ULAANBAATAR WEATHER

MICHELE ZELIOLI

Ulaagchiin Khar


Si arresta la duna o declina sul fondo, fino al lago.
Nel lago di sabbia scompare l’acqua, nell'orizzonte bruno
muore il cielo, dietro ai monti.
In un attimo è spenta la lingua di fuoco che calpestavi;
il passo arretra, il respiro ancora esita
in cerca d’acqua da bere. Più lontano e dentro
è in marcia un vento diafano, da stamane: sospinge l’imbrunire
verso il lago, a perdita d’occhio fino al monte -
si abbracciano come fratelli. Lentamente
la terra inghiotte i figli suoi, e ne sputa le ossa
o la cenere.
Più lontano e dentro, pascoli verdeggianti di erba
sulla cima sfuggono l’ombra, e scompaiono nella fascia nera
dell’orizzonte: qui originano le stelle. Il canto di un pastore
le destò, veglia sul loro ozio inesausto
con canti d’amore, nel loro diuturno peregrinare
come armenti. Tende bianche e i bivacchi screziano
la collina più a occidente, vicino al punto ove la duna sabbiosa
si fa prato: errano ogni estate, avanzano
tra le steppe lungo i monti, mentre la stella esulta e rosseggia
su un tumulo di rocce e ossi.
Abbiamo circondato il luogo
dell’offerta: non i massi o le rocce nasconderanno i segni
del nostro passaggio. Finalmente offriamo, finalmente adoriamo:
come esuli dal cielo, i figli della terra esultano – il nostro sangue
ribolle, prorompe in grido d’animale.
L’oleosa artemisia è piegata ai nostri piedi, non ci curiamo
di calpestarla; cospargerà nel suo profumo i sogni
dell’agnello, o lo persuaderanno
a dormire altrove.


Khövsgöl


Quel giorno la pineta era libera, allora ci trovammo sulle rocce
del litorale, presso l’ovoo dimesso, e le offerte di cibi, banconote
o caramelle incartate. Tu dicesti che il giro da compiere era in senso
orario, afferrasti la mia mano con la tua, senza guardarmi: era mattina.
I gabbiani non avevano impresso il nostro moto, se ne stavano sonnolenti
sulla scogliera biancazzurra, alcuni fissavano il mare, altri ancora dormivano,
qualcuno sognava la morte bianca. Discendemmo dalla scogliera alta
senza scivolare, un solo passo era franoso, staccammo le mani
per non trascinarci dabbasso insieme, anche se lo volevamo.
Volteggiavamo così, lievi, come quel vento pungente, come fiamma
in punta di fiammifero (ci si consuma un poco alla volta).
La pineta abbracciava il golfo opaco per soffocarlo, puntellando
di larici i declivi montuosi, che sembrano più scuri allontanandosi.
“Vedi quel palco di corna lassù?” Ma era già sparito, al suo posto
oscillavano appena certi bassi arbusti. La calma
era ristabilita continuamente da una folata di vento,
una radice spezzata, o dal lusinghiero canto
di un uccello. Più di una piuma attraversò il nostro sguardo
e avvicinammo circospetti al baluginare degli alti rami
sempreverdi, sulla terra cosparsa d’aghi e sassi.
E mentre ti voltavi dovetti abbracciarti, anche se non eri
lì con me.


Telmen


Era un dio che correva lungo il litorale, o un corvo
impazzito a sortire gli stessi presentimenti? A lungo rimase
immobile, poi sbatté le ali e riprese a piovere. Non tardammo
a chiudere le giacche e aprire gli ombrelli che, per ventura,
erano tutti neri. Le nubi possenti muovevano da est a sud-est, cariche
di marea e fatica, ma il giorno era talmente placido che la pioggia cadeva
leggerissima, come una foschia sottile d’aghi e lacrime.
Il grigio del cielo ricordava l’antracite
ma il blu nel lago era così intenso: potevano avverarsi
i desideri. Sull’acqua indugiava la pioggia, che sgorgava
attraverso i monti. Ancora uccelli: forse cormorani?
Le narici si dibattevano punte dall’aria gelida;
il manto di nebbia fendeva i dorsi del litorale scuro
e limitava la vista del sole e del lago (segretamente avevo espresso
un arcobaleno). Le doglie del cielo erano anche doglie marine
e, sotto il pelo dell’acqua, un re perlustrava il palazzo
da cima a fondo, senza urtarne la superficie. Altre ali sbatterono,
candide, questa volta. In un attimo eravamo avvolti
dalla bruma che esitava sopra il lago e addensava in nugoli perlacei;
ma laggiù, dove la spiaggia breve piegava come una mezzaluna
nella foschia di mezzogiorno e brillavano a sprazzi
alcuni brandelli di costa: lì posarono i cigni esausti,
accorsi nell’ora di convivio. Scivolavano in silenzio sul pelo
dell’acqua, verso la riva deserta, tra pietre carsiche color carne
e sangue. Li osservammo allontanarsi, prima di ripartire.