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Övörkhangai, il vento antico della leggenda

Pronunciare il nome di questa regione, Övörkhangai (significa: a sud della catena montuosa dei Khangai) non procura forti emozioni. Quando però si scorge sulla mappa un certo luogo, ecco che un brivido percorre la schiena: Karakorum, in mongolo Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero più grande della storia, è qui. Anzi, era qui. Non è rimasto molto (giusto qualche tartaruga di pietra) della splendida città descritta con dovizia di dettagli nel XIII secolo dagli “inviati speciali” Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruc e Marco Polo. Ma il fascino evocato da questo luogo è davvero unico. Così come sorprendente è l’Erdene Zuu, il monastero costruito nel 1586 sotto Avtai Khan e solo parzialmente danneggiato dalle purghe sovietiche degli anni Trenta. L’Övörkhangai ha meno abitanti della Valle d’Aosta (circa 110.000) su un territorio venti volte più grande. Il capoluogo è Arvaikheer, a quasi duemila metri di quota e 430 km a ovest della capitale: ospita circa un quarto dell’intera popolazione regionale. C’è anche una vivace missione cattolica che ha creato strutture di svago per i bambini, un centro sociale e una piccola biblioteca. È un buon punto di partenza e ristoro per le mete principali, su tutte Kharkhorin, distante un centinaio di chilometri. La regione offre poi ottime escursioni naturalistiche. La strada da Ulaanbaatar è abbastanza agevole, a volte perfino troppo, con nastri asfaltati che tolgono fascino al paesaggio circostante.

Karakorum (Kharkhorin), memorie di un impero
Siamo nella valle dell’Orkhon, attraversata dalla via della seta e bagnata dai fiumi Orkhon e Kherlen, una regione che è stata in varie epoche luogo elettivo di insediamenti, a cominciare dagli Xiongnu, alias Unni, secondo una convinzione non unanime. Kharkhorin, il nome mongolo, deriverebbe dall’uigurico Har-Horum, pietra lavica nera. Le fondamenta più antiche, uiguriche, risalgono all’VIII secolo. Prima di diventare capitale dell’impero mongolo era dominio dei Khereit, una popolazione che ebbe un ruolo determinante nell’unificazione delle tribù mongole.
Oggi una strada dritta e asfaltata la collega comodamente a Ulaanbaatar: 370 chilometri con lavori eternamente in corso. Finché l’arteria non sarà completata, calcolate almeno 6-7 ore. Si può scegliere anche un mezzo pubblico, da prendere alla stazione dei bus, che impiegherà ancora di più. D’estate sono organizzati inoltre voli interni, destinati soprattutto ai turisti. Non è facile immaginare che qui sorgesse la stupefacente capitale dell’impero più vasto di sempre. Per aiutare la fantasia riportiamo in fondo al paragrafo la testimonianza ammirata di chi l’ha vista coi propri occhi nel massimo splendore. Il fascino che evoca Karakorum è davvero unico. Dapprima base militare e fucina d’armi divenne capitale nel 1220 per decisione di Chinggis Khan e completata sotto il figlio Ögöödei e il nipote Mönkh, reclutando artisti e artigiani da ogni angolo del mondo, con una recinzione di pietre e fango e la costruzione, nel 1235-36, di un enorme “palazzo serenissimo” (tümen amgalant ordon) che non mancava indubbiamente di vivacità, con il pavimento verde, il soffitto rosso, numerosi dipinti alle pareti, colonne decorate in oro e, alla base delle colonne e delle scale, tartarughe scolpite nella pietra.
In realtà Karakorum non fu una capitale nel senso più proprio del termine, cioè città principale e sede del potere, fu fondamentalmente un centro commerciale, religioso (accoglieva 12 forme di buddhismo, due islamiche e una cristiana) e soprattutto culturale, dove l’istruzione era garantita da molteplici scuole. I Khan però, figli devoti del cielo libero e sempiterno, vi soggiornavano raramente. Fu passaggio obbligato per nomadi, mercanti, filosofi e viaggiatori, fino a quando il nuovo sire Khubilai fratello di Mönkh Khan, decise di spostare a Pechino il centro dell’Impero. Appena oltre le rovine dell’antica capitale, frutto di un progetto mongolo-giapponese, è nato nel 2011 il Museo di Karakorum, non molto grande ma allestito con particolare cura e competenza. Assistiti da spiegazioni in lingua inglese (oppure mongola, volendo) e accompagnati da cartine storiche, quadri, modelli tridimensionali in scala ridotta e reperti archeologici, si passeggia in un arco di tempo che va dalla preistoria al grande impero mongolo.
Fa parte del progetto anche la creazione di un “museo aperto”, con scavi archeologici che porteranno alla luce nuove vestigia. Il museo è aperto tutti i giorni dalle 9 alle 18 d’estate, mentre d’inverno è aperto fino alle 17, da lunedì a venerdì. Il costo del biglietto è 5.000 tögrög, che diventano 10.000 se si vogliono fare delle foto e 35.000 per un video. Alla fine del Trecento l’esercito manchu distrusse la città fortificata e, dalle sue rovine, nel 1586 Avtai khan, su consiglio del terzo Dalai Lama, avviò la costruzione del primo grande monastero buddhista della Mongolia: l’Erdene Zuu (cento tesori). Per completarlo ci sono voluti tre secoli, una specie di fabbrica del Duomo nella steppa. Ma alla fine il monastero era uno splendore unico al mondo, edificato senza chiodi, ad incastri.
Già nel 1792 ospitava mille monaci, un centinaio di templi ricchi di cimeli religiosi e oltre 300 gher. A fortificare questo gioiello fu eretta una massiccia muraglia (intatta ancora oggi) di 420 metri per lato, interrotta da 108 stupa. Ma questo a nulla servì contro le distruzioni sovietiche degli anni Trenta del Novecento: i lama furono trucidati, i tesori trafugati e i templi buttati giù dalle ruspe. Tutti tranne i tre templi allineati di Gurvan zuu e alcuni edifici. L’Erdene Zuu fu chiuso e dimenticato fino al 1965, quando il governo comunista lo riaprì come museo storico, utilizzando i reperti sopravvissuti a vandalismo e trafugamenti e, in buona parte, quanto i fedeli avevano salvaguardato a proprio rischio e poi restituito, vietando però qualsiasi rito religioso.
Dal 1991 il monastero è stato ripristinato e ancora oggi il visitatore è avvolto da una sensazione di spiritualità senza confronti, soprattutto quando riesce ad assistere a una funzione religiosa. Di fronte all’ingresso principale si erge il tempio del Dalai Lama, che ricorda la visita di Altan khan al capo spirituale tibetano nel 1675. All’interno si ammirano dei meravigliosi tankha di quell’epoca e una statua di Zanabazar. Dando le spalle a questo tempio, protetto da tre leoni di pietra, si stagliano tre altri templi. A sinistra il Baruun zuu, tempio occidentale, dedicato al Buddha adulto. Contiene la ruota d’oro dell’eternità, graziose statuette del XVII e XVIII secolo e otto simboli di buon auspicio. Al centro c’è il tempio principale, Buddha zuu, che rappresenta il Buddha bambino. Sotto la severa protezione di figure classiche del lamaismo (Sita Mahakala e Sridevi), si ammira la statua del giovane Buddha; senza volersi addentrare nel labirinto del pantheon lamaista, è interessante rilevare la lontana parentela culturale con l’India. Mahakala (Gombo-gür per i mongoli) è il nome di Shiva nella sua forma distruggitrice e Sridevi, sposa di Visnù, è la dea della bellezza e della fortuna. A destra, il Buddha della medicina (Manal) e a sinistra il Buddha della luce infinita (Amitabha). Altre statue dedicate agli dei della luna e del sole, maschere Tsam e opere di Zanabazar. A destra, il Züün zuu, tempio orientale, con la statua di Buddha adolescente. Alla sua destra la scultura di Tsongkhapa, fondatore dell’ordine dei berretti gialli, che fa capo al Dalai Lama. Alla sinistra, la statua di Janraiseg, Buddha della compassione. Tra il tempio del Dalai Lama e i tre templi del Buddha si trovano le tombe di Avtai khan (1554- 1588) e di suo nonno Tüsheet khan, padre di Zanabazar.
Nella parte orientale del cortile, si possono ammirare lo spettacolare stupa d’oro (che in realtà è bianco) costruito nel 1799 per il IV Bogd e, in fondo, il candido tempio tibetano a tre piani, detto Lavrin süm, restaurato negli anni 1969-73 dove ogni mattina vengono svolte le funzioni religiose dai lama. È possibile assistere al rito, ma in perfetto silenzio e senza fotografare o filmare. Nella parte centrale di Erdene Zuu è rimasta l’impronta di una gher a 35 khana (unità reticolate in legno che ne formano il perimetro), alta 15 metri e del diametro di 45 metri, costruita nel 1658 per le riunioni di nobili e Khan. Si chiamava Bat-Ölziit, approssimativamente traducibile in “Fortuna durevole”.
Nell’area a sud, una concavità del terreno ci ricorda dove era stato creato un lago artificiale, alimentato dall’Orkhon. Tra lo stupa d’oro e il tempio tibetano si visita un piccolo museo che contiene oggetti d’arte e strumenti musicali tradizionali. Il biglietto d’ingresso costa 3.500 tögrög, che diventano 5.000 se si vogliono fare fotografie negli interni, 10.000 per usare il flash (se possibile, evitare!) e 15.000 per filmare. Normalmente, al momento dell’acquisto del biglietto, viene assegnata una guida, di solito uno studente, che dà le informazioni essenziali in inglese. Alla fine del tour si può lasciare una piccola offerta per il servizio. Dall’abitato di Kharkhorin, una manciata di baracche da cui cominciano a spuntare delle belle case in legno, con un’agevole passeggiata si può raggiungere una collina dove è collocato un gigantesco monumento a tre lati: ognuno ricostruisce le mappe delle grandi conquiste, rispettivamente degli Unni, dei Mongoli e dei Manchu, il tutto circondato da imponenti stendardi tipici delle campagne belliche di Gengis Khan. (foto 1 e foto 2, di Federico Pistone)

Dune Elsen Tasarkhai
In quest’area confinano tre aimag, Bulgan, Övörkhangai e Töv. Una strada divide le dune in due parti, Mongol Els a sud (da non confondere con le omonime Mongol Els del Gobi Altai, lungo il fiume Zavkhan) e Khögnö Tarniin Els a nord, che prendono il nome dal monte Khögnö Khan e dal fiume Tarna. È un insolito e incantevole luogo di incontro di tre distinte zone geografiche, la foresta, la steppa e il deserto, le cui dune si estendono per 80 km e una larghezza massima di 10 Km. Salici, olmi e cornioli circondano questo deserto bonsai, luogo ideale per chi ha voglia di osservare dei cammelli, senza spingersi fino al Gobi. La stabilità delle dune, dovuta alla vegetazione e alla vicinanza del fiume Tarna, ha cominciato a vacillare a causa dell’eccessivo allevamento e la zona è sotto attento monitoraggio da parte delle autorità. (foto 3, di Federico Pistone)

Monastero Shankhiin khiid
Poco lontano da Khujirt, venti chilometri prima di Kharkhorin, si incontra il delizioso Shankhiin khiid, uno dei monasteri più antichi e storicamente più importanti della Mongolia, primo luogo di un Concilio buddhista; edificato nel 1647 e restaurato nel 1950, dopo le distruzioni sovietiche del 1937 a cui era sopravvissuto solo il Noyon lama, l’edificio principale. Prima di queste devastazioni il complesso era costituito da 20 edifici che potevano ospitare 1.500 monaci. Qui il primo Bogd Zanabazar trascorse la sua infanzia: si possono ammirare un vestito ed un nomyn barintag (preziosa stoffa di seta che avvolge libri non rilegati) che gli appartenevano, oltre a statuette e opere d’arte di sua creazione. Nel 1990 il monastero è stato riaperto ai fedeli e i mongoli hanno festeggiato l’evento edificando uno stupa. Lavori e progetti di ristrutturazione proseguono tuttora, ispirandosi a una mappa originale del monastero. È possibile ancor oggi assistere a cerimonie lamaiste ogni mattina verso le 9. Fatevi aprire il portone dal guardiano che vi chiederà un’offerta libera da destinare a progetti culturali e umanitari e alla manutenzione del complesso. Per gli amanti di arte buddhista sono qui conservati sette mandala Kalachakra. Oltre allo Shankhiin khiid, un altro monastero merita una visita, anche questo a una ventina di chilometri da Khujirt ma in direzione ovest: è il Tövkhön khiid, della stessa epoca, perso tra le foreste. Qui c’è una caverna dove Zanabazar si ritirava a meditare. (foto 4, di Federico Pistone)

Khujirt
Anche questo paesino, quieto e divertente, dove gli yak pascolano placidamente, rappresenta un ottimo punto di appoggio per visitare Kharkhorin, che dista poco più di 50 chilometri (di strada piuttosto impegnativa, però). Intorno a Khujirt (pronuncia, hugirt, con una leggera acca aspirata) ci sono attrattive interessanti da visitare. A cominciare dalle sorgenti calde: una fabbrica aperta nel 1941 lungo le rive del fiume si è col tempo specializzata in cure termali ed è molto frequentata dai mongoli. Vanta fanghi utilizzati per cosmesi e nelle affezioni più varie: reumatismi, osteoporosi, traumi ossei, disturbi del sistema nervoso e circolatorio. Le cure sono affiancate da agopuntura, manipolazioni e uno staff medico attento e preparato. Le acque raggiungono i 55° e la composizione “magica” comprende: bicarbonato, carbonato, sodio, idrogeno e il fascino della campagna allo stato puro. Un campo gher è a disposizione nei pressi delle terme. Intorno si possono visitare antiche tombe rettangolari.

Gli otto laghi Naiman nuur
Siamo fra le province di Bat-Ölzii, nota per i suoi yak, e Uyanga, famosa per la qualità dei legni e la perizia degli artigiani di gher. Sembra che la mano di un gigante abbia frantumato un macigno e ne abbia sparso le briciole dappertutto, in alto, sui dorsali delle montagne ricoperte da foreste di abeti e fin sul fondo delle vallate verdissime. È l’incantevole area di Naiman nuur, gli Otto laghi, un massiccio vecchio di 20.000 anni creato da eruzioni vulcaniche e ora parte della riserva naturale di Khüisiin Naiman nuur. È una preziosa e cospicua riserva di acqua dolce, anch’essa minacciata dai mutamenti climatici e dalle attività antropiche.
Arrivati all’estremità della valle del fiume Khökh Davaa, a una quota di 2.200 m, si apre alla vista il lago più grande, lo Shireet, raggiungibile in jeep seguendo un tortuoso percorso sul crinale della montagna. Gli altri laghi si chiamano Döröö (è il più profondo), Khaya, Khuis (il lago ombelico, dalla piccola isola incastonata proprio al suo centro), Bugat, Khaliut, Bayan-Uul e Mukhar (questi ultimi due a volte segnalati come Shanaa e Baga Shanaga, forse da nomenclature popolari), tutti raggiungibili solo a piedi o a cavallo. Le loro acque fredde e trasparenti e il paesaggio incontaminato rendono la zona perfetta per campeggio, lunghe camminate e giornate di pesca; negli anni 1977-78, forse senza l’adeguata lungimiranza, sono state introdotte due nuove specie di pesci, coregonus migratorius e coregonus peled. Nei boschi circostanti, dove predominano larici e pini siberiani, sono censite 39 specie di uccelli, 18 di mammiferi e numerose specie vegetali, alcune delle quali rare e severamente protette. La riserva di Khüisiin Naiman nuur si trova a 70 chilometri a sud ovest dalle cascate di Orkhon e a 115 dalla città di Arvaikheer, capoluogo dell’aimag. Nonostante le recenti migliorie, la strada che percorre la valle è estremamente sconnessa, oltre a una jeep è indispensabile un autista bravo e affidabile, ed è comunque sconsigliato avventurarsi in caso di pioggia. È possibile organizzare passeggiate a cavallo e pernottare presso famiglie locali, oppure affidarsi ai campi gher più vicini. La riserva è costellata da molti vulcani inattivi uno dei quali, Khan Bayan a nord, è venerato dai mongoli perché avrebbe generato i laghi, dividendo un ramo del fiume Tsagaan Azarga con la sua lava. (foto 5, di Saruul)

Valle Orkhon
Nel 2004 la Valle del fiume Orkhon è stata inclusa dall’Unesco nell’elenco dei siti patrimonio dell’umanità, secondo luogo della Mongolia a godere di tale prestigiosa nomina, dopo il bacino dell’Uvs nuur, proclamato patrimonio universale nel 2003. Fra le motivazioni della scelta di questo sito, l’Unesco scrive: “La Valle dell’Orkhon è un notevole esempio di luogo che illustra diversi passaggi significativi nella storia dell’umanità”. La valle si estende per oltre 1.400 km quadrati, si trova a circa 360 km a est della capitale Ulaanbaatar ed è un paesaggio culturale straordinario che rappresenta oltre due millenni di evoluzione e simbiosi fra le civiltà nomadi, le società dedite alla pastorizia e i loro centri amministrativi e religiosi.
Le vaste praterie sono tuttora impiegate per il pascolo del bestiame. La valle dell’Orkhon è un territorio ricco di testimonianze archeologiche importanti, oltre che di bellezze naturalistiche di straordinaria rilevanza che comprendono montagne, foreste, cascate, praterie, sorgenti d’acqua calda e una valle incantata che gli stessi mongoli chiamano “Paradiso degli allevatori di cavalli”. Meritano senz’altro una capatina le cascate di Ulaan Tsutgalan, conosciute anche come Orkhony Khürkhree, 24 m di altezza e 10 m di larghezza. Sono un luogo amatissimo dai mongoli, l’estate per un pic-nic da sogno e l’inverno per arrampicate su ghiaccio. (foto 6, di Bayar Balgantseren)

Monastero Tövkhön
Immerso nelle montagne del Khangai, in una zona di confine fra Arkhangai e Övörkhangai a 40 Km da Khujirt, sorge il Tövkhön Khiid. Si erige a ridosso del monte Öndör-Ovoot, a un’altitudine di circa 2.000 m, protetto da una parete rocciosa e abbracciato dalle fitte foreste di Shivee. Quando nel 1648 uno Zanabazar adolescente scoprì questo luogo incantevole, un fazzoletto di terra pianeggiante addossato a un muro di roccia e immerso nella natura, decise di farvi costruire un piccolo edificio in pietra. La costruzione fu realizzata nel 1654 e divenne luogo di meditazione e di grande ispirazione; fu in questo luogo che il primo Bogd ideò la scrittura Soyombo, perdurata circa due secoli ad uso dei lama più eruditi e per epigrafi. Il luogo fu abbandonato dopo la morte di Zanabazar e il conflitto fra Khalkh e Oirat del 1688. Restaurato nel Settecento e valorizzato negli anni Novanta, oggi comprende il tempio originale, detto della Creatività, altri tre monasteri, due stupa e un passaggio ad arco. Si raggiunge con una bella camminata di un’ora.

Testo di Federico Pistone e Dulamdorj Tserendulam