L’aimag è rinomato in Mongolia per i suoi cavalli, considerati fra i più veloci, e per i suoi artigiani nella lavorazione dell’argento, eredi di un’antica tradizione. Regione intitolata all’eroe a capo del movimento di liberazione della Mongolia dai cinesi, il cui padre era nato proprio qui. A Sükhbaatar sono dedicati anche il capoluogo dell’aimag Selenghe e la piazza principale di Ulaanbaatar. Questo è un territorio estremo ma dolce, una sterminata distesa di steppa verde, interrotta solo da qualche morbido rilievo e da laghi e corsi d’acqua. Sono davvero pochi i viaggiatori che raggiungono questa zona, che può essere invece una suggestiva alternativa ai consueti itinerari, anche per la cordialità proverbiale dei pochi nomadi che la popolano, meno di sessantamila abitanti, metà dei quali nel capoluogo Baruun-Urt. È una città che ospita quasi esclusivamente famiglie dei minatori che lavorano per le compagnie estrattive della zona. La città è del tutto avulsa dal turismo anche se offre qualche soluzione di alloggio e di cibo, oltre a rappresentare un’oasi (anche per ricaricare le batterie della macchina fotografica) in un territorio completamente selvaggio. Da Ulaanbaatar (a 560 chilometri) c’è un aereo alla settimana per Baruun-Urt, con scalo a Öndörkhaan. Da visitare, oltre al solito museo dell’aimag, c’è il monastero Endenemandal, ricostruito sull’antico edificio distrutto negli anni Trenta, che custodisce alcune reliquie preziose, sfuggite alle falcidie sovietiche. La provincia è ricca di meraviglie geologiche. Ben 220 sono i vulcani estinti (qualche nome? Shiliin Bogd, Zotolkhan, Altan-Ovoo, Ayabadar, Asgat, Senjitiin Öndör, Dösh, Ganga, Tsagaan ovoo). Abbondano le sorgenti (venti in tutto, tra cui Dalai bulag, Arnuur, Talbulag, Dashin e Ereen tolgoi), anche se i turisti preferiscono bearsi dei laghi di Ganga nuur, Duut e Dösh. L’incanto albicocca dei deserti di sabbia si apre nella zona meridionale dell’aimag, movimentato sensualmente dalle dune di Moltsog (estese per 248 kmq), Ongon (128 kmq) e Süüj.
Dariganga
È la meta più sorridente di questa regione, grazie al villaggio intimo e allegro, agli incantevoli paesaggi con laghi e montagne sacre e ai siti archeologici. Il toponimo è nato dai nomi del monte Dari e del lago Ganga. Nella pianura di Dariganga si incontrano e si confondono le sabbie del Gobi e l’erba della steppa. A nord della città si erge un antico vulcano estinto, considerato sacro dai mongoli, dove sorge il frequentato Altan ovoo. Lo stupa nei pressi, ricostruito nel 1990 dopo la distruzione sovietica dell’originale del 1820, è proibito alle donne. Intorno si trovano resti di antiche rocce funerarie (balbal) infrante, dalle oscure origini. Tradizione locale vuole che al balbal siano fatte offerte, inserendole nel calice che regge nella mano sinistra. Se il genere vi appassiona, al confine nord della città si stagliano tre balbal, detti “il re, la regina e il principe”.
Si può dedicare una giornata per arrampicarsi in vetta e godere della splendida vista sulle valli. Impressionante, a sud di Dariganga, il paesaggio che circonda il Ganga nuur, fatto di rocce scolpite dal vento. Le acque del lago, situato ad appena tredici chilometri dalla città, sono fresche e limpide, l’ideale per una ripulita da tanta sabbia e polvere. Sono alimentate da 21 sorgenti la più importante delle quali è Dagshin Orghikh, 50 metri a nord-est quasi accanto al lago, un’acqua freddissima e squisita che sorge come per incanto dalla sabbia. Tra l’inizio del mese di agosto e la fine di ottobre, il lago è rallegrato dalla presenza di migliaia di uccelli migratori, soprattutto cigni. Purtroppo l’equilibrio del lago inizia a vacillare per motivi ancora non valutati con precisione, quali le attività antropiche e i mutamenti climatici. Qualunque siano le ragioni, il livello del lago si sta abbassando e i cigni diminuendo. Il Ganga nuur è anche riserva naturale, estesa per quasi trentamila ettari, e ricca di altri sei laghi. Di questi, il Kholboo e lo Tsagaan si prestano a fresche nuotate. Una breve disgressione etimologica: il termine “Ganga” deriverebbe, secondo una leggenda, dal fiume Gange (ovvero Ganga, in diverse lingue dell’India), perché un monaco avrebbe trasportato e versato nella sabbia un po’ delle sue acque sacre, facendo nascere sorgenti e lago; secondo un’ipotesi più profana deriverebbe invece dal verso dei cigni che appunto in mongolo viene espresso dal verbo onomatopeico “ganganakh”. A otto chilometri da Ganga nuur, lungo la strada per Shiliin Bogd, date un’occhiata alla statua che sembra guardare verso il confine cinese.
La scultura è nuova e non particolarmente incantevole, ma è dedicata a un simpatico eroe locale, Toroi-Bandi. Era una sorta di Robin Hood della Mongolia, rubava i preziosi stalloni dei governanti manchu della città e li nascondeva nei pressi di Shiliin Bogd uul. Il fatto che la statua di Toroi adocchi maliziosamente verso la Cina è un’ulteriore testimonianza dell’arguzia inesauribile del popolo mongolo (e anche di certe tensioni etniche…). Al confine sud-est della città si possono ammirare le rovine del monastero di Ovoon khiid. Costruito nel 1820, ospitava seicento monaci, poi le fiamme lo hanno incenerito. Oggi sullo stesso sito è stato costruito un altro edificio che ospita solo sei religiosi.
Monte Shiliin Bogd
Lungo il confine della Mongolia interna, sessanta chilometri a est di Dariganga, spunta questa vetta sacra, la più alta della regione (1778 metri). Molte leggende sono legate allo Shiliin Bogd, che darebbe forza straordinaria a chi lo riesce a scalare (solo uomini, però: l’ascesa è strettamente proibita alle donne). In verità, più che di una montagna si tratta di un vulcano estinto in epoca antica, uno dei numerosi presenti in questa zona. In cima si può ammirare un cratere di due chilometri di diametro e profondo circa 300 metri. L’alba vista da quassù spezza il cuore tanto è bella, la più suggestiva di tutte le albe della Mongolia (già eccezionali di loro). Però attenzione: per scalare la montagna, considerata per metà cinese, occorre un permesso rilasciato dalla polizia di Baruun-Urt. Una quindicina di chilometri a nord, vale la pena visitare Talyn agui, una caverna di basalto lunga 240 metri, coperta di ghiaccio anche in agosto e ricca di suggestive stalagmiti che formano un caleidoscopio di colori. Si possono visitare le sue sette camere anche da soli, ma occorrono due cose: una torcia e molta attenzione.
Khörghiin Khöndii (Valle dei ritratti)
Quaranta chilometri a nord-est di Dariganga, ci si imbatte nella Khörghiin Khöndii, una valle popolata da una dozzina di antiche statue (erette qui ben prima del grande Chinggis). Alcune sembrerebbero delle donne nude, con scarpe e cappello.
La loro funzione e perfino il loro sesso fa accapigliare gli studiosi: per alcuni infatti si tratta di ritratti in pietra di boriosi notabili della regione. Secondo altri, si tratta di statue commemorative, costruite per ricordare le tante donne morte di crepacuore. Pare infatti che le ragazze scontente del matrimonio preferissero gettarsi in un crepaccio, piuttosto che dividere la gher con un uomo che non amavano. Forse anche per questo alle signore è proibito salire sulle montagne. Notabili influenti o infelici Bovary, le statue sono però ben mimetizzate nel paesaggio, ed è meglio farsi aiutare dal driver per vederle tutte. A due chilometri si può fare una sosta per ammirare il bel canyon Bichigtiin Shakhaa.