppur accoglienti . Siamo allettati da un ristorante ma dopo averci fatto scegliere i piatti si scopre che non hanno niente da offrirci. La spesa fatta a Ulaan Bataar provvede! Man mano che torniamo a nord il paesaggio cambia, la natura recupera sul deserto e il verde domina tutto. Nella valle dell'Orkhon con un piccolo trekking in mezzo a un lariceto raggiungiamo il monastero di Tövkhön Sün. È molto suggestivo, è in corso la cerimonia religiosa e ci sono molti fedeli e molti monaci, tra cui parecchi giovani. Il monastero è dominato da una rupe, sulla cui cima vi è un ovoo, l'accesso non è consentito alle donne, chissà perchè.Al Khorgo camp ci fermiamo 2 giorni, sembra proprio di essere in vacanza! Siamo all'interno del Khorgo Terkhiin National Park, dove si possono fare escursioni a piedi o a cavallo, come al cratere del vulcano, al lago. Sui monti attorno al campo è incredibilmente pieno di stelle alpine.Ma la Mongolia è anche religione e arte, nella vecchia capitale del regno di Chingghis Khaan, Kharakhorin uno dei pochi monasteri risparmiati da Stalin, Erdene Zuu, racchiuso dalle mura intervallate da 108 Stupa. Un luogo ricco di spiritualità. Al piccolo monastero di Erdene Khamba incontriamo la sciamana che ci leggerà le carte.L'impressione è che ci dica quello che... suggeriamo noi!Per rientrare a Ulaan Bataar abbiamo 300 km di asfalto, ma scopriamo che l'insidia delle buche fa risultare decisamente migliori le piste nelle steppe.Un minibus ne ha fatto le spese ed è a bordo strada con le ruote per aria. Fortunatamente gli occupanti sono incolumi, ma infreddoliti sotto la pioggia.Si può dire che è il primo giorno di pioggia, gli altri giorni sono stati caratterizzati da un cielo blu intenso e una luce incredibile, una limpidezza che ci ha accompagnato per tutto il viaggio, ne resto ancora affascinato guardando le foto.Ci siamo tenuti del tempo per Ulaan Bataar, c'è ancora da visitare il bellissimo tempio di Gandan con il suo maestoso Buddha e il Palazzo d'Inverno. Avremmo altre cose da visitare, ma ci concediamo un po' di shopping al Department Store.Però se devo ricordare la Mongolia preferisco ricordarla per come l'ho vissuta. Più che un viaggio caratterizzato dalle attrazioni da raggiungere e vedere, un viaggio segnato dagli incontri in luoghi sperduti, in spazi infiniti, nella libertà più assoluta.Il formaggio di Yak spuntato sul tavolino a colazione, la ragazza che all'alba è venuta ad accenderci la stufa, l'invito a salire sul suo cavallo da parte di un vecchio pastore e tanti altri momenti saranno il ricordo più bello della Mongolia e dei suoi abitanti. Li abbiamo visti e incontrati in una stagione favorevole, presto si troveranno a lottare con temperature infami nelle loro tende, dobbiamo avere un grande rispetto e una forte ammirazione verso di loro.Enrico AntoniettiGrazie a Enrica, Gb, Dorina, Flavia, Tanja e Jordan con cui ho potuto condividere queste emozioni e ai nostri accompagnatori Bill, Bairà e BipBip.
Ulaan Baatar, 10 luglio 2006Cari tutti, da mercoledì senza dormire, corsa pazza di tutti i passeggeri in partenza per UB da una parte all’altra dell’aeroporto di Mosca - perché ci avevano mandato alla porta sbagliata e l’aereo stava partendo senza di noi - un attimo per immaginare che sia stato il gatto nero del Maestro e Margherita ad architettare tutto, e poi scavalca i passeggeri del volo per Tokio, togli le scarpe, no anche la cintura, passa i controlli, raccatta le tue cose, riprendi a correre, buttati dentro l’aereo. Tutti i passeggeri sono in un lago di sudore, e da lontano noto una specie di leone marino che sembra appena uscito da una sguazzata nel mare. Ovviamente, è lui il mio vicino. Mi siedo e da lì in poi avrò l’opzione: a sinistra, la Siberia, sempre con l’alta alba gialla e viola, e le nuvole a cascata; a destra, un moscovita enorme e sudatissimo che sfodererà dalla sua comoda sacca varie bottiglie di Ballantines, scolandosele assieme a una vecchietta francese. Il russo si rivelerà essere un regista; mi mostrerà in anteprima tutti i bozzetti di scena del film epico su Gengis Kahn che sta iniziando a girare in Mongolia. Arriveremo tutti a Ub, ma il mio zaino no.Tutto il giorno a fare carte negli uffici dell’università, e nessuno che parli inglese. Ma mi muovo leggera, tanto non ho bagaglio!Partiamo per la montagna, e così, di colpo, dal niente, mi trovo in mezzo a tappeti di stelle alpine e gigli rossi, e comincio a conoscere un sacco di persone che si occupano o per studio o per pratica di quello per cui sono, forse, qui: lo sciamanismo. E poi scopro che Cecilia sta prendendo lezioni di mongolo da una ragazza dell’aimag di Dornod, una zona bellissima e selvaggia dove le pratiche sciamaniche sono rifiorite: e così la prossima settimana partiamo, assieme al marito e alle figlie dell’insegnante, ospiti della sua famiglia.Oggi alle 11 c’è stata la cerimonia d’apertura del Naadam, migliaia di persone a baciare la lapide sotto la statua di un Gengis Kahn ciccione. Ma forse mi sembrava così per le poche ore di sonno: qui la partita è iniziata alle tre di notte, siamo finite a vederla in un auditorium stracolmo di bandiere e mongoli sfegatati, inneggianti a qualsiasi azione, francese, italiana, dei guardialinee.Siamo usciti ed era l’alba, chiara chiara, strade fresche e ancora mongoli sui furgoni che gridavano.Un abbraccio a tuttiIreneUlaan Baatar, 22 luglioCari, è sabato.Piove, un cielo grigio fitto che sembra novembre.Per fare un piacere a un russo che aspetta il visto per andare dalla sua ragazza a Ulan Ude, sul lago Baikal, e non ha più posto dove dormire, gli ho lasciato la sua stanza (e mia futura) ancora per un po’, e invece di spostarmi lì sono accampata da Cecilia. Lui ospita a sua volta uno/più amici, ma in qualche modo ci arrangiamo. Fuori, dal terrazzino (ma per quanto ci terrà su?) ferri arrugginiti che colano dal cemento delle case, in lontananza le colline coperte da gher e l’enorme ritratto di Gengis Kahn in bianco sul verde del monte. Da poche ore tornati dal Dornod, e non ho voglia di riadattarmi al cemento, alle macchine nere di smog, a questa pioggia.Partiti l’altra domenica, con guidatore sbruffone, Zirma (l’insegnante di mongolo, deliziosa), suo marito e le due figlie. Due giorni dritti verso nord-est, due solchi di terra battuta e verde a perdita d’occhio, prati di gigli gialli, fiori rossi di patate, cavalli con le teste nei fiumi, cammelli con le gobbe afflosciate, lepri, marmotte, capre e mucche da scostare a suon di clacson e coppie di gru damigelle coi piccoli.E poi aquile, quante, da non crederci.La prima notte abbiamo piantato le tende subito dopo aver attraversato la Valle del freddo, 60 e più chilometri spalancati sul cielo dove neanche un ratto selvatico sembra volerci abitare.Dopo un pellegrinaggio a Dadal, dove pare essere nato Gengis Kahn – posto spettacolare più che altro per le foreste di pini e betulle, e perché vedi già il confine russo, – ancora una giornata di testa fuori dal finestrino (non commento lo stato odierno dei capelli- il guidatore mi ha chiesto se normalmente li porto così…), di vento a cui lasciare andare pensieri, di odore di maggiorana dopo la pioggia.Nella notte siamo arrivati al campo estivo dove vive la famiglia di Zirma. Prima avevamo passato quello invernale: le case per le persone sono identiche, ma non i recinti per gli animali, protetti con forti tettoie di legno intrecciato. Qui la cura per loro è infinita, anche quando vengono uccisi per essere mangiati. C’è qualcosa di molto potente in questa vita in comune - che mi aiuta anche a sentire e capire un po’ meglio, credo, i campi di forze e l’universo simbolico in cui lo sciamano agisce.Nelle due stanze della casa, tutta di legno, la prima impressione è stata l’aria: irrespirabile quasi, completamente affumicata dai vapori dello sterco secco per scaldare l’ambiente. Poi i genitori di Zirma, sette dei suoi tredici fratelli, tanti nipotini. Poi i capretti, gli agnellini, le botti per far fermentare l’airag, ma soprattutto la vodka. La mamma di Zirma - una donna instancabile, sempre la prima a svegliarsi e l’ultima a spegnere di notte la candela del piccolo altare casalingo – ‘ste botti di vodka se le cura proprio, e a suon di bicchieri vuotati a collo, immediatamente riempiti, e subito da svuotare ancora - perché poi la signora un po’ si offendeva e un po’ci sbeffeggiava - (e noi a ringraziare di esser nate nel triveneto e di aver fatto un ottimo tirocinio alcoolico, altrimenti morivamo), siamo arrivati al sonno e al sogno, ridendo, benissimo.Il mio compleanno considero di averlo festeggiato il giorno prima, perché quello effettivo è stato sempre in macchina, con uno splendido inframezzo in cui Zirma ha deciso di bere una birra in mio onore e non facendolo mai, si è ubriacata. Non ha smesso di ridere per un’ora.Allora, la mattina prima, appena sveglie, abbiamo munto mucca, capra, pecora e cavalla. E poi, e poi, abbiamo preso i cavalli, i bambini sul carretto e siamo andati a raccogliere albicocche e ribes selvatici in una gola tra due colline. Al ritorno mi han lasciato andar da sola, con le due parole in mongolo per dire di fermarsi e di andare a questo meraviglioso cavallo che aveva vinto la corsa al Naadam, marrone e bianco, la criniera tagliata corta e una sella mongola assassina in legno.Giù quasi galoppando verso una valle, ampia come un mare calmissimo verde, con una corona sottile di colline e un cielo che può ospitare insieme tutti i tipi di nuvole che uno vuole immaginarsi.Poi al fiume, a lavarsi con i bambini che giocavano nell’acqua, e la capra uccisa con una bella martellata in testa proprio mentre tornavo alla casa. Tante ore a guardare il padre e il figlio maggiore preparare l’animale, prima disossato, poi riempito con pietre bollenti, mentre le donne pulivano le interiora. Non faceva minimamente impressione, c’era invece una cura, un ritmo nei gesti, una pazienza e una certa gioia che incantavano.Cena: la mamma naturalmente ha riaperto le botti di vodka…Poi la notte. Sono uscita un attimo. Cielo nero, caduto fino ai bordi della vallata, con le stelle che si erano arrischiate ad arrivare quasi fin sulla terra, e una Via Lattea che si era trasformata in un gigantesco arco teso all’infinito.Vi abbraccio forte tutti!!Irene Candelieri
All'aeroporto di Ulaan Bataar vennero a prenderci l'interprete e l'autista. Io e mia moglie ci presentammo, ma, come spesso succede, dimenticai subito i loro nomi.Al contrario mi rimaneva molto più facile ricordare i loro visi asiatici e le espressioni, anziché i loro impronunciabili appellativi. Rimanemmo nella capitale della Mongolia due giorni, giusto il tempo per visitare il Museo di Storia Naturale, che ospita veri scheletri di dinosauri, rinvenuti nel deserto dei Gobi. In quella stanza del museo, la mia compagna rimase più di due ore a memorizzare quelle strutture ossee di vertebre fossili alti molti metri da terra. Io continuavo la visita per il resto del Museo, osservavo con interesse molte varietà di uova fossili di dinosauro. Con la mente mi perdevo fra resti di meteoriti e la sezione di ornitologia. La sera del secondo giorno, dopo cena io e Miria ci siamo trovati a sedere sotto il monumento dell'eroe rosso in piazza Sukhbaatar. Da anonimo turista mi limitavo a fotografare le espressioni di quella moltitudine di facce asiatiche, che incrociavo nella piazza dedicata all'eroe che liberò i mongoli dai cinesi nel 1921. Incontravo molti ubriachi per la Peace Avenue, dove turisti e mongoli amano passeggiare. Alcuni ubriachi li trovavo simpatici, altri noiosi, qualcuno violento e depresso, ma come zombi tutti sembravano trovassero conforto nella vodka. Mi rendevo conto che la piaga dell'alcolismo in Mongolia, penso stava diventando un problema serio per la salute e il decoro del Paese. Mi tornavano alla mente quei bambini che vagavano per le strade della città. Tramite l'interprete parlai con alcuni di loro e mi sentii rispondere che preferivano vivere per la strada, anziché al riparo delle gher o yurte, per paura della violenza dei genitori.- Sono i figli del postcomunismo. quei figli di pastori nomadi a cui alcuni anni fa il grande gelo decimò il bestiame, e così le famiglie rimaste senza alcun aiuto né sussidio sono state costrette a rifugiarsi in città, e rimanere coatti nell'insolita sedentarietà urbana, luogo a loro estraneo.Questo era quanto mi raccontava l'interprete, mentre un simpatico signore mi faceva l'occhiolino, e con il taglio della mano si martellava leggermente la gola in mia direzione comunicandomi, in modo convenzionale mongolo, di andare a bere con lui, mentre continuavo a riprenderlo con la videocamera in compagnia di un giovane monaco buddista. I due simpatici signori si avvicinarono: lui come tanti altri era alticcio e aveva voglia di parlare con me. Non capivo quello che diceva, ma l'interprete mi traduceva quanto lui, quasi barcollante, mi voleva fare notare. Si presentava dicendomi di chiamarsi Dashbayar.- La città non fa per me e nemmeno per mia moglie. Forse ai miei figli piace la confusione e la baldoria cittadina perché sono ventenni. Io ormai, più che quarantenne, cresciuto a rincorrere le mandrie di ovini e bovini, nel largo spazio del Gobi, ritrovarmi forzatamente a vivere in città, fra questi rumori, traffico, senza il contatto delle mia amate bestie trovo la vita inutile e priva di luce. Solo la vodka mi fa dimenticare la tristezza e il cupo che c'è dentro di me. Il grande gelo di tre anni fa mi ha decimato la numerosa mandria. Credimi, avrei voluto morire insieme alle mie bestie. Sono stati i miei figli a darmi la forza per rialzarmi dopo il crollo economico della mia famiglia. Ho venduto tutto, qui a U.B. non riesco a integrarmi. Il mio pensiero è sempre lì a rincorrere il gregge. Gli animali mi fanno compagnia ogni qualvolta chiudo gli occhi e l'immaginazione mi proietta nei pascoli sotto l'immenso azzurro del cielo e il silenzio della natura. C'è troppo rumore nella mia testa. I pensieri sono veloci come le gazzelle, le immagini saltano come grilli e le voci mi tormentano. Mi osservo. Non mi sento uomo, bensì mi somiglio e mi riconosco più a un orso dei Gobi. Di una sola cosa ho paura: della morte. Credimi, ho paura di morire e non ho il coraggio di farla finita, anzi, temo che qualcuno voglia farlo, ma questo non oso crederlo perché, non ho nemici, sono stato sempre buono. Solo la meditazione e la recitazione dei sutras mi da sollievo ogni qualvolta chiudo gli occhi, mentre i lamenti delle mie bestie morte mi disturbano la mente e i loro richiami mi portano al nomadismo.Così raccontava Dashbayar alla mia interprete che simultaneamente mi traduceva, mentre ascoltavo con attenzione. Il giovane lama confortava il povero Dashbayar. Il monaco parlava dolce e pacato al triste e sobrio pastore mongolo. A volte a Dashbayar gli occhi si gonfiavano di pianto, ma quando si accorgeva che lo guardavo e cercavo di manifestargli coraggio il pecoraio si riprendeva e mi sorrideva.- Devi accettare la nuova vita. Il futuro dei tuoi figli è in città. Loro ormai hanno trovato lavoro e impiego. Si stanno integrando nella sociètà urbana di U.B. A sentire i tuoi figli, non vogliono più tornare a rincorrere il gregge. Tu piuttosto caro zietto, devi seguire i tuoi figli e ascoltare i loro consigli, anche se ti può sembrare assurdo, ma la società mongola si sta trasformando. I tempi del socialismo sono ormai alle spalle, anche se in tanti vorrebbero il suo ritorno. I giovani si adattano meglio alle nuove forme democratiche.Questo era quanto riferiva il giovane religioso che si dichiarava parente e lo accompagnava per le strade della capitale, perché Dashbayar aveva paura di camminare da solo.- Sono ormai anni che mi ripeti il solito ritornello. Fammi il piacere. ormai te lo voglio proprio dire. e poi chiudiamo questo discorso. Caro nipote, a quanto pare tu. non fai altro che parlare con me e guardare le ragazze, e le vorresti possedere tutte, almeno a come le guardi. Trovo il tuo comportamento giusto perché hai l'età dei miei figli, tuoi cugini e sei in cerca di una compagna di vita. Credimi! T'invito a convincerti, come a te piacciono tanto le gonnelle, e non ti stancheresti mai di correrle dietro, a me piacciono tanto gli armenti. A me piace vivere con la mandria, sentire il suo odore, smontare la gher ogni qualvolta il bestiame si sposta. In quanto a questa civiltà, a questa democrazia, alle automobili e alle macchine, non ne sento affatto il bisogno. Solo la compagnia del mio cavallo mi dà l'orgoglio e la forza di appartenere al mio popolo e al mio Paese. Ditemi, spiegatemi cosa è un mongolo privo dei suoi grandi spazi liberi e sconfinati sotto il cielo, senza il suo cavallo, né cammello, privo della mandria e la yurta? Un mongolo che vive in città è sì moderno, ma non può ritenersi autentico figlio di Gengiskan.Guardavo nel mio zainetto da viaggio, tiravo fuori una camicia nuova ed una maglietta di cotone e la regalavo al nomade trapiantato in città. Gli porgevo gli indumenti alla maniera mongola e lui con ambo le mani li accettava ringraziandomi, dicendomi che mi avrebbe ricordato perché ero stato l'unico ad averlo ascoltato. A suo dire i giovani mongoli stanno prendendo una brutta abitudine, quella di non prestare attenzione.- I giovani vanno sempre di fretta e vogliono parlare sempre loro. Non mi stanco di dire ai miei figli in ogni momento: non fate come nei film e nei programmi televisivi occidentali dove tutti parlano e nessuno ascolta. Nella vita non potete essere persone interessanti se non date ascolto con interesse a quel tale che vi chiede di dargli una risposta, anche se non siete d'accordo. Questo è quanto chiede la mandria e lo comunica ai nomadi pastori della Mongolia.Guardavo l'orizzonte infuocato. L'aria era calda e ventosa. Il sole era tramontato da poco e l'orologio indicava le 22,30. Salutavo quei simpatici signori incontrati da poco, così per caso. Tornammo in albergo. Quella notte non prendevo sonno, il fuso orario faceva la sua parte. Prendevo appunti di viaggio in una notte di luglio all' UB Hotel dove ero alloggiato. Al teatro dell'opera era in scena il Gengiskan. Avevo voglia di vederlo, ma il viaggio in Mongolia non si fermava nella capitale. Questo insolito paese con l'assenza di comode strade asfaltate, fa del viaggiare un vero e proprio modo alternativo di esplorare mandrie di pastori e campi tendati, fa dimenticare al sedentario turista le prigioni dei chiassosi condomini.Luigi e Miria Vecchio
Le vacanze sono finite e ho già il mal di Mongolia; le cose sono andate meglio di quanto pensassimo.I posti come immaginavo sono stupendi (abbiamo risalito il fiume Kherken e Onon) Siamo rimasti colpiti specialmente dalla popolazione locale, spero che non sia un caso ma le persone che abbiamo incontrato sono state tutte molto squisite.La pesca, ovvero lo scopo dei vari viaggi che siamo riusciti ad organizzare, è passata in secondo piano, difatti non abbiamo catturato molto; una sera gli accompagnatori volevano assaggiare le trote, non riuscendo a prenderle li abbiamo tranquillizzati con i nostri spaghetti che per paura ci siamo portati dietro. Spero proprio di riuscire a tornarci, sto anche cercando di convincere la moglie a visitarla (soldi permettendo) aspettando che cresca un po' nostro figlio di quasi tre anni.Massimo Viano
Il raccontoSono appena rientrata dalla Mongolia e ne sono assolutamente entusiasta!E' stato un primo assaggio che mi spinge a volerne sapere e vedere di più. Siamo stati in UAZ nel Gobi fino alla Valle dello Yol, poi siamo andati in aereo ad Altaj e ci siamo spostati nella zona circostante per una settimana (meravigliosi Eereen Nuur, lago tra le dune, e la valle di Zhavskhan Gol) dove abbiamo avuto modo di entrare in contatto con diverse famiglie nomadi, una delle quali ci ha anche ospitato nella propria gher per una notte. Credo che i mongoli siano uno dei pochi popoli al mondo che ancora praticano il vero nomadismo, ma quello che più mi ha colpito è la loro genuina ospitalità, ancora non rovinata dal turismo di massa e dal "soldo", la loro curiosità e... la loro voglia di essere fotografati! Ho fatto parecchi viaggi anche fuori dall'Europa ma una terra e un popolo così non li avevo mai incontrati...L'ultima settimana abbiamo fatto un itinerario forse più turistico ma comunque bello visitando Erdene Zuu, il parco nazionale di Khorgo e Terkhin Tsaagaan Nuur e il monastero di Khogno Khan. Abbiamo fatto anche tappa a Ulaan Baatar varie volte visitando alcuni interessanti musei.Siamo stati fortunati perchè abbiamo avuto buoni autisti e una buona guida (mi sono resa conto di quanto faccia la differenza viaggiando in questo paese!).Ora sto leggendo vari libri sulla Mongolia, i suggerimenti di un esperto in merito sono ben accetti! Purtroppo vivo a Trieste, e certe case editrici qui non arrivano...Continuerò a visitare il vostro bel sito, se organizzate qualcosa sulla Mongolia in zone vicine alla mia città sarò ben felice di partecipare!Grazie ancora per avermi risposto con molti utili suggerimenti.Un'ultima cosa: l'interesse per la Mongolia è nato un po' da un incontro avuto per lavoro qualche anno fa con il Console Onorario a Trieste un po'... per caso. Volevo fare un viaggio in Asia in un paese ricco dal punto di vista naturalistico e umano dove ci fosse il deserto: ha superato ogni mia aspettativa! Ho un particolare interesse verso le popolazioni autoctone che mantengono usi e costumi particolari (ho scritto la mia tesi di laurea sui Navajo dell'Arizona, dove sono rimasta per 5 mesi. Ho riscontrato notevoli somiglianze tra la loro cultura e quella mongola: la teoria del passaggio dello Stretto di Bering secondo me è vera.
Il pensieroAbbiamo la sensazione di aver compiuto una esperienza necessaria. E' un viaggio in cui ci si può perdere o ritrovare; diventare improvvisamente adulti nell'unica stagione concessa.Salvatore Gebbia (musicista,compositore) e Rita Zordan (interprete)
Le impressioniLa Mongolia è fantastica: abbiamo toccato il cielo con le dita, tanto sembrano le nuvole vicine alla terra. Resoconto veloce: primi giorni nel Gobi, dove abbiamo visto la valle dell'avvoltoio e le dune di Khongoryn Els: la giornata a Khongoryn è stata un'esperienza esaltante, visto che abbiamo corso a piedi nudi al tramonto sulle dune e poi abbiamo visto, distesi sempre sulla sabbia, la notte di San Lorenzo (le stelle illuminavano ed incendiavano il cielo da parte a parte). Siamo poi risaliti verso nord visitando l'antica capitale, andando a vedere le cascate di Orkhon, il vulcano Horgo, il lago bianco e finendo al lago Hogsvol: tempio di amrbayasgalant e ritorno ad Ulan Baatar. E' stato un viaggio delle meraviglie, in un paesaggio che cambiava continuamente e non mutava mai: difficile da spiegare a parole, bisogna solo andarci e guardare: le antilopi che danzano nel deserto, aquile reali che a pochi metri dai miei occhi si alzano in volo maestose, la lince che ti osserva mentre passi veloce a bordo della jeep. Un popolo inoltre, come lo definite voi, gentile, sempre pronto ad accoglierti nella sua gher ed offrirti un po' dilatte di capra o di cavalla, uno yogurt secco, un pezzo di pane; pronto però a gustare ed a sorriderti di fronte ad uno scatolino di nutella (la nutella nelle gher è stata un successone!!!). Siamo stati fortunatissimi con la traduttrice, Altan Od, una professoressa di inglese di Ulan Baatar che ci ha accompagnato e ha partecipato alle nostre peripezie (vari trekking in montagna, corsa a piedi nudi sulle dune, bagno ad Orkhon ed a Hogsvol, a cavallo alla ricerca degli Tsaatan); non posso che ringraziare mongolia.it per tutto l'aiuto che siete riusciti a fornire per rendere questa vacanza indimenticabile. Ci sentiamo presto con maggiori dettagli, impressioni, foto e amore per unacosì bella terra. Ciao ed a prestoilperso
Agosto 2005Arrivo. Il visto non ha posto problemi agli aeroporti di Malpensa e Ulaan Baatar: la stampa della ricevuta di una prenotazione per una guesthouse, fatta via Internet a Milano, è stata un lasciapassare sicuro. In meno di un’ora dallo sbarco, carichi dei soli bagagli a mano, siamo alla Idre’s guesthouse, celata al terzo piano di un edificio introvabile, da cui sono venuti a prenderci.Capitale. Ulaan Baatar è l’unica città della Mongolia che offre cose altrove non più trovate nel nostro girovagare: dinosauri tutti interi (un museo da non farsi sfuggire, in altri luoghi si incontrano solo uova e ossa), il comfort dell’acqua calda (nelle periferie sperdute ci siamo accontentati di modalità più severe nel lavarci), un museo storico documentato (nei centri minori vi sono soprattutto animali impagliati e icone religiose), cibi vari e menù in inglese (per il resto del paese sostituiti da montone onnipresente e da menù cirillici), uno spettacolo imperdibile di danza e musica al Tumen Ekg (anche se a Karakorum l’evento serale di un mini Naadam Festival è stata una tappa avvincente e gradevolissima), strade asfaltate (sostituite altrove da piste più o meno praticabili).Gobi. Le tre tappe classiche: le colline di terra rossa di Bayanzag che celano dinosauri sotto il suolo scuro e mostrano rapaci sopra il cielo blu; le ricerca impossibile della valle di ghiaccio nelle strette gole dello Yolin Am; le discese in scivolata dalle grandi dune di Kongoryn Els. Tre luoghi memorabili collegati da piste che si diramano in continui delta tra spoglie di cammelli essiccate dal sole e timide gazzelle che fuggono saltando.Karakorin/Karakorum. Nel grande monastero di Erdene Zuu i monaci riescono contemporaneamente a pregare e a sfidarsi con nuovi videogiochi; gli ovoo dai nastri azzurri sono qui uniformi, mentre altrove si sono addensati come accumulo devoto di sassi dai vari colori, crani e ossa indifferenziate, bottigliette di acqua e lattine di birra; ma altrove molto probabilmente tutto può fare preghiera.Terkhiin Nuur. Il lago si trova in quota; eppure si può prendere un tiepido sole e fare un bagno senza intorpidirsi dal freddo, cimentarsi in ampie e mutevoli passeggiate a cavallo, tirare qualche colpo al bigliardo, imbattersi in una stella alpina e in una genziana tra i moltissimi fiori che colorano il paesaggio, diversamente dai consueti verde steppa e bruno terra. Nei dintorni si può salire e girare attorno al cratere del vulcano Khorgo, trovarsi in piccolissimi villaggi dal nome impossibile, fare incontri inattesi ma garantiti a coloro che escono dal seminato.Erdenet. Le miniere di rame e molibdeno continuano a vivere al di là dei russi (scesi al 49%) attraverso un ciclo continuo e ininterrotto di terriccio e polveri. Un camion scarica ogni trenta secondi durante ogni ora di ogni giorno circa 15 tonnellate di roccia al 2%; e si continuerà a scavare per svariati decenni. Poi via, si torna al centro: il treno di notte percorre un tratto di Tansmongolica in cuccette confortevoli e permette una solita tipica cena sulla carrozza ristorante accanto a mongoli in tiro.La viabilità stellare. Tutte le strade (piste) portano a Ulaan Bataar, centro di gravità assoluto. Le piccole connessioni laterali si trovano essenzialmente sulle carte. La sfida del nostro viaggio è stata tornare alla capitale solo alla fine. Se a volte è stato duro costruire tale circuito, l’obiettivo è stato raggiunto.Il clima apprezzabile. Il vento rumoreggia soprattutto di notte. D’estate il clima funziona: forse un poco di foschia di troppo, ma si sta bene. Però a volte la stufa viene accesa in gher la sera … e poi al mattino ci si sveglia infreddoliti. Allora la domanda è: come fanno a venti o trenta gradi sottozero?La gher per dormire. Trovare un riparo per la notte non è un problema: basta chiedere e ovunque si trova una gher disposta a ospitare per pochi tugrig … se non si fa troppo caso al duro e al freddo. Le gher sono solide ed efficienti, accoglienti ed essenziali, si costruiscono in mezz’ora, hanno una climatizzazione versatile sui lati e in alto.Il cibo quotidiano. Mangiare non è un problema, in molte gher ci sta qualche donna disposta ad accendere il fuoco … e dopo circa un’ora ha preparato un prevedibile brodo di montone con tagliolini e verdure … se non si resta troppo sottili sul gusto.Le insidie dei trasporti. Viaggiare può essere un problema. Pochi mezzi pubblici, che partono solo se pieni; e pieni significa in sette su un’auto giapponese, in otto dentro una jeep russa, in diciassette all’interno di un minivan coreano. L’autostop a pagamento va bene (occorre contrattare prima e viene offerto un ventaglio aperto) ma i mezzi che passano sono pochi e carichi. Se fai un contratto per una jeep, devi raddoppiare il costo per il suo ritorno a casa. E proprio qui accadono le cose più interessanti, come la sconclusionata Range Rover del primo segretario o il corteo che trasporta metano di cinque camion russi alla Overland.Le comunicazioni emergenti. I telefonini sono diffusi nei luoghi più impensati e ci si invia soprattutto SMS; questa presenza telematica appare anche in zone dove la copertura è assente/limitata. D’altronde pannelli fotovoltaici e parabole si trovano anche in gher isolate e distanti alcune decine di chilometri dalla gher più vicina.I cammelli e altri animali. I mongoli forse passano una metà della loro vita a cercare i loro animali … li si vede in giro a cavallo o in moto che si spostano attraverso il nulla. Sono cose che stanno in un osso a quattro facce del piede. Nell’astragalo una faccia rappresenta un cammello, l’altra un cavallo, la terza una pecora, l’ultima una capra; li si vede vagabondare in giro, in branchi più o meno grandi, nelle distese dai confini lontani.L’igiene garantita. I cessi sono grandi buche protette e coperte, scavate a una distanza media di 100 metri dalle due o tre gher isolate; e va bene per l’igiene. Ma i piccoli centri con molte abitazioni vi è solo un cesso in comune e una coda inevitabile nelle fasce di frequenza. L’acqua fuori dai centri abitati non c’è; ma ci sono i pozzi e un grande thermos cinese di acqua calda scaldata al fuoco di legna è sempre disponibile per molteplici funzioni.I bambini tra i piedi. I bambini fanno tutto quello che vogliono: non si usa sgridare, solo sorridere. I piccolissimi possono mangiarsi le scorte strategiche dei turisti in modo totalmente sereno e ridente; giochi per bimbi si trovano in qualsiasi spazio simile a una piazza; i giochi con gli astragali o direttamente con gli agnelli con una semplicità e una grazia incantevole.La cortesia della gente. Le gente nelle gher non ha praticamente nulla. L’acqua sta nel pozzo, il combustibile organico (radici e feci) nel mucchio, due pentole a calotta per la stufa a legna … e questa gente è serena, tranquilla, pacata; disponibile ad aiutarsi in ogni caso, sempre pronta a un sorriso gentile, sensibile a un piccolo scambio (un dolcetto contro una caramella, una sigaretta per un osso), mai invadente nelle tue cose.Gli spazi sconfinati. Sul fondo si elevano stabilmente delle basse montagne omogenee, dai tenui colori a strati; davanti si distendono delle vaste quasi-pianure senza limiti, i cui colori pastello variano di continuo. Vi è sempre un orizzonte in cui l’occhio si perde anche se si ruota attorno sé stessi: è una delle rappresentazioni più simili a un vuoto pieno di sensi.La fine dei morti. Dove finisce chi muore? Non ci sono cimiteri… apparentemente la natura riesce a mangiarsi e riassorbire tutto, anche gli oggetti che vengono costantemente buttati fuori dai finestrini delle poche auto.
Le considerazioniLe motivazioni principali del nostro (primo) viaggio in Mongolia sono state: dal punto di vista naturalistico l'ambiente desertico del Gobi e dal punto di vista culturale la persistenza del buddhismo tibetano nella sua zona di diffusione più settentrionale.La pratica religiosa non appare così intensa come in Tibet, ma abbiamo visto come vengano liberamente fondati anche nuovi monasteri.La Mongolia ci ha colpito per gli aspetti linguistici: ci sono steli bilingue in cinese e in turco con alfabeto runico, la lingua e la scrittura tibetana sono comunemente usate dai monaci, la scrittura tradizionale mongola (di cui non abbiamo potuto fare a meno di acquistare un manuale) ha un grande fascino grafico.Nei 2500 km di "fuoristrada" percorsi abbiamo incontrato una grande varietà di ambienti e paesaggi: laghi, fiumi, boschi (pochi), dune, miniere d'oro, la cascata più famosa della Mongolia (momentaneamente senz'acqua), miraggi, cammelli e gazzelle selvatiche, uccelli rapaci in grande quantità.Infine il viaggio nei suoi aspetti pratici (trasporti, pernottamenti, cibo) è stato decisamente sempre migliore delle aspettative.Gli amici mongoli ci hanno magnificato anche tutto quello che non abbiamo ancora visto,si può già pensare di tornare!
Diario in diretta dalla Mongolia 1 - 27 luglio 2005Cari amiche e amici, innanzitutto siamo ancora vivi e stiamo molto bene. Non abbiamo molto tempo per raccontarvi quello che stiamo vedendo e vivendo, quindi dovrete aspettare il nostro ritorno. Comunque siamo a Erdenet, ridente cittadina mineraria di provincia. Mentre Ulaan Baatar sembrava Catanzaro spostata sulla luna, questa sembra Gela a Gela. Il resto, come direbbe Seba sembra la Sicilia... In realtà, stiamo attraversando dei posti stupendi... A presto, Corrado27 LuglioUlan Baatar e' circondata da un paesaggio quasi lunare ma non si può certo dire che sia una bella città. Forse per ragioni economiche i Mongoli non sembrano curarsi molto degli edifici e delle case, il cui degrado è evidente. O forse non e' proprio nel loro dna fondamentalmente nomade curarsi di questa città che i russi costruirono loro. Per le strade sembra regnare la più completa anarchia automobilistica e più che a diritti di precedenza ci si fa largo a colpi di clacson. Solo i pedoni più temerari tentano di sfidare la sorte e attraversare la strada: pazienza, sangue freddo e un buono scatto se necessario, sembrano essere indispensabili...Forse avendo più tempo a disposizione potremmo apprezzarla meglio, scordarci delle brutture architettoniche e scoprirne gli angoli più caratteristici. Ma in questo viaggio predomina in noi il desiderio di immergerci nella Mongolia più rurale e forse più autentica. E in effetti, dirigendoci verso nord, abbiamo cominciato a riempirci gli occhi di tutto quello che fino a qualche giorno fa avevamo solo immaginato o sognato.28 LuglioIeri sera ci siamo accampati in una distesa di erba da restare senza fiato. I cavalli, le capre e le mucche che la puntellavano in tutte le direzioni parevano gli esseri più felici di questo mondo. E chissà quanto questo stato d'animo sia vicino a quello delle persone che qui vivono nella loro semplicità e di quello che i loro animali possonooffrire loro. Semplicità e fierezza che osserviamo negli occhi delle persone anziane che mentre guardano i loro figli e i loro nipoti sembrano vedere molto più oltre. E' disarmante l'accoglienza che ci riservano, e quanto di ciò che noiriteniamo indispensabile per loro e' superfluo. I bambini ci circondano curiosi, come se la nostra tenda fosse quella di un circo i cui animali più esotici siamo proprio noi. I loro occhi brillano felici e riconoscenti dei nostri piccoli regali, o del permesso di giocare con oggetti per loro sconosciuti come una torcia elettrica. Riunione nella notte, di persone, di suoni, di sensazioni. Ri-unione di parole ora rivalutate e che solo ora, in questo cerchio, assumono chiaro il loro significato.Calore.Famiglia.Legami di sangue umano ed animale che scorre tra cielo e terra.Ciò che produce, nutre.Ciò che nutre, basta.Ciò che basta, non si getta.E' un dono.1 agostoCiao a tutti, siamo a Moron di ritorno dal lago Hovsgol, stiamo attraversando e vedendo dei posti stupendi.Sarà difficile descrivervi a parole tutto questo e neanche le foto renderanno l'idea. Stiamo tutti benissimo, sia fisicamente che, soprattutto mentalmente. Ora dobbiamo andare, questa sera ci aspetta un'altranotte inn ttenndda. A pprreessttoo, llaa taasstierra èèèè unn ppoo rroottttaa. Cciiaao4 agostoL'altro giorno siamo stati intervistati da una troupe di una televisione mongola per un reportage sul turismo che stanno preparando. Grazie all'inglese perfetto di Seba e Paolo abbiamo parlato dei pregi e dei difetti del turismo mongolo, delle nostre impressioni e aspettative di questo viaggio, dei CSI e dell'Italia. Abbiamo anche cantato e suonato "Il pescatore" di De Andrè e chiediamo scusa sin d'ora ai diretti interessati se per problemi di comunicazione o traduzione nel servizio risulterà uno dei seguenti casi:1) La canzone e' stata scritta da noi.2) La canzone e' stata scritta dai CSI.3) Noi siamo i CSI.Comunque grazie alla chitarra di Seba (nel frattempo convintosi che la Mongolia non e' come la Sicilia) stiamo ampliando il limitato reportorio della canzone italiana conosciuta in Mongolia. Finora infatti il preferito era Pupo, seguito a ruota da Albano e Romina, Ricchi e Poveri, Toto Cutugno (le più richieste "Gelato al cioccolato" e "Felicità"). I viaggi a bordo del nostro mitico furgone UAZ lungo le (e fuori dalle) piste che attraversano la Mongolia, anche se molto divertenti, stanno mettendo a dura prova le nostre schiene, le nostre costole e le nostre teste (che craniate quando si salta!). Ma i paesaggi che ci scorrono o si aprono di fronte e ai lati sono di inimmaginabile (ora non più!) bellezza. Se tutto ciò diventa il termine di paragone, sarà difficile tornare a casa e utilizzare come prima parole come pianura e vallata, aggettivi come vasto e immenso, concetti come libertà e quiete. E, per quanto ci riguarda, serenità."DENSAMENTE SPOPOLATA E' LA FELICITA'" (Giovanni Lindo Ferretti)6 agostoOggi è stata una giornata molto dura per il nostro furgone. Questa mattina siamo rimasti bloccati nel guadare un torrente e solo l'intervento di un altro furgone e l'abilita' del nostro autista hanno risolto la situazione tirandoci fuori. Verso sera inveceabbiamo rischiato di rimanere alluvionati da fiumi di acqua e fango che scendevano da alcune montagne appena tempestate di grandine. Per fortuna siamo riuscita a passare prima che la situazione peggiorasse. Ci stiamo dirigendo verso il deserto del Gobi, ultima parte del nostro viaggio, lasciandoci alle spalle le montagne, le foreste, i laghi e la steppa. Purtroppoquest'estate sembra essere più piovosa del solito anche se il cielo, quando si apre, e' veramente spettacolare.8 agostoDalla Lonely Planet: "Nel Gobi una quantità soddisfacente di pioggia cade solo ogni due o tre anni". Ebbene sì, ci siamo riusciti e abbiamo fatto piovere anche nel deserto. Questa notte e' venuto giù un acquazzone direi piu' che soddisfacente. Doti sciamaniche o sfiga meteorologica? Durante la giornata il cielo si e' riaperto e la sera era completamente sgombro, regalandoci una limpida notte di stelle, molte delle quali cadente con scie fiammeggianti (sul serio... non e' la vodka). E' strano pensare come guardare in su la notte e vedere così distintamente la Via Lattea o la luminosità; di miliardi di stelle, molte delle quali sappiamo che esistono solo sulle mappe stellari, sia una cosa normale per gli abitanti di questo paese. Mentre per noi e' così sorprendente, eccitante e commovente.14 agostoDopo circa 3400 km e alcuni inconvenienti tecnici al nostro furgone lungo il percorso (risolti sempre brillantemente dal nostro autista pieno di risorse) siamo ritornati a Ulan Baatar e abbiamo quasi concluso il nostro viaggio. Alcuni prima di partire ci dicevano: "Ma cosa ci andate a fare in Mongolia? Non c'e' niente...". Noi sapevamo già da prima di partire che si sbagliavano ma quest'esperienza è stata ancor più appagante delle nostre stesse aspettative. Sia per quanto riguarda la bellezza dei posti visitati, sia dal punto di vista culturale e umano. Tutto ciò si e' fatto largo tra i pensieri e le preoccupazioni delle nostri menti trovando lo spazio necessario affiché noi possiamo in seguito ricordarlo, raccontarlo o semplicemente tenercelo per noi per quando ne avremo più bisogno. Per quanto mi riguarda, so già che ne sentirò sicuramente la necessità.
Gli appuntiSono stato in Mongolia e ne ho riportato una ottima impressione, anzi mi sono proposto quanto prima di ritornarvi anche perché ho fatto anche un'amicizia. Sono arrivato in Mongolia dalla Cina, dopo essermi fermato, dopo Pechino , anche a Dantong e a Hothot nella Mongolia interna cinese. Dopo un lungo viaggio da queste città sono infine arrivato a Ulaan Bataar. Qui ho alloggiato al Chinggis Khaan Hotel, in verità un poco caro, ma dotato di tutto, anche di una discoteca al primo piano, molto simpatica! Ho visto quindi tutta la città, i suoi supermercati, i suoi templi e i suoi musei, il Gandan e il Palazzo d'Inverno di Bogd Khan. Arrivando poi sulla montagna, dal Mausoleo in onore del soldato sovietico, ho ammirato lo stupendo panorama che si osserva da lì. Le mie compagne e i miei compagni erano entusiasti! Mi sono diretto poi a Dalanzagad nel Sud del paese, dove ho ammirato la stupenda Valle delle Aquile e lo stupendo Gobi , con le sue montagne e le sue praterie sconfinate. Ritornato poi a Ulaan Baatar, centro del mio viaggio, abbiamo proseguito per la parte a ovest e siamo quindi giunti a Karakorum e quindi a Erdene Zuu, sempre attraverso la prateria e sempre in pulmino (adesso stanno facendo un nuovo fondo stradale): quando siamo ritornati poi a Ulan Baatar, abbiamo poi proseguito per Tereli. Il viaggio di ritorno è proseguito partendo sempre con il mio mezzo preferito, il treno, dalla stazione ferroviaria, molto bella per me, nel suo stile imponente, di Ulan Baatar, alla volta della frontiera russa, fino a Irkutsk e di lì, attraverso la magica foresta siberiana, fino a Mosca. Da questo viaggio, che consiglio a tanti, (si attraversa veramente mezzo mondo, specialmente vedendolo dai finestrini di un comodissimo treno) mi riprometto di conoscere e di riparlarne anche con altri che ci sono stati, e di averne quindi le impressioni di altri.Dal caos della Cina al silenzio della MongoliaSi arriva in Mongolia dalla Cina sovrappopolata, e subito siamo dominati dal silenzio. E' un contrasto assoluto. Là l'enorme moltitudine e il dominio del numero, qua gli sconfinati orizzonti colmi solo del nulla, ma regno incontrastato di cammelli, di cavalli e, perché no, anche di aquile! Tutto ciò si può solo descrivere, ma per avvertirne l'atmosfera, bisogna esserci, questo di giorno, mentre di notte il chiarore della Via Lattea ci indica quanto di mirabile ci dia questo centro dell'Asia, questa zona stretta fra due colossi, la Cina e la Russia, ma pur tanto diversa da essi. Queste sono le riflessioni che rimarranno sempre in me, almeno fino a un prossimo viaggio in zona, dopo aver fatto il percorso da Pechino a Dantong, e da Hothot, nella Mongolia interna cinese, a questo luogo ancora miracolosamente incontaminato; e quando il treno transiberiano, qui a trazione diesel, partito dalla stazione di Ulaan Baatar affronta l' ultima curva, lasciando gli ultimi "abitati " della capitale, mentre in lontananza se ne vede l'aeroporto internazionale, ci viene una improvvisa nostalgia, che poi diventa definitiva al cartello di confine Russia-Mongolia, dopo quasi dieci ore di viaggio.Dr. Giovanni Aulisi(agosto 2005)
Ci sposiamo a Ulaan Baatar il 22 agosto 2005. Un abbraccio a tutti.Savitri e CarmeloCongratulazioni e appuntamento su questa pagina per l'album di nozze!E' NATO ATTILIO TENGIS, FRUTTO DI UNA MERAVIGLIOSA STORIA20 novembre - E' nato il 12 novembre 2005. Attilio Tengis è figlio di Savitri e Carmelo: lei è una straordinaria donna mongola, lui un italiano colto e affabile di Siracusa che si è innamorato, in tutti i sensi, della Mongolia. Ora vive a Ulaanbaatar, felice come non è mai stato: improvvisamente si ritrova con una grande e caldissima famiglia: Attilio Tengis ha un fratello di 13 anni che si chiama Temujin (nella foto a destra con Savitri e Carmelo), come il grande condottiero. L'anno prossimo Carmelo porterà tutta la famiglia a visitare la Sicilia e Temujin, che sta seguendo una scuola di italiano ("con una cinese che lo parla malissimo", scherza il papà), non vede l'ora di toccare il mare. E' la dimostrazione che culture così diverse possono convivere all'insegna della comprensione, della dolcezza e soprattutto dell'amore. Una storia che è il simbolo stesso dell'alleanza fra Mongolia e Italia. Un abraccio a Savitri e buona vita ad Attilio Tengis. Bellissima e commovente la lettera che ci ha inviato l'amico Carmelo: "Attilio Tengis è un bel bambino (ma forse non tocca a noi dirlo!) di 4 chili, sono in ottima salute, sia lui che la mamma. Adesso mentre scriviamo agli amici sparsi per il mondo lui dorme nella sua stanza nella nostra casa di Ulaanbaatar con la luna che sembra entrare dalla finestra e carezzarlo. Ma non e' solo nella sua culla, qui in Mongolia quando un bambino nasce i fratellini più grandi ritagliano una piccola volpe di carta e la appendono al lettino, serve a tenere lontani i sogni cattivi ed anche a fargli un po' di compagnia, perché nel paese più spopolato del mondo non sei mai completamente solo! Ringraziariamo pubblicamente i medici e tutto il personale del reparto di maternità dell'Ospedale Numero Uno di Ulaanbaatar, che, per competenza ed umanità non hanno nulla da imparare dai loro colleghi delle nostre "ricche" strutture sanitarie. Ciao. Carmelo".
IL RACCONTOIl sillogismo mongoloEccomi di ritorno da quello che sembrava un viaggio un po' esotico ed è, invece, diventato un pezzo di vita da ricordare. Ho fatto qualche giro secondo i canoni del turismo di massa e ho passato un po' di giorni con una famiglia di pastori, scoprendo che i mongoli sono gente straordinaria. Sono cordiali, ospitali, affettuosi e sono guidati dal sillogismo mongolo: se uno può andare a cavallo, allora deve andare a cavallo. Spiegazione del sillogismo. Sono arrivato a inizio pomeriggio e, dopo i beveraggi di benvenuto (dio maledica il loro the con latte e sale, ma non diteglielo!), mi è stato chiesto se desiderassi fare un giro a cavallo. Ho spiegato che non ero mai salito a cavallo e che non mi pareva il caso di cominciare. Stupore e sguardi dubbiosi verso l'interprete, evidentemente sospettata di aver tradotto male. Sul momento la cosa è finita lì e siamo passati ad argomenti meno equestri. Durante la conversazione devo aver detto o fatto qualcosa (non saprò mai cosa) che è piaciuto, infatti si è riproposta la questione di fare una cavalcata. Ho confermato la mia inettitudine e ho spiegato che le mie vecchie articolazioni cigolano: sguardi dubbiosi, questa volta su me, e apparente accantonamento della questione.La fortuna dei principiantiLa sera sono stato sottoposto a un test diverso: mi è stato insegnato un gioco di carte mongolo e fra lo stupore generale (mio, prima di tutti) ho vinto. Il giorno seguente sono arrivate in visita due signore: una delle due - un marcantonio di signora esuberante nella chiacchiera, nelle dimensioni e negli anni - ha proposto di giocare a carte. La signora, vintoil primo giro, ha proposto di giocare a soldi e il padrone di casa ha messo sul tavolo 100 tugrig. Tutti, me compreso, hanno dichiarato di voler giocare. Abbiamo giocato e in base a un sistema di conteggio a me ignoto ho vinto un fascio di banconote corrispondenti a 2/3 $, che ho dato ai bambini che affollavano la yurta. La cosa è piaciuta ai bambini e agli adulti, e siè riproposto il problema equestre. Credo che il ragionamento - più o meno - sia stato che uno che fa una cosa tanto onorevole come mazzolarli a carte e tanto inaspettata come regalare la vincita ai bambini non può non andare a cavallo. E hanno deciso di insegnarmi.Un quasi vero mongoloPrima la padrona di casa mi ha fatto indossare il loro soprabito (mi sono dimenticato di chiedere come si chiama l'indumento) e mi ha guardato con evidente approvazione. L'esame estetico era superato: avevo l'aspetto di uno che può andare a cavallo (prima parte del sillogismo mongolo). Poi mi hanno preso... a tradimento: Bat, il padrone di casa, mi ha fatto spiegare che il giorno seguente avrebbe eseguito l'importante operazione del taglio della criniera. Se volevo assistere, dovevo indossare il loro soprabito e travestirmi da mongolo, cappello incluso. Obbediente, interessato e travestito ho assistito all'operazione, a conclusione della quale mi sono trovato circondato da donne, vecchi, bambini e vicini di casa. Bat (seconda parte del sillogismo mongolo) era vicino a me con un cavallo sellato e pronto a portare a spasso il più sinistrato dei cavalieri. Il cavaliere sinistrato non aveva più pretesti: "Meglio morire su un cavallo mongolo - mi sono detto - che sotto una macchina nel traffico di Milano". Bat mi ha aiutato a salire (aiutato a salire, ossia spinto, sollevato e, in conclusione, messo sul cavallo giusto lì dove c'è la sella), ha tenuto il cavallo per il morso e mi ha fatto fare una cavalcata di circa 20 metri, sufficienti comunque a farmi considerare un vero uomo e (quasi) un mongolo. Gridolini di donne e bambini, baci, abbracci, pacche sulla schiena da parte di Bat, foto ricordo e promessa reciproca che l'anno prossimo sarò di nuovo loro ospite. Questo per quanto riguarda la parte emotiva del viaggio. Da un punto di vista più pratico ho trovato un sacco di cose che, spero, mi riporteranno in Mongolia.Le contraddizioni della capitaleUB è una città orrenda nella parte moderna e piena di problemi nella parte che guarda al capitalismo attraverso la porta della yurta. La vita pastorale - la campagna, nella terminologia delle guide - ha, a sua volta, un piede nel passato (ho visto scene quasi incredibili di integrazione familiare nell'ambiente) e un piede nel presente (dall'alimentazione elettrica con celle solari al ritorno dei vecchi dalla città alla campagna). I monaci, con tutto il rispetto dovuto alle religioni altrui, fanno esattamente come il papa di Roma, cioè dimostrano con i fatti che religione e affari sono un'accoppiata vincente. L'università di UB e la docente, dr. Tumen, non sono certo degli sprovveduti relegati nella periferia del mondo. Studiano i problemi proprii con spirito laico e i problemi altrui (per esempio, la mafia) con curiosità e interesse.
La riflessioneAvevate ragione , adesso capisco la vostra ammirazione-rispetto per questo Paese e per la sua gente. Ho trascorso due settimane in Mongolia decisamente intense ma anche molto interessanti nonostante alcuni problemi.Sto ancora vivendo il ricordo per questo Paese e ciò per me è importante.Mi sono riproposto di ritornarci. Mi incuriosisce molto l'inverno anche se so che è molto duro.Comunque ho conosciuto delle persone veramente in gamba, disponibili ad ospitarmi e questo sicuramente mi renderà tutto più facile.
Avventure e disavventureSiamo Greta e Alberto, i due torinesi partiti per la Mongolia ad agosto a cui avete dato molti utili consigli e che oggi - fuori tempo massimo - vi ringraziano. A dispetto di ogni più nefasto pronostico (dei nostri amici) siamo agevolmente sopravvissuti anche alla Mongolia!!! (...la gramigna è dura a morire!!!). Siamo tornati già da quasi due mesi ma - purtroppo - un cono d'ombra di sfighe varie e l'impatto con il lavoro mi hanno impedito di scrivervi prima. Infatti, sperando di rendere più agevoli le mie navigate in internet, ho comprato Alice Adsl. Ebbene, l'unica cosa che sono riuscita a vedere alla velocità della luce è stato l'attacco incrociato di 7-8 virus che mi hanno completamente bloccato il modem, il disco fisso ed anche le portiere della Clio!!Rianimare il mio computer è stata una impresa epocale.Ma torniamo alla Mongolia. Dopo aver viaggiato per quattro giorni l'Eurasia (facevamo uno scalo ad Helsinki di un giorno ed uno a Pechino di due), fa piacere arrivare ad Ulanbataar e trovare qualcuno che ti viene a prendere in aeroporto!!! La Mongolia è bellissima, ne valeva davvero la pena !!! Alby, vorrebbe già tornarci la prossima estate per fare gli Altai. Alla fine siamo partiti solo noi due perchè tutti i nostri amici hanno gentilmente declinato l'invito...Per assurdo il viaggio è stato molto meno duro di quello che mi sarei potuta aspettare ed il cibo mongolo non è neanche così disgustoso. Le persone - di solito - soffrono molto l'impossibilità di lavarsi regolarmente e la mancanza di gabinetti ma - come sa chi mi conosce - quello è stato l'ultimo dei miei problemi: considero defecare nei custi una gioia quasi primitiva e l'igiene personale un vezzo facilmente abbandonabile (...comunque - per la cronaca - mi sono lavata ben 3 volte in 17 giorni!!!).Devo dire che non consigliere la Mongolia a chi non ami - almeno ogni tanto - la solitudine e le buone letture tra cui anche il libro sugli uomini renna di Federico Pistone!Non essendoci - in Mongolia - le care vecchie discoteche alla Briatore ma neanche semplici pub o ritrovi serali i nostri amici ci hanno ormai classificati come "gente bizzarra". Unico contrattempo è stato il fatto che - forse perchè non avevamo l'appoggio di un tour internazionale - la polizia ci ha arrestati nella città di KaraKorin accusandoci di immigrazione clandestina, sequestrandoci anche tutti i documenti di viaggio. Il nostro autista era nero di rabbia ed è saltato al collo del poliziotto il quale - prima è fuggito nascondendosi in macchina - è poi ci ha portati tutti in commissariato trattenendoci, come dicevo, in arresto. Poco male: ho chiesto di voler prendere contatto con la mia ambasciata (che in Mongolia non esiste), ho citato a casaccio una mezza dozzina di Convenzioni Internazionali studiate durante gli anni dell'università a giurisprudenza (che in Mongolia non hanno valore), ho prontamente sguinzagliato il mio avvocato di riferimento (Alby, che - però - è un civilista) il quale - dopo aver pregato di aver almeno lui salva la vita (sig!)- si è accordato sanando i nostri illeciti (invero inesistenti, era tutto regolare!!) pagando la cospicua tangente di € 2,80. Credo che sia il più basso pizzo chiesto dalla polizia di tutto il mondo (...quasi, quasi gli lasciavo la mancia!!). Ma perchè, ovunque vada nel mondo, mi devono arrestare ??Un saluto. Greta e Alberto (novembre 2004)
Il raccontoVoglio raccontarvi un po' il nostro viaggio e ringraziarvi per i consigli e l'entusiasmo che ci avete comunicato prima di partire! E' stata un'esperienza molto molto bella!Di primo acchito Ulan Baatar non mi è piaciuta per niente, era troppo città, troppo sovietica... ci siamo arrivati in una giornata caldissima e i livelli di inquinamento facevano bruciare la gola!! Poi hai in testa dei paesaggi immensi, li vedi dall'aereo... e ti ritrovi in una città caotica!Però appena usciti da lì te la gusti appieno la Mongolia! E' stato fantastico da subito, accamparsi la prima notte nella steppa verso il Gobi e vedere dopo un po' apparire della gente, arrivata da chissà dove, perché eravamo davvero in mezzo al nulla! Arrivano, si siedono, non ci si capisce, ma stanno lì... dopo un po' gli offri del cibo, loro ti offrono quello chehanno in tasca... che sia un formaggino di yak, un pezzo di carne secca dicammello...Ho scoperto un livello di comunicazione che da noi non esiste, stare seduti apoca distanza senza parlarsi, ma scambiarsi delle cose e dei grandi sorrisi.I bambini che impazziscono per vedere una macchina fotografica, per unpennarello, un pallone, il frisby!Mi sono resa conto che queste persone stanno davvero bene nella dimensionein cui sono, lo riconosci dai sorrisi, che sono reali, pieni! E la condivisione è stata eccezionale!Al Terkhin Tsagaan Nuur abbiamo raggiunto degli altri amici italiani a mezzanotte, lafamiglia che li ospitava ci ha chiesto se volevamo montare la tenda o dormire in gher... ci hanno dato una gher, e il giorno dopo abbiamo scoperto che era casa loro!! Quindi loro nella notte sono andati chissà dove per lasciarci la loro casa... Il giorno dopo si sono messi a costruireuna nuova gher!!Siamo tutti rimasti stupiti dell'ospitalità.Il Gobi mi è piaciuto tantissimo: luci colori silenzi, le dune di Kongorin forse sono state il momento più magico di tutto il viaggio, con un tramonto in piena tempesta di sabbia!Però il nord (lago Kovsgol) è stato più vissuto, ci siamo fermati di più nei diversi posti e una scoperta meravigliosa è stato il viaggiare a cavallo. Ogni tanto me lo sogno ancora di notte! Anche in questo caso la condivisione con i mongoli è stata bellissima! Ci hanno accompagnato un uomo e una donna che passavano il tempo a cavallo a cantare: unsottofondo eccezionale per dei paesaggi che quando rivedo le foto mi fannovenire la pelle d'oca!!Unico momento triste è stato arrivare ai primi accampamenti Darkat, quelli per turisti, sulla riva ovest del lago: ci è venuto incontro uno di loro, ubriaco, che chiedeva tugrik per una foto, tugrik per vedere le renne, tugrik per tutto! E quando ha visto che non avremmo mai ceduto a queste richieste, in modo ancora più triste ci ha chiesto della vodka... eraviolento, ci siamo difesi grazie alle nostre guide mongole.Ce ne siamo andati tristi, chiedendoci se questo è il prodotto del turismo, qual è l'influenza che noi portiamo in regioni così distanti dal nostro modo di vivere...Un'altra perla della mongolia è stata il monastero di Ambarbayasgald! Bellissimo!!!Grazie tantissime per i suggerimenti e (ripeto) l'entusiasmo con cui ci avete motivato a questo fantastico viaggio.(settembre 2004)
Il raccontoSono riuscita ad andare in Mongolia, è stato fantastico! I mongoli sono delle persone adorabili e molto ospitali. Un pò meno il cibo, i paesaggi grandiosi e immensi , siamo riusciti ad assistere a un rito di una sciamana, molto inquietante.Abbiamo incontrato Nyamaa molto carina e disponibile , avevamo come guida una giovane ragazza con lo stesso nome molto premurosa che non ci ha lasciati un attimo , abbiamo fatto circa 2500 km. con una camionetta russa su strade che ben conoscete con una media di 30 km. all'ora ; mia figlia si è divertita a cavallo e non ha avuto nessun tipo di problema. E' statoproprio un bel viaggio, divertente dormire nelle gher, gli accampamenti sempre in ordine e puliti, l 'acqua non è mai mancata per lavarci.E' un viaggio che ricorderemo sempre con grande piacere .Vi saluto e grazie ancora.(settembre 2004)
Il sito (con la galleria completa)http://www.e-lix.it/travel/index.htmFrammenti mongoliSotto l'ombra di pesanti nuvolenel cielo cobalto, viaggiamo.Invisibilli sentieri,tra i denti sabbia e solitudine.Puzzo di sterco animale e sudore,sorrisi.Nel tempio, lontano,gesti antichi millennidanzano.Om Mani Padme HumOm Mani Padme Hum.Appesa nella notte, una tela stellata,silenzio eterno.L'ultimo sorso di vodka,un abbraccio, un regalo,un addio.Nella steppa infuocatacuccioli d'uomo, fieri,cavalcano.Grazie Mongolia
Il raccontoInnanzitutto Ulaanbaatar, la capitale, fatiscente e non particolarmente bella. Eppure mi ha affascinato. Ci siamo proprio divertiti, io e Leo, a visitarla con Chantsaa, Tunka e Chinzo (la nostra guida a UB). Abbiamo mangiato veramente bene, una sera Tunka sapendo che a me piace la pizza (ci hanno veramente straviziati) ci ha portato alla Pizzeria della Casa, non era un granché, mille volte meglio la cucina mongola!! Sono quasi ingrassata due chili. E la mia mamma che si preoccupava che tornassi a casa patita...Durante il viaggio sulla jeep eravamo in cinque: Gambaa (autista), Chantsaa (che teneva i soldi e cucinava) e infine Enhee, la nostra guida. Appena partiti ci ha trattenuto per quasi due ore nella descrizione della sua conversione a una pseudo chiesa cattolica, dove lui attraverso convulsioni e dialoghi diretti con lo spirito santo (!) aveva risolto quasi tutti i problemi della sua vita! A parte Enhee, la Mongolia e il suo popolo sono stupendi.Il viaggio è durato 14 giorni, brevemente: in 2 giorni abbiamo raggiunto Dalandzdgag, ci siamo fermati a Sum Khuuk Burd a dormire e abbiamo visto Baga Gairiih Chuulu (senza trovare le pitture rupestri). Siamo stati nella Valle delle Aquile e raggiungendo Khongorin Els abbiamo visto degli asini selvatici (bellissimi). Abbiamo continuato verso Bayanzag e il giorno dopo abbiamo raggiunto Ongi. Poi abbiamo visitato Khujrt, dove abbiamo pernottato dallo zio nomade di Chantsaa (indimenticabile). Prima di raggiungere Kharakhorum siamo stati a Orkhon, dove però purtroppo le cascate non c’erano. Noi abbiamo quasi mai incontrato turisti, i campi solitamente erano vuoti e d i proprietari avevano da poco iniziato ad allestirli!Da Kharakhorum ci siamo spostati verso Tsetserleg e dopo circa trecento km abbiamo raggiunto il vulcano Khorgo: stupendo. Penso che sia stato uno dei luoghi più belli che abbiamo visitato in Mongolia.Infine siamo partiti per il tratto più lungo del viaggio verso UB. Abbiamo visitato il lago bianco, il giorno dopo abbiamo proseguito passando da Khar Balgasin Tur verso il Khustai Park.Ritornare a UB è stato strano, sembrava diversa da come l’avevamo lasciata. È stato strano dormire in un albergo e avere acqua calda a volontà. L’ultimo giorno l’abbiamo dedicato allo shopping, e abbiamo visitato ancora un po’ la città con Chantsaa e Tunka. Ci hanno fatto anche un regalo: delle ciabattine in cuoio con la punta all’insù e della vodka mongola per i rispettivi genitori, troppo gentili.Abbiamo fatto anche un filmino, quasi due ore, peccato che però sia veramente difficile rendere l’idea della bellezza e della vastità della Mongolia. La fotografia, l’immagine in generale, possiede una cornice, un limite che in Mongolia non esiste, e quindi pur avendo una sequenza di fotogrammi che esprimono uno spazio di 360 gradi ti accorgi che ogni fotogramma è pur sempre un’immagine limitata rispetto all’illimitato orizzonte che ti si presenta dinnanzi agli occhi.
I consigliEccomi di ritorno. E' vero: la Mongolia è un luogo speciale che merita un viaggio (forse più di uno), sia per i suoi paesaggi sconfinati, sia (e soprattutto!) per la gente. Ci siamo subito accorti che stavamo cominciando un viaggio che non aveva nulla a che vedere con i viaggi che avevamo fatto finora. Un viaggio che ci ha coinvolti emotivamente e da cui abbiamo imparato molto.Abbiamo girato in modo indipendente. Abbiamo preferito non noleggiare un'auto con autista (e guida) come quasi tutti i turisti fanno, ma abbiamo viaggiato "alla giornata". Da Ulaan Baatar a Darhkan in treno; da Darkhan a Erdenet in auto; da Erdenet a Moron in un van pubblico russo (22 persone su un mezzo per 12 al massimo); e così via, passando per Karakorum, Terkhiin Tsagaan nuur ed il deserto dei Gobi.A tutti coloro che ci dicevano, prima della nostra partenza, che non era affatto possibile (anche ad Ulaan Bataar, al nostro arrivo, molti tour operator locali hanno cercato di farci cambiare idea) vorrei dire loro quanto si sbagliavano. Viaggiare in questo modo ci ha fatto conoscere molte facce della Mongolia e della sua gente. Solo un esempio: durante le 15 ore trascorse per raggiungere Moron da Erdenet, i nostri compagni di viaggio intonavano tuttiin coro delle canzoni popolari che sembr avano delle ninnananne dolcissime.Un'esperienza che da sola ci ha ripagato della fatica della giornata.
AppuntiIl lago dell'imperatoreLa prima vista e’ del lago Avarga Toson Nuur dove ho nuotato tutti i giorni. E’ anche il lago dove veniva l’imperatore Genghis Kahn con la corte reale nel trecento. I nobili occupavano un lato del lago ed i contadini facevano il bagno sull’altro. C’era anche una parte riservata per le donne nobili. Questo lago è famoso in Mongolia per i suoi poteri curativi. Tante persone con i problemi di pelle, reumatismi e vari dolori di ogni tipo vengono qui per 2 settimane all’anno. Si tratta di poche persone comunque. La popolazione totale della Mongolia e’ soltanto 2 millioni e mezzo per un paese che e’ grande quanto l’italia, la spagna e la francia messi insieme.Il trattamento di fangoSi trattava di avere un trattamento di fango ogni mattina, riposare e poi andare a fare il bagno in un lago speciale che consisteva di 24 sali minerali diversi. Vivevo e cucinavo in un GER (una tenda nomada) molto comodo per 10 giorni. C'e' da dire che entrare nel GER dove si faceva il trattamento era un'esperienza unica. Un posto completamente surreale. Lenzuola appese come fantasmi dai travi sul tetto, un piccolo forno per riscaldare il fango (si', il fango doveva essere bollente prima dell'applicazione), una vasca piena di fango primordiale, 6 lettini coperti di plastica accanto ai pareti, luce di dio che penetrava dall'unica finestra al mondo, che si trovava al centro del tetto. Dopo essere coperto in un fango molto fine (senza sabbia) come una crema di ebano, ero avvolta come una mummia in grossi pezzi di lana e tenuta calda per 20 minuti. Dopodiche' levano l'eccesso di fango con un coltello di burro e poi mi mettono in una vasca o secchione d'acqua calda e mi aiutano a levare il fango appiccicoso con gli stracci. Ci vuole circa 1 ora e 20 minuti per tutta la procedura.Lezioni di tiro con l'arcoIl Tiro col arco e’ uno delle 3 sport nazionali della Mongolia (corsa a cavallo e la lotta libera sono gli altri 2) ed ieri ho avuto il piacere di trovarmi nel villaggio di Genghis Khan. Sono molto emozionata per condividere con voi la mia prima lezione dal campione della Mongolia di tiro con l’arco! (E’ tanto vero che ho fatto un po’ la scema ma non importa.) La squadra e’ molto brava ed e’ fatta anche di donne. La competizione era tra i mongoli ed i coreani che sono vestiti di giallo e assomigliano i membri della Ku Klux Clan. Gli archi sono di corna di capra ed e’ difficilissimo tirare la corda indietro per quanto e’ tesa. Il bersaglio non visto nel video sta a 300 metri dall’arciere.Dopo una settimana di influenza e legata al letto come una moribonda, sono tornata fedelmente a voi. Fa un freddo cane, 3 gradi mica e’ Roma qui!Negli ultimi anni la Mongolia è cambiata da un’economia di pianificazione centrale ad un sistema di mercato libero (traduzione letterale). Cioé la struttura socialista era caduta e fu rimpiazzata da una privatizzazione totale. Il risultato era disoccupazione e povertà devastante in tutto il paese.La crisi economicaUno dei miei progetti è sul Dulaankhan che è stato colpito duramente dalla crisi economica ed i contadini hanno patito la fame come conseguenza. Questi contadini prendono in prestito di solito piccole somme dalla banca per comprare i semi ed i fertilizzanti, usando come contropartita la raccolta. Hanno anche il fardello di pagare l’istruzione dei bambini (l’alfabetizzazione sta a 97% in Mongolia!), quindi fanno la raccolta presto per poterla vendere sotto il prezzo di mercato a villaggi ed a paesi vicini. Gli avanzi sono tenuti per il consumo personale, ma questa piccola quantità finisce dopo qualche mese e le famiglie raggiungono livelli di fame per rimanerci fino alla prossima primavera quando il ciclo di prestito e piantare inizia da capo.Il progetto umanitarioIl nostro progetto ha aiutato il villaggio a rimettersi in piedi fornendo ai contadini la possibilità di coprire i costi di base, di costruire e stabilire dei sistemi di innaffiamento e le pompe d’acqua e di insegnare loro i migliori metodi per curare la terra, dato che il piantare e’ un’attività relativamente nuova in Mongolia. Non bisogna dimenticare che questa e’ gente caparbia e sono mangiatori di carne, (il significato della parola “Eskimese”) normalmente sopravvivono del bestiame durante i 9 nove mesi di inverno severo a -60°C quando non cresce nulla. Il progetto facilita anche la vendita dei prodotti agricoli al prezzo di mercato e insegna loro a conservare la verdura sotto olio/aceto, per ambedue l’utilizzo personale e vendita al mercato durante l’inverno.Un mondo diversoC’è un sistema di tronco/legna per ottenere l’acqua dal pozzo. Ognuna delle 20 famiglie nel villaggio ha un pozzo che usa per innaffiare gli orti. Patate, carote, cavoli e cipolle sono la verdura di base ma ci sono anche peperoni, cetrioli e zucche. Vi sorprenderà sapere che in Mongolia – non come il resto dell’Asia – e’ una società matriarcale nella quale il numero maggiore dei lavoratori adulti sono donne. Anche i bambini sono abbastanza coinvolti nelle attività quotidiane come piantare e fare la raccolta, pompare l’acqua, cucinare e pulire.E’ davvero un mondo diverso qui.
Il raccontoRiuscire a descrivere una nazione visitata in soli 15 giorni credo sia una operazione difficile se non impossibile, risulta quindi ovvio considerare il racconto in questione come un semplice diario di viaggio fatto però più da opinioni ed impressioni che da una dettagliata descrizione dei luoghi. Un diario su una nazione tanto grande quanto snobbata dai media e fuori, se così si può dire, dal circuito turistico di massa.Tutte considerazioni che le persone legate all’associazione Soyombo ed i frequentatori del sito www.mongolia.it avranno sentito più e più volte e per questo non mi dilungo ulteriormente.La mia esperienza in Mongolia inizia paradossalmente nella città di Parma dove con una certosina pazienza inizio a raccogliere informazioni su siti internet, pubblicazioni e quant’altro mi possa dare notizie dati consigli sulla nazione di Gengis Khan. Un approccio che mi ha permesso di leggere, leggere, leggere e sono assolutamente certo che quanto fatto mi abbia aiutato ad affrontare il viaggio.La mia Mongolia inizia dalla capitale, l’anonima Ulan Bator e proseguendo a sud verso il Gobi lungo un itinerario di circa 2000 km attraverso una piccola fetta di uno sconfinato paese.Un viaggio affrontato con tre persone conosciute tramite il contatto mongolo in Italia (Dulam) e che mi ha permesso di dividere le spese della macchina della guida/autista e della guida/traduttrice. 6 persone in tutto e un minivan di fabbricazione coreana (anche se devo ammettere che invidiavo i ben più scalcinati pulmini russi, tanto caratteristici e romantici quanto scomodi).Mongolia, un viaggio che non consiglierei a nessuno , non perché non sia bello affascinante stimolante e devo dire gratificante, ma perché credo alla Mongolia ci sia arrivi attraverso un proprio percorso qualunque esso sia, in pratica non sei tu che scegli la Mongolia è lei che sceglie te.La mia Mongolia è stata quella di una ricerca di un luogo fuori dai luoghi, un posto in cui uomo e ambiente siano in qualche modo fortemente legati e dove ancora per poco purtroppo sia l’ambiente a dettare le regole, un luogo che sia natura sconfinata e civiltà, cultura tradizione, popolazione di nomadi dove esistono ancora gesti antichi e dove siano ancora presenti tradizioni forti e radicate da una natura potente ed imponente, dominante e crudele ma capace di lasciarti fermo ad osservare quello che molti chiamano l’infinito.Terra del cielo blu, così viene chiamata su riviste e libri del settore ed effettivamente un cielo assolutamente blu ti accompagna ogni giorno insieme alle nuvole ed al vento.Nuvole grandi e piene quasi volessero cadere improvvisamente sulla tua testa, nuvole bianche e nere di pioggia. Pioggia che arriva soprattutto in agosto ma che bagna solo leggermente questa terra quasi fosse incapace di coprirla tutta.Terra del silenzio, del grande silenzio quasi spaventoso per un cittadino straniero abituato a ben altra concezione del silenzio, quello falso per l’appunto.Terra dell’infinito spazio, cielo colline deserto steppa montagne... tutto sembra infinito seppur infinito non lo sia .Terra dove puoi osservare, osservare la vita dei templi scandita da preghiere, osservare la vita dei nomadi scandita dalla mungitura osservare la vita nei piccoli agglomerati urbani delle case in murature fatiscenti e delle vive e attive tende mongole: le gher.Terra dove osservare ti riempie la giornata ti lascia idee di considerazioni sul come sul perché sul concetto del tempo e del silenzio sul modo di interagire.Terra abitata da un popolo fiero silenzioso proprio come i loro spazi, un popolo capace di gesti semplici come la loro vita nomade e come la loro stessa musica.Un popolo che mi ha regalato molto, che mi ha dato senza chiedere che mi ha cercato senza che io avessi nulla da dare a loro.Mi ritengo un piccolo cacciatore di immagini: fermare i sentimenti e le impressioni su una pellicola e, proprio come insegnano spesso alcuni fotografi, cerco di nascondermi tra la folla confondendomi tra i profumi ed i colori dei posti che visito cosi da non turbare la quiete del posto e coglierne l’essenza più naturale.È stato difficile, è stato impossibile nascondermi tra quella gente, in quegli spazi che anche fisicamente non danno molti rifugi perché il loro modo di vivere ti coinvolge ti prende. Non puoi osservarli, non puoi guadare i loro gesti la loro vita comune senza che in qualche modo tu ne venga coinvolto, perché questo accade. Sarà forse la tradizione nomade il muoversi l’essere nomade comporta che ogni momento di incontro con un’altra persona deve essere valorizzato sfruttato colto perché da esso si può cogliere un idea un consiglio un opinione.La mia Mongolia è stata anche il riscoprire una filosofia, una religione, il buddismo di assoluto fascino e mistero, ricca di particolari di aspetti che richiamano una concezione ed un approccio alla vita molto lontano dalla nostra.La mia Mongolia è stata quella di una nazione nella quale ti senti solo di fronte alla natura ma solo cosi alle volte puoi comprenderne la magnificenza e con essa la follia di molti nostri gesti.La mia Mongolia è fatta del latte di cavalla cammello mucche yak e capre, dell’airg e delle loro bevande che personalmente ho apprezzato e consumato nonostante il solo sentirne i contenuti e preparazione potrebbe ai più causare dubbi amletici.Strade sterrate assolutamente da preferire alle pessime strade della capitale che nonostante la scadente architettura ho trovato divertente se visitata in 2-3 giorni (consiglio all’inizio e fine viaggio una specie di anticamera prima di tornare).Una nota particolare volevo farla per l’alimentazione tanto bacchettata nelle guide, premetto che sono di una terra di buon cibo (Parma e l’Emilia) ma sono anche uno di bocca molto buona, in ogni caso tutto ciò che ho mangiato era assolutamente mangiabile e saporito, certo gli ingredienti sono più o meno gli stessi ma credo che fuori dall’Italia anche se non ho mota esperienza sia più o meno sempre così.Preferisco parlare con le immagini quindi il resoconto del viaggio lo faccio con loro
Il racconto17 giorni in Mongolia sono troppo pochi! L’ultima settimana inizi a comprendere meglio lo svolgimento della vita e le abitudini dei mongoli… ed è ora di ripartire.Ho viaggiato 14 giorni con il mio compagno, una guida mongola che parla bene lo spagnolo e un autista mongolo… che parla solo mongolo e russo.La zona visitata è stata il sud e il sud ovest per tornare poi a Ulaan Baatar attraverso Karakorum.Non voglio fare un resoconto dettagliato delle zone visitate da un punto di vista geografico (questo si trova nelle guide) ma piuttosto un sunto delle mie esperienze, di ciò che mi ha colpito, incuriosito, deluso…Alcuni dettagli tecnici però servono per comprendere il tipo di viaggio affrontato.Siamo passati da Mosca e, arrivati a U.B., ci aspettava la nostra guida.I primi due giorni abbiamo fatto tragitti brevi per tornare a dormire al Chinggis Camp a 80 km da UB. Abbiamo visitato la zona del Terelj. Il vero viaggio è iniziato partendo verso il deserto del Gobi con un furgoncino (la spesa già fatta da loro, acqua esclusa che abbiamo comprato noi).I primi due giorni abbiamo dormito in mezzo al “nulla”, in realtà al “tutto” dell’infinito cielo e dell’infinita terra. E’ una sensazione strana girarsi di 360 gradi e non avere punti di riferimento, è come essere in mezzo al mare. Personalmente preferisco la terra, perciò questo paesaggio mi dava serenità e non ansia. D’altro canto è pur vero che si scopre la tendenza a “cercare la vita”, così, appena vedevo degli essere viventi in lontananza, (cavalli nella maggior parte dei casi) la tendenza era subito quella di raggiungerli. Cavalli, caprette, cammelli… lucertole! Qualunque forma di vita diventa estremamente interessante e non ti fa sentire solo. In fondo in fondo… siamo esseri sociali!I cieli sono indescrivibili. Per fortuna ora c’è la fotografia digitale perché in ogni momento il cielo cambia ed ogni volta è da immortalare.Non essendoci barriere, si gode lo spettacolo del tramonto finché il sole non sparisce dietro la terra.In questo paesaggio ci montavamo la tenda e dormivamo (freschino la notte, insostenibile stare nella tenda poco dopo che il sole sorge).Durante il viaggio, capitava che l’autista si fermasse vicino a delle ger per chiedere informazioni sulla strada migliore da seguire; in quelle occasioni spesso venivamo invitati ad entrare anche noi e ci veniva offerto del te accompagnato con del pane (duro come un grissino). Peccato non capire una sola parola di quello che si dicevano!L’ospitalità è sicuramente uno degli aspetti più positivi del viaggio; l’ultima settimana, che eravamo in zone un po’ più abitate, appena montavamo la tenda, spuntava qualcuno a cavallo o in moto, si sedeva lì con noi, si beveva la vodka e si giocava a scacchi… forse questa è una delle immagini più belle che ho quando penso a questo viaggio.Anche senza capirci con le parole, si stava benissimo insieme.Durante il viaggio, per fare benzina e per riempire la tanica d’acqua, ci fermavamo in alcuni villaggi assurdi. Certi paesi sono formati solo da piccole stradine di fango con casette di legno ai bordi, il benzinaio (la pompa a manovella è stata uno spettacolo!) e il pozzo per l’acqua.Altri invece sono cittadine in cui ci fermavamo a fare un po’ di spesa e la doccia nei bagni pubblici (orrendi come edifici ma puliti).Per la costruzione edile non sono proprio portati! Non so se utilizzino materiali scadenti o se il freddo invernale spacchi tutto, però è incredibile il livello di devastazione di case, strade, cortili… pezzi di cemento sparsi ovunque, edifici fatiscenti costruiti solo pochi anni prima. Ma poi basta allontanarsi di pochi km e si torna ad essere immersi nella natura, tra gli animali e le bellissime ger, e forse è proprio questa lo loro dimensione.Le zone di Bajanzag, della foresta di “saxual”, del cimitero dei dinosauri sono molto suggestive, iniziano ad esserci alcune strutture per ospitare i turisti; a volte venivamo raggiunti da furgoncini pieni di gruppi di coreani che fotografavano tutto e tutti (anche il mio fidanzato!) e snaturavano un po’ l’ambiente! Egoisticamente, mi auguro che le strade e i mezzi di trasporto mongoli restino così spartani ancora a lungo perché, appena le strade di cemento permetteranno di raggiungere in poco tempo e agevolmente certe zone, sarà la fine della Mongolia per lo meno di questa Mongolia in cui, per fare 100 km ci metti un intero giorno. Però poi arrivi in un luogo dove sei circondato da animali liberi, da aquile che scendono in picchiata per venire a mangiare i resti del pesce che hai appena pescato al fiume.La sensazione di svegliarsi in mezzo a paesaggi simili non è facile da descrivere, come non è facile provare ad immaginare che cosa dovevano essere le zone dei templi, di cui ora restano poche pietre sparse e altrettanti pochi oggetti conservati in improvvisati musei. Bisogna fare davvero un grande sforzo per immaginare la valle in cui scorre l’Ongi ricoperta di monasteri ormai perduti per sempre.Alcuni italiani incontrati durante il viaggio mi hanno parlato di un monastero a nord, Amarbayasgalant, conservato, a detta loro, ancora meglio dell’Erdene Zoo.Durante il Naadam ho rincontrato tutti i viaggiatori incrociati durante il percorso.E’ stato bello scambiarci informazioni e commenti sulle esperienze appena vissute.Molti hanno organizzato direttamente il viaggio a Ulaan Baatar, dividendo le spese del mezzo e dell’autista con altri viaggiatori conosciuti sul posto.Sono ancora molti i luoghi che voglio visitare di questa immensa Mongolia… perciò tornerò!Giorgia Rochas (agosto 2004)
"Un giorno ero completamente sola con il cavallo e la sua sella mongola di legno e galoppando tra monti e laghi pensavo tra le lacrime di emozione: peccato che non ci sia nessuno per vedermi. Se muoio adesso, picchiando la testa sulle rocce, non sapranno mai che ero felice".