ULAANBAATAR WEATHER

STEFANO LA TORRE

La Mongolia 781 anni dopo Genghiz Khan
Genghiz Khan, va da sè, in Mongolia è dappertutto, spopola, è presente in ogni forma e dimensione. Le idee vengono messe ben in chiaro all’aeroporto di Ulaan Baatar, il Genghiz Khan (appunto) International Airport: mentre si fa la coda al controllo visti si nota subito nella parete in alto un’immagine sontuosa di Genghiz Khan, vuoi perché in quei minuti di attesa prima di arrivare allo sportello non c’è altro da fare che guardarsi intorno, vuoi perché nella sala dell’aeroporto non ci sono altre immagini (una bandiera mongola, se ben ricordo) e quindi alla fine uno rimane a guardare la foto con l’eroe della nazione.
Una della colline che circondano la capitale Ulaan Baatar porta su un suo fianco un enorme ritratto del guerriero mongolo, imponente e visibile da più punti della città.
Genghiz Khan è la Mongolia, la Mongolia è Genghiz Khan. Uno se lo sente dire spesso, lo legge un po’ dappertutto ma ce se ne rendo conto veramente solo dopo aver messo piede in questo splendido paese (sopra, uno scorcio dello Zuunmod, foto di Stefano La Torre)
Ulaan Baatar è brutta come città, decisamente brutta. Parliamo di strade asfaltate male, quartieri e quartieri con blocchi di stampo socialista costruiti negli anni 50 – 60 e ancora presenti un po’ ovunque, erbacce che spuntano qua e là, sporcizia, traffico ben congestionato, parchi che comunicano un senso di abbandono e tristezza. Ebbene io amo Ulaan Baatar proprio per questo!
Ho speso pomeriggi a camminare per le vie del centro seguendo strade polverose che non portavano a nulla costeggiando insegne che dicevano CAFE’, FLASH e MP3. Mi piacciono i palazzi grigi e scuri trapiantati dall’Unione Sovietica che fu, mi piace assai entrare dentro uno di questi compound e vedere il cortile interno in disuso con magari un campo di basket con un canestro solo e la retina ormai sfilacciata che verrà via del tutto con le prossime partite giocate dai ragazzini. E mi piace ancora di più scoprire che questi palazzi brutti fuori rivelano stupendi appartamenti dentro (non ne ho visti molti, anzi, solo due per gentilezza dei miei amici mongoli). Mi piace vedere che l’ufficio dei miei amici, proprio dietro lo state department store, ha un “portoncino di sicurezza” con uno spioncino che altro non e’se non un foro di 20 cm quasi. Nessuna etichetta sulla porta, nessuna indicazione dell’ufficio, non serve: uno sa gia’che quello e’l’ufficio.
Lo State department store è stupendo con le due date 1921 e 2008 (a seconda dell’anno) in alto ai due lati e amo l’annuncio affisso dentro l’ascensore che dice di stare in guardia dagli scippatori, in genere ragazzi adolescenti. Questo fa sì che guardi purtroppo con circospezione e diffidenza quei 3-4 ragazzi che stanno prendendo l’ascensore con me. Lascio sempre documenti e soldi in albergo, con me ho solo pochi tugrik, anche se me li rubano non è una grossa perdita. Questo penso mentre li guardo in ascensore.Non succede niente. E vado a comprarmi il dizionario mongolo–inglese. Sono un ritardatario cronico, i miei amici e la mia ragazza non sopportano questa mia brutta abitudine, ma in Mongolia sono a mio agio. Da popolo della steppa i mongoli sono cresciuti con un concetto del tempo molto diverso dal nostro: vivendo nel deserto e avendo difficoltà a calcolare le distanze enormi che ci sono da un punto a un altro, come puoi dire ”passo nella tua ger alle quattro del pomeriggio?” Uno passerà durante il pomeriggio e basta, che bisogno c’èdi puntualizzare le ore e i minuti nella steppa?
A Ulaan Baatar, la metropoli nel deserto, è lo stesso. Una parvenza di orario - retaggio dello sviluppo? - viene data ma ormai lo so, ci sono abituato, darsi appuntamento per le 10.30 nella hall dell’albergo vuol dire tranquillamente le 11, le 11.30 o anche oltre. Grosso modo sai a che ora arriverò, verso le 10.30, ma questo non vuol dire che sarò lì per quell’ora, è giusto per darti un riferimento temporale. Un po’ come il nomade nella steppa che sa che il suo amico verrà a trovarlo nel pomeriggio, tra il pranzo e la cena.Mi piace, fa per me, i cinesi invece, puntuali come orologi svizzeri, impazzirebbero.
Zaisan, il monumento all’amicizia russo – mongola, bello e di stampo vagamente fascista mi piace per queste sue riproduzioni di persone che si abbracciano, che festeggiano, che calpestano la bandiera del Giappone (mi domando cosa ne pensino i turisti di Tokyo) ma soprattutto per la vista tutt’altro che memorabile su Ulaan Baatar. Schiere di palazzi e fabbriche che si affacciano nella parte sinistra della sfera visiva, il cielo grigio, il colore monotono della città. Neanche da paragonare con i tetti della Città proibita che si vedono dal Parco Jingshan a Pechino, o La Chiesa della Salute che si vede dal ponte dell’Accademia a Venezia.
E allora cosa c’è di bello? C’è il silenzio, compagno di viaggio sempre presente in Mongolia, c’è il venditore di cartoline che canta con la gola, il famoso e stupefacente throat singing, e tu lo ascolti e cerchi di capire come fa a produrre questi suoni fuori dal mondo con tanta naturalezza, tu che sei appoggiato sul parapetto del monumento e lo osservi e ti senti un po’ coglione perché provi ad imitarlo senza successo. Dalla collina Zaisan si capisce che città anomala sia UB: molto estesa da Ovest a Est ma incredibilmente piccola da Nord a Sud. Sei in piazza Sukhbaatar, nel cuore della città ma bastano pochi minuti a piedi in direzione sud per uscirne ed essere oltre la periferia.
Adoro le fermate degli autobus che vedo sulla strada per l’aeroporto: ne avessi visto passare anche solo uno di autobus in tutte queste volte che sono stato in Mongolia, eppure la gente è li che aspetta... e intorno è solo verde, nessuna casa, nessuna abitazione... da dove arrivano queste persone?
L’arco che ti accoglie a UB e’stupendo, lo stemma della città semplicemente bello e complesso.
Adoro il fatto che mentre cammino da solo nessuno mi guarda, nessuno mi saluta con HALLO!, nessuno mi indica con le mani come se fossi un marziano. In Cina mi succede spesso, in Mongolia no.
Mi è piaciuto andare a trovare la mia amica insegnante all’università di Ulaan Baatar (non mi ricordo il nome, in periferia comunque), entrare nella palestra e vedere una partita di pallavolo studentesca in pieno svolgimento. E anche qui, nessuno faceva caso a me. Bello.
Fuori i ragazzi andavano in giro già con le maniche corte, si era a Marzo, estate per loro, mentre io avevo il mio bel cappotto addosso.
Vado in mensa con la mia amica e le sue colleghe e per pranzo ordinano il ciuivan, bel piatto con carne di montone: la mia porzione è la più grande perché in quanto maschio devo mangiare e nutrirmi più di loro (mi dicono). Riesco a malapena a mangiarne metà da quanto è grande la porzione ma sono contento, scambio con la mia amica e le sue colleghe qualche chiacchiera in inglese: non sono per nulla intimidite dall’avere un occidentale di fronte a loro, tutt’altro. Non posso non fare paragoni con la “mia Cina” dove spesso succede che se devo parlare con una ragazza cinese che vedo per la prima volta tutto quello che ottengo sono timidi SI e arrossamenti di faccia.
Sulla Jeep di ritorno dalla steppa, fuori cala la notte, buio pesto e neanche una luce ad illuminare la strada. Dentro l’auto invece l’atmosfera è diversa: uno dei nostri amici ha comprato una bottiglia di vodka da bere in macchina mentre si rientra a UB. Suo zio guida e ovviamente non beve, noialtri sì.
Un bicchiere a testa a rotazione cantando (loro) stupende canzoni in mongolo che forse parlano del legame che i mongoli hanno con la natura, con la loro terra...Chissà perché ma non voglio chiedere la traduzione e ascolto.
E beviamo questa vodka secca, degno proseguimento di quella bevuta qualche ora prima nella ger.
Molti si atteggiano a facili giudici e criticano i mongoli per questa loro “passione” smisurata nel bere alcolici: ma dico io, vivendo nel deserto, senza elettricità, senza svaghi, senza vicini come si passano le serate? Ci si raduna intorno al fuoco, si canta e si beve, magari ci si ubriaca anche. Farei così anch’io e penso anche molti altri che adesso puntano il dito sui mongoli che bevono.
Nel 2008 in Mongolia non si viaggia a cavallo ma in Jeep e non si rientra nella ger ma in appartamento a Ulaan Baatar, cambia la forma ma la sostanza è la stessa. Si è in compagnia, si festeggia l’amico venuto da lontano, gli si offre da bere, si canta insieme... E chissenefrega se c’è gente che critica.
Questo mi piace: con loro si beve e si scherza in modo naturale, si alza decisamente il gomito ma è tutto normale.
Io e il mio collega italiano in quanto ospiti d’onore abbiamo un compito insolito e ingrato: decidere quale capra uccidere per poi mangiarcela arrostita. Siamo in piena campagna, il nostro amico mongolo ha un allevamento con decine di capre: ne vuole fare uccidere una in nostro onore. Le guardi correre, evitarti, saltellare sotto lo sguardo del pastore che ha una faccia stupenda e segnata dal tempo; non importa delle capre - penso io – vorrei andare dal pastore e chiedergli cosa faceva ai tempi di Choybalsan.
Non lo faccio, non è il momento e la capra viene scelta. L’uomo predisposto ad ucciderla è il doppio di noi, gran parte dei mongoli sono il doppio di me e del mio collega che pure piccoli non siamo, e compie il gesto con estrema naturalezza, quasi svogliato direi.
Mi ha colpito vedere i miei amici inorridire anche loro allo spettacolo della capra cui veniva massacrato il cranio; loro, mongoli, popolo della steppa abituati ad uccidere bestie ecc ecc... anche loro non ce l’hanno fatta e si sono voltati dall’altra parte. In questo ho sentito una forte vicinanza con loro, scordiamoci Genghiz Khan che faceva massacrare migliaia di persone, scordiamoci l’esercito mongolo che uccideva indistintamente donne e bambini e non aveva pietà per nessuno, scordiamoci la Storia! Nel ventunesimo secolo i mongoli (non tutti però) si voltano dall’altra parte quando viene uccisa una capra. Come noi. Ci mangiamo per prima cosa il fegato, lo mangio e penso che questo fegato fino a due ore fa era vivo e stava saldamente dentro una pecora che saltellava per la steppa.
Se mi vedessero i miei amici vegetariani dall’Italia...
Siamo in Mongolia per lavoro prima di tutto ma oggi siamo anche turisti e quindi ci viene offerta la possibilità di andare a cavallo. Trotterelliamo sotto la guida di due ragazzini che sono la metà di noi ma che, sono pronto a giurarci, hanno prima imparato ad andare a cavallo e poi a camminare.
Dico in mongolo l’unica frase che so e cioé: ”come ti chiami?”, il ragazzino mi risponde ma vatti a ricordare che nome mi ha detto. Finito il giro a cavallo riprendiamo a mangiare e a bere fino a sera inoltrata. Stiamo decisamente bene, conosciamo questi mongoli da pochi giorni ma è come se li conoscessimo da anni.
Genghiz Khan ci ha accompagnato per tutto il soggiorno: ce lo siamo bevuto (vodka Genghiz Khan), ce lo siamo dormito (hotel Genghiz Khan), nel 2001 me lo ero fumato (le mitiche Genghiz Khan nere, oggi non le vendono piuù, ci ha accolto e ci ha dato l’arrivederci (Aeroporto Genghiz Khan).
Che poi si tratta di un arrivederci a presto, una volta lasciata la Mongolia sto già progettando il prossimo viaggio per ritornarci.

Stefano La Torre