I lottatori del “Garuda” di Karakhorin
“Se hai paura non farlo, se lo fai non aver paura”, così recita un vecchissimo proverbio mongolo. Avrei voluto esserci con tutte le mie forze, avrei voluto ricordare la mia spavalda gioventù, avrei voluto immergermi in quella danza, ansimare sudare con loro: i lottatori delle aquile. Ma ho avuto paura! Forse è meglio così e accontentarsi della saggezza di quel proverbio. Allora mi consolo cercando di descrivere ciò che ho visto o meglio ciò che ho sentito, vissuto a Kharakhorin durante quel piccolo Naadam meno imponente di quello di Ulaan Baatar ma sicuramente più vero.
Descrivere tecnicamente la gara tra i lottatori mongoli sarebbe molto semplice. Due punti di presa (dietro le spalle o in vita) come leva e basta far cadere l'avversario in qualunque modo su un area libera e non definita (i lottatori possono girovagare per tutto il campo). Se i lottatori impiegano troppo tempo (pur non avendo alcun limite) i loro assistenti gli fanno tirare a sorte e quello che vince ha la presa migliore (sempre nel punto più basso della vita). Ma la cosa più bella ed interessante di questa lotta è la perfetta simbiosi con l'ambiente e il paese in cui si svolge. Credo sia anche un omaggio all'uccello simbolo, “il Garuda” (cavalcatura sacra della dea Visnù).
Sono convinto che le decine di aquile che dall'alto sovrastano il campo di gara in un incessante volteggio fanno parte profonda di quella lotta e di quel rito.
Il rito d'inizio
La gara in realtà inizia con la vestizione e l'aiuto che ogni lottatore ha da parte del suo assistente detto Zusuul (che necessariamente deve far parte della propria tribù o famiglia). Ad esso consegna gli abiti ed egli intonerà i canti in caso di vittoria. I lottatori che si fronteggiano prima della gara vestiti negli abiti tradizionali, compiono un rito particolare che nelle lotte moderne è scomparso.
A braccia aperte volgono la testa al cielo e poi si danno delle pacche all'interno delle cosce e sul sedere (molto simile alla danza maori, ma assai diversa nel significato; i maori la fanno per intimorire i mongoli la fanno come segno di virilità), avanzano e si avvicinano agli assistenti di gara (sicuramente ex lottatori), con la mano destra toccano la spalla sinistra dell'assistente, si girano di nuovo inchinandosi leggermente a quel punto l'assistente, diventa arbitro e giudice toglie il tradizionale cappello a punta del lottatore e lo terrà in mano tutto il tempo del combattimento. Anche in questi gesti c'è grande devozione a valori fondanti. E' davvero straordinario vivere un combattimento che ha pochissime regole, direi quasi nessuna, un rito di devozione alla lealtà, al rispetto del giudice. Una ragione forse c'è: quella lotta, come tutto il Naadam è coperto da un velo di sacralità.
I corpi
Questa credo sia l'unica lotta che conosco dove il peso non conta nulla. In tutti gli sport dalla lotta libera o greco romana, al sumo, alla boxe dove il contatto fisico è estremo il peso conta moltissimo. Qui possiamo vedere lottatori da oltre 130-150 kg che combattono con altri di 70 kg e non sempre chi ha il peso maggiore vince, conta l'astuzia, l'abilità, la velocità, spesso la stanchezza.
L'altro elemento che mi ha colpito sono i loro corpi. Non sono corpi costruiti in palestra, non sono modellati dalla preparazione. Sono scolpiti da ciò che è la Mongolia, un ambiente difficile ma nel quale queste genti hanno saputo trovare la loro dimensione. Il vento, il sole, il freddo, il cibo che gli animali forniscono grazie all'ambiente immenso e ai pascoli infiniti. Sono uomini liberi, lottatori allo stato brado come le mandrie che abbiamo incontrato nel nostro viaggio.
L'abbigliamento dei lottatori
Non si può descrivere il combattimento senza parlare prima dell'abbigliamento dei lottatori che ha ragioni pratiche. Infatti dall'abbigliamento dipendono le prese di forza per rovesciare l'avversario.
Sono pochissimi gli sport soprattutto di lotta, dove l'abbigliamento di gara è fondamentale per la vittoria. Solo in alcuni sport orientali come il sumo o pochi altri esistono.
Lo Zodog ( tunica corta) che lascia nudo il torace e copre solo le braccia e una parte della schiena, allacciato sulla pancia con un nodo (non deve stringere troppo e non deve cedere facilmente). Prima si fa il nodo sulla pancia e poi si infilano le braccia dentro la tunica che deve rimanere molto tesa.
Essa costituisce una delle due prese possibili per l'avversario. La ragione di questa tunica a torace nudo è che in un tempo molto lontano pare abbia vinto il titolo di Leone una donna e per questo da allora la lotta è riservata solo agli uomini e la tunica deve essere aperta sul davanti.
Lo Shuudag (mutande) sono pantaloncini a forma di mutanda nel quale ai bordi passano corde resistenti. Questa costituisce la seconda possibilità di presa dell'avversario. La più difficile da raggiungere , ma la più favorevole. Se si afferra la mutanda sulla parte della coscia è probabilissima la vittoria perché è più facile sbilanciare l'avversario e atterrarlo.
I Gutul (stivali di cuoio) sono stivali di pregio per i quali non esiste differenza tra destra e sinistra, sono facili da infilare e hanno la punta all'insù (per motivi religiosi... così si uccidono meno insetti).
Il combattimento
I lottatori si fronteggiano e la prima cosa che tentano è quella di conquistare la presa migliore, quella più bassa. Ma è la cosa più difficile perché è la più lontana. In questa lotta contano molto le braccia. Sono le principali leve che i contendenti usano per tenere l'avversario a distanza e soprattutto per sbilanciarlo. Occorre moltissima forza e astuzia. Passare dalla presa dell'ascella, alla cinta o alla coscia richiede molta rapidità! Anche la testa serve a tenere lontano l'avversario. Quando sono in questa fase il combattimento può durare pochissimo o moltissimo tutto dipende dalla velocità o dalla resistenza di ognuno e credo molto dipenda anche dal peso dell'avversario.
I piedi servono ad agganciare l'avversario e a sbilanciarlo, ma ho visto pochissimi casi concludersi per questo tipo di aggancio. Altra parte importante in questa lotta è la forza ed elasticità della schiena. Se le braccia sono le leve la schiena è il fulcro sul quale agiscono le leve. Per questo deve essere potente, elastica (sopportare gli scatti, gli strattoni violenti, innalzare l'avversario). La parte finale dura pochissimi secondi, avvenuto lo sbilanciamento avviene l'atterramento. Basta toccare con qualunque parte del corpo terra che il lottatore è battuto.
La vittoria dell'armonia
Il vincitore corre al centro del campo di gara e compie una magnifica danza che io chiamo la danza dell'aquila. Simulando il volo del “Garuda” prima si sposta a destra, poi a sinistra, volteggia a braccia aperte intorno al simbolo posto nel campo di gara. Non sono come i nostri campioni moderni. I lottatori mongoli di fronte a uno sport cruento, durissimo, non si esprimono con rabbia o l'esultanza sull'avversario. Il contrario: scaricano la tensione del combattimento con una danza che è armonia e serenità.
Poi si recano dall'”anziano del villaggio” a prendere il premio (una scodella di latte di giumenta e un pezzo di formaggio). Solo questi gesti o riti ci dicono quanto siano diversi dal mondo a noi conosciuto. Nella loro olimpiade i premi non sono né i soldi né gli sponsor, ma sono ciò che gli permette di vivere. Gli alimenti simbolo della Mongolia.
Ma la cosa che mi ha colpito ancora di più è il gesto che compie il vincitore verso il lottatore battuto. Egli passa la mano sopra la testa dell'avversario battuto, scende con la mano lungo la schiena e gli tocca il sedere. Contemporaneamente il concorrente battuto quasi abbraccia la vita del vincitore e sfiora i suoi genitali. Quanta dolcezza in quei gesti, quanta lealtà e sportività. Ti ho battuto ma ti accolgo, ho perso ma ti consegno la mia sottomissione sportiva. Non vedo in occidente, nelle olimpiadi moderne gesti di questi tipo se non i formalismi sportivi imposti dagli organizzatori. Per questo invidio la loro serenità, la loro libertà, la loro semplicità. Ed è per questo che tornato in Italia, in occidente, alla modernità sto male, perché sono in realtà meno libero e meno vero!
Queste sono alcune sensazioni che ho provato in quel viaggio bellissimo fatto in Mongolia.
Un viaggio non solo di luoghi, di paesaggi infiniti ma nell'intimo, verso pensieri profondi che riguardano tutti noi, la nostra esistenza, la nostra inutile modernità. Penso proprio che tornerò!!!
Ciro Maiocchi