NASCITA DELLA MONGOLIA
1200 a.C. Prime testimonianze della presenza degli Xiongnu (Unni) sul territorio mongolo. Comincia l'espansione fino ai territori cinesi che durerà più di un millennio.
220 d.C. Gli Unni vengono respinti fino all’Altai.
445 Attila (foto 1) unifica le popolazioni della steppa, diventa re degli Unni e avvia la conquista sistematica delle terre occidentali fino all’Europa.
451 Invasione della Gallia, sconfitta ai Campi Catalauni dall’esercito romano.
453 Muore Attila, si sfalda il regno degli Unni.
745 Gli Uiguri scacciano i Turchi dalla Mongolia.
960 Domina la dinastia cinese dei Song.
1034 I territori mongoli passano nelle mani dei Tangut (dinastia Xia).
1115 Invasione degli Jurcen (dinastia Jin).
LA GRANDE ORDA DI GENGIS KHAN
1162 Nasce Temüjin (foto 2) e, di fatto, nasce la Mongolia. Il giovane condottiero riuscirà in pochi anni a trasformare tribù litigiose e sparpagliate nella steppa nell’impero più esteso e potente della storia.
1206 Sulle rive del Khökh nuur, Temüjin viene incoronato imperatore degli oceani, Chinggis Khan.
1207 I Mongoli respingono gli invasori e avviano le prime conquiste della Cina: una grande civiltà millenaria viene piegata in breve tempo grazie all’organizzazione, al coraggio e alla determinazione di un esercito straordinario.
1221 Chinggis Khan si rivolge a Occidente e conquista Samarcanda.
1223 L’esercito mongolo sconfigge Russi e Bulgari.
1227 Morte di Chinggis Khan: è sepolto in una località sconosciuta del Khentii, insieme a guerrieri, donne, cavalli e a un tesoro immenso che, come richiesto dal condottiero, non è mai stato scoperto.
1229 Ögödei (foto 3), terzogenito di Chinggis Khan, è eletto Gran Khan e l’impero mongolo si espande ulteriormente, grazie anche all’acume strategico del generale Sübedei, già braccio destro di Temüjin.
1231 I Mongoli sottomettono la Corea.
1235 Inizia la costruzione della nuova capitale Karakorum, già concepita da Chinggis Khan.
1241 Muore Ögödei. Sconfitti Polacchi e Tedeschi.
1246 Guyuk, primogenito di Ögödei, è nominato Gran Khan.
1248 Muore Güyüg, la moglie Oghul assume il comando.
1251 Mönkh, primogenito del figlio minore di Chinggis Khan, è eletto Gran Khan.
1252 I Mongoli invadono la Persia.
L'OCCIDENTE INCONTRA I MONGOLI
1253 Il francescano Guglielmo da Rubruc, inviato dal Papa Innocenzo IV, arriva a Karakorum. Da questo viaggio nascerà la “Historia Mongalorum”, prima testimonianza occidentale scritta sull’impero mongolo.
1256 I Mongoli continuano l’espansione a Oriente: invadono l’attuale Vietnam.
1257 Conquistano Bagdad. Muore Mönkh.
1260 Khubilai è il nuovo Gran Khan e fonda la dinastia Yuan.
1267 Khubilai sposta la capitale dell’impero mongolo a Pechino (Zhongdu), si circonda di ricchezze, costruisce palazzi, favorisce le arti, le scienze e la filosofia. La cultura nomade dei Mongoli viene gradualmente oscurata da quella sedentaria dei Cinesi.
1274 Parte l'invasione del Giappone, anche se gli sciamani ne hanno annunciato il fallimento: due uragani di forza straordinaria ricacciano i mongoli che, per la prima volta, non portano a termine una conquista.
1275 Marco Polo incontra Khubilai e riferirà del suo viaggio nel Milione.
1277 I Mongoli invadono la Birmania.
1288 Conquistata parte dell’India.
1294 Muore Khubilai. Seguono tre secoli di successioni sanguinose che indeboliranno fatalmente l’impero mongolo, fagocitato dalle varie dinastie cinesi.
1368 Nel Sud dell’impero mongolo viene fondata la dinastia Ming.
1418 Si ristabilisce la pace tra Mongoli occidentali e orientali.
1578 Avtai Khan incontra il capo della scuola tibetana e lo proclama Dalai Lama.
1579 I Khan si convertono al buddhismo.
1586 Muore Avtai Khan, dopo avere fondato il monastero di Erdene Zuu nei pressi dell’antica capitale Karakorum.
1616 In Manciuria Nurkhachi si autoproclama Gran Khan dei Manchu.
1619 I Manchu sconfiggono l’esercito dei Ming.
1624 Sottomettono anche i Mongoli orientali.
1635 Nasce Zanabazar (foto 4), futuro Bogd Khan, artista e capo del buddhismo mongolo.
1687 Il Khan degli Zün gar attacca i Mongoli e distrugge il monastero di Gandan.
1691 I Mongoli chiedono aiuto ai Manchu e si sottomettono a loro.
1697 Gli Zün gar vengono sconfitti dai Manchu.
LA LIBERAZIONE DAI CINESI
1837 Ricostruzione del monastero di Gandan a Urga (l'attuale Ulaanbaatar).
1904 Il 13° Dalai Lama è costretto a fuggire da Lhasa e si rifugia a Urga.
1905 Il 23 luglio uno dei terremoti più potenti mai registrato (8,7 della scala Richter) colpisce le regioni settentrionali di Uvs, Zavkhan e Khövsgöl lasciando una cicatrice di 400 chilometri, larga 10 metri e profonda 60.
1906 Comincia la ribellione della popolazione mongola agli occupanti manchu.
1907 Il giornalista Luigi Barzini attraversa la Mongolia durante il raid automobilistico Pechino-Parigi a bordo dell’Itala.
1910 Il governatore manchu è costretto a fuggire da Urga.
1911 Il 28 dicembre la Mongolia dichiara l’indipendenza sotto la guida del Bogd Khan, ottavo Buddha vivente che instaura la monarchia con un governo di cinque ministri.
1915 A Kyatha, sul confine tra Russia e Mongolia, viene siglato un accordo fra Cinesi e Russi che stabiliscono i confini mongoli: la Mongolia Interna diventa una regione cinese mentre la Mongolia Esterna può godere di una apparente autonomia, ma con una diretta influenza sia da Mosca che da Pechino.
1916 Violente lotte interne cinesi portano a un cambio di potere. Il nuovo governo non riconosce più l’autonomia della Mongolia Esterna e l’autorità del Bogd Khan. I Cinesi tornano a invadere il Paese.
1917 Durante la rivoluzione bolscevica, delegati del Partito mongolo del Popolo si recano in Russia a chiedere un sostegno ai sovietici, ma la risposta è negativa. Il barone austriaco Ungern-Sternberg, generale antibolscevico, organizza un esercito, scaccia i Cinesi e dichiara l’autonomia mongola, millantando una discendenza da Chinggis Khan. Verrà poi catturato e giustiziato.
1919 La Cina invade di nuovo la Mongolia, l’Unione Sovietica non interviene.
1920 Lenin accetta di parlare con una delegazione di rivoluzionari mongoli, promettendo un intervento anticinese.
LA RIVOLUZIONE E LA REPUBBLICA
1921 In luglio le truppe sovietiche entrano a Urga insieme all’esercito rivoluzionario mongolo, guidato da Sükhbaatar (foto 5), soprannominato “l’eroe rosso” (Ulaan Baatar). È istituito il Governo Popolare della Mongolia che ha a capo, senza però poteri effettivi, il Bogd Khan. È costituito il Partito popolare rivoluzionario mongolo (il PRPM). Choibalsan, futuro dittatore filostalinista, diventa ministro della guerra. Sükhbaatar muore due anni dopo in circostanze misteriose.
1924 Il 26 novembre nasce la Repubblica popolare della Mongolia. Muore il Bogd Khan. Viene convocata la prima seduta del Parlamento (l’Ikh Khural, letteralmente “grande riunione”). Urga è ribattezzata Ulaanbaatar, in onore di Sükhbaatar. Muore Lenin, la Mongolia si affranca dall’influenza bolscevica, almeno fino alla presa del potere di Stalin.
1925 Entra in vigore il tögrög, la moneta ufficiale della Mongolia.
1926 L'URSS tolglie il potere alle autorità religiose mongole.
1928 Comincia l’era di Stalin e delle purghe sovietiche. Durante il settimo Congresso del Partito rivoluzionario del popolo, i rappresentanti mongoli chiedono una maggiore autonomia da Mosca e una polizia indipendente. La risposta dei delegati del Comintern è un colpo di stato e il ritorno al terrore.
1929 Sul modello sovietico, i beni delle classi più ricchE e dei proprietari terrieri vengono confiscati e ridistribuiti ai pastori. In pochi giorni i soldati dell’Armata rossa requisiscono beni per oltre 10 milioni di tögrög (una pecora all’epoca vale 50 tögrög). I monasteri vengono spogliati di tutti i tesori, che finiscono in Russia.
1932 I Mongoli sono esausti. A migliaia si armano di sassi e bastoni e cercano di opporsi al governo filosovietico, improvvisando tumulti nella capitale e in altri capoluoghi. Una sorta di guerra civile dall’esito prevedibile: incalcolabile il numero degli arresti e delle esecuzioni. Trentamila Mongoli fuggono all’estero.
1933 Nonostante la situazione drammatica, in Mongolia partono le prime trasmissioni radiofoniche che si rivelano soprattutto un veicolo di propaganda sovietica.
1936 Choibalsan (foto 6), un monaco mancato, protagonista della marcia del 1921 al fianco di Sükhbaatar, instaura un potere assoluto sullo stampo di Stalin, a cui giura fedeltà assoluta.
LA REPRESSIONE STALINISTA
1937 Stalin ordina la repressione sistematica su tutto il territorio mongolo: in meno di due anni sono trucidate trentamila persone (circa il 20% della popolazione maschile totale), più della metà sono monaci. L’esercito abbatte seimila edifici culturali e religiosi, 700 monasteri sono rasi al suolo con i carri armati. Libri, sculture, oggetti sacri preziosi, antichi arazzi buddhisti sono bruciati a milioni. Lo stesso Choibalsan annota sul taccuino personale che gli arrestati in questo periodo sono 56.938, contro una popolazione complessiva di 700mila abitanti.
1939 In pieno conflitto internazionale, il Giappone di Hirohito, alleato di Hitler, sta estendendo il suo impero a tutta l’Asia e minaccia la Mongolia attraverso la Manciuria. L’Unione Sovietica invia le truppe sul confine orientale mongolo. In maggio esplode una guerra spaventosa che durerà cinque mesi e lascerà sul campo 70.000 morti, di cui 237 mongoli. La scongiurata invasione giapponese apre un nuovo scenario di alleanza fra Mongoli e Russi.
1940 Choibalsan è eletto primo ministro.
1941 Viene imposto il nuovo alfabeto cirillico che sostituisce l’antica scrittura uigura.
1942 In piena Seconda Guerra Mondiale viene fondata la prima università mongola. Dalla Russia arrivano molti docenti a insegnare dottrine sociali ed economiche. Dalla Mongolia 50mila giovani vengono accolti a studiare presso le università sovietiche. Nelle scuole mongole la lingua russa diventa la principale materia di studio.
1945 Con la fine del conflitto mondiale, in ottobre la Mongolia indice un referendum per chiedere l’indipendenza del Paese.
1946 Il 6 gennaio la Cina riconosce l’indipendenza della Mongolia. Il 27 novembre anche la Russia ne accetta ufficialmente l’autonomia: Zhou Enlai firma l'accordo davanti a Stalin e Mao Tse Tung (foto 7). Dopo 40 anni di lotta il popolo mongolo è finalmente libero. La Mongolia chiede l’ingresso nelle Nazioni Unite, che viene respinto per il veto della Cina e dei Paesi occidentali.
1952 Muore Choibalsan. Lo sostituisce al governo Tsedenbal, che continua la gestione filosovietica ma con maggiore morbidezza, fino al 1984. Fondamentale anche la figura della moglie russa Filatova, che sarà stretta collaboratrice del leader sovietico Breznev.
1953 Muore Stalin e anche questo evento concorre a ridare respiro alla popolazione mongola.
LA RINASCITA DEL POPOLO MONGOLO
1956 Parte la rivoluzione culturale per restituire dignità e identità a un popolo soggiogato per troppi secoli da potenze straniere. Scatta una capillare opera di alfabetizzazione che raggiunge l’intero territorio, anche le zone più remote popolate dai nomadi. Le malattie veneree, che colpivano la maggior parte dei mongoli, sono debellate con una campagna di prevenzione, vaccinazione e terapia farmacologica. Si aprono fabbriche su tutto il territorio, si costruiscono case, si cominciano a lastricare alcune strade di grande collegamento. Ha inizio la campagna di sedentarizzazione delle popolazioni nomadi: l’obiettivo è di attuare un censimento complessivo e portare i pastori in fabbrica per aumentare la produttività industriale. In zone remote e strategiche nascono dal nulla villaggi, come quello di Tsagaan nuur, a nord della Mongolia. L’etnia Darkhad accetta ilcompromesso e abbandona la vita nomade. Gli Tsaatan (Uomini renna) non si piegano al ricatto del governo e mantengono il loro stile di vita nella taiga. Il braccio di ferro continuerà: nel 1989 l’esercito requisisce mille renne, ma tre anni dopo si arrende al coraggio degli Tsaatan e le restituisce.
1957 Un devastante terremoto analogo a quello del 1905 colpisce il Gobi-Altai
1959 Il governo decide la collettivizzazione delle terre e degli armenti, sulla base del modello sovietico.
1960 I nomadi si ribellano e convergono in massa nella capitale, che nel frattempo ha raggiunto i 100.000 abitanti. La protesta porta a una serie di riforme sociali sia in città che nelle campagne.
1961 La Mongolia entra nell’Onu con il consenso unanime dei Paesi mondiali.
1962 La Mongolia entra nel Comecon, organizzazione economica degli stati comunisti.
1966 Il 27 dicembre si registra la temperatura record di -56° nella regione di Zavkhan.
1967 Al culmine della guerra fredda con l’Unione Sovietica, la Cina assembra truppe al confine con la Mongolia e minaccia l’invasione. Ottantamila uomini dell’Armata rossa entrano in territorio mongolo con carri armati e artiglieria pesante, scongiurando la minaccia cinese. Apre la prima televisione a Ulaanbaatar.
1972 Per sostenere l’economia e la società della Mongolia e per garantirsi la sua fedeltà, l’Unione Sovietica presta al governo di Ulaanbaatar una cifra equivalente a 5 miliardi di euro di oggi. Viene fondata dal nulla la città di Erdenet, 250 chilometri a nordest di Ulaanbaatar, per sfruttare le grandi risorse del sottosuolo: la miniera di rame è la più grande dell’Asia e la quarta del mondo. La popolazione di Erdenet passa dai 4.000 abitanti del 1975 ai quasi centomila di oggi.
1979 Il Dalai Lama visita la Mongolia accolto da centinaia di migliaia di fedeli.
1981 Jugderdemidiin Gürragchaa è il primo cosmonauta mongolo ad andare nello spazio con le spedizioni sovietiche Soyuz 39 e Salyut 6.
1984 Dopo 32 anni, Tsedenbal lascia la guida della Mongolia per motivi di salute. Lo sostituisce Batmönkh che governerà fino al 1990.
LA DEMOCRAZIA E LE LIBERE ELEZIONI
1989 Il crollo del regime sovietico apre una nuova stagione sociale, con la costituzione di una serie di schieramenti politici che si pongono come alternativa allo storico Partito popolare rivoluzionario (PRPM): nascono il Partito democratico, il Partito socialdemocratico e il Partito per lo sviluppo nazionale. Il 9 marzo, a seguito di una massiccia manifestazione in piazza Sükhbaatar, i quadri del Partito popolare rivoluzionario rassegnano le dimissioni. Il parlamento (Ikh khural) viene aperto a tutte le forze politiche. Duecentomila militari russi di stanza in Mongolia tornano in patria.
1990 In Mongolia sono di nuovo autorizzate le cerimonie religiose, proibite da sessant’anni. In estate si va alle prime elezioni democratiche. Il primo presidente mongolo è l’ingegner Punsalmaagiin Ochirbat che resterà al potere fino al 1997. A trionfare è il Partito del popolo rivoluzionario comunista, che conquista il 61,7% dei voti con una partecipazione al voto plebiscitaria. Gli elettori, provenienti a cavallo dalle zone più remote, vengono timbrati su un dito con un pennarello (indelebile per alcuni giorni) per testimoniare l’avvenuta votazione.
1991 Il Parlamento decide di privatizzare le mandrie (22 milioni di capi allora, oggi ce ne sono quasi 35 milioni). Oggi l’80% del bestiame è privatizzato. L’autonomia dall’ex Unione Sovietica porta al tracollo dell’economia mongola: le esportazioni calano del 97 per cento, la produzione industriale del 40%, l’inflazione sale del 120%.
1992 Il 13 gennaio nasce ufficialmente la Repubblica Popolare di Mongolia e viene compilata la prima Costituzione. La denominazione della capitale Ulan Bator viene traslitterata più correttamente in Ulaanbaatar. Il 28 giugno il Partito popolare rivoluzionario si aggiudica 70 seggi su 76 del Parlamento con il 95,2 per cento dei consensi. Le organizzazioni mondiali portano in Mongolia 550 milioni di dollari di assistenza sociale.
1996 Per la prima volta le elezioni sono vinte dall’opposizione del Partito popolare rivoluzionario: democratici e socialdemocratici conquistano 50 dei 76 seggi del Parlamento ma il nuovo Governo si macchierà di scandali e maneggi. I Mongoli dopo nemmeno due anni riammetteranno al potere i comunisti del partito rivoluzionario.
1997 Natsagiin Bagabandi (foto 8), esponente del PRPM, è presidente della Repubblica a 47 anni. Un busto di Chinggis Khan viene eretto nell’ufficio del Governo. Esplode in Asia l’influenza aviaria, ma in Mongolia si registreranno solo pochi casi nel 2003.
1998 Il 2 ottobre Sanjaasurenghiin Zorig (foto 9, con l'altoparlante), leader del Partito democratico e acceso oppositore del PRPM, è trovato morto nel suo appartamento di Ulaanbaatar. Il suo corpo è devastato da colpi di coltello e di ascia. Aveva 36 anni.
1999 Un’ondata eccezionale di gelo uccide milioni di animali, mettendo in ginocchio l’economia del Paese e provocando disperazione e suicidi fra i nomadi. In aprile viene eretta in pieno centro una statua dedicata a Zorig.
LA NUOVA IDENTITA' E LE ALLEANZE INTERNAZIONALI
2000 Le elezioni consegnano al Partito popolare rivoluzionario la quasi totalità dei seggi in Parlamento. Un altro inverno rigidissimo non dà tregua ai pastori. Le Nazioni Unite dichiarano la “catastrofe umanitaria” e la Commissione Europea stanzia 2,5 miliardi di euro per la Mongolia.
2001 Secondo mandato presidenziale per Bagabandi. Viene avviato un programma sistematico contro l’Aids. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, il premier Enkhbayar incontra a New York il Presidente degli Stati Uniti George Bush, che promette aiuti economici in cambio di un’alleanza contro il terrorismo e la disponibilità di attraversare i cieli mongoli per gli aerei passeggeri. Nel frattempo la Russia promette la cancellazione dei debiti della Mongolia che ammontano a 11 miliardi di dollari. Nella foto 10, Putin incontra Enkhbayar.
2002 In ottobre visita a Ulaanbaatar del segretario delle nazioni unite Kofi Annan: la Mongolia diventa uno dei paesi osservatori per garantire la pace nel mondo e per l’equilibrio biologico. Il 4 novembre arriva a Ulaanbaatar il Dalai Lama che ha appena vinto il premio Nobel per la pace: il governo cinese minaccia ritorsioni economiche e militari nei confronti della Mongolia.
2003 L’ennesimo inverno micidiale decima le mandrie. Papa Giovanni Paolo II prepara la visita in Mongolia per agosto, ma le sue condizioni di salute e l’ostracismo russo ne impediscono il viaggio. Il Pontefice se ne rammarica molto e in una lettera scrive: “Mongolia, amata terra”. In compenso, nomina il primo vescovo della Mongolia, padre Venceslao Padilla, da anni responsabile della missione cattolica a Ulaanbaatar. Il mongolo Asashoryu a 22 anni diventa il lottatore di sumo più forte della storia. Uno studio genetico inglese rivela che nel mondo un uomo su 200 oggi discende da Chinggis Khan (Gengis Khan).
2004 Il 27 giugno dalle urne non esce una maggioranza: Tsakhiaghiin Elbegdorj, della coalizione democratica, torna a essere premier, dopo aver ricoperto l’incarico già nel 1998 a 34 anni: il giornalista, formato ad Harvard, guida una coalizione mista con comunisti e socialdemocratici. In luglio il presidente Bagabandi e la moglie vengono ricevuti alla Casa Bianca dove si avviano nuovi piani di collaborazione fra Mongolia e Stati Uniti. “La storia del cammello che piange” (di Luigi Falorni e Byambasuren Davaa) è candidato all’Oscar come miglior film straniero. La polizia “stana” migliaia di bambini di strada nei sotterranei di Ulaanbaatar e li affida a centri di accoglienza e di recupero. Il 14 agosto la Mongolia vince la prima medaglia della storia a un’Olimpiade: è un bronzo di Tsagaanbaatar nel judo. Messner attraversa il deserto del Gobi a piedi: duemila chilometri in un mese: il re degli ottomila rischia di morire disidratato, viene salvato da una pattuglia della polizia mongola.
2005 In aprile anche la Mongolia si ferma per la morte di Papa Giovanni Paolo II: il presidente Bagabandi invia un messaggio di cordoglio al Vaticano. Il leader del Partito popolare rivoluzionario, il 42enne Nambaryn Enkhbayar, è il nuovo presidente della Mongolia con il 53 per cento dei consensi popolari. Enkhbayar, primo ministro dal 2000 al 2004, è laureato all’Istituto di Letteratura a Mosca e ha tradotto preghiere tibetane lamaiste in mongolo. La tiratrice Gündegmaa conquista a Milano il titolo mondiale di pistola; si ripeterà un anno dopo a Roma. Il 23 settembre è inaugurata a Ulaanbaatar la più alta statua dedicata al Buddha, 23 metri. Il 21 novembre per la prima volta un presidente degli Stati Uniti visita la Mongolia. George W. Bush viene accolto dal gelo sia climatico (meno 15 gradi) sia della popolazione (che evidentemente non lo ama).
LA MONGOLIA DI OGGI E DI DOMANI
2006 Con feste sontuose e commossa partecipazione popolare, la Mongolia festeggia gli 800 anni dell’Impero di Chinggis Khan. Nella piazza Sükhbaatar, all’ingresso del Parlamento, viene innalzata una gigantesca struttura dominata da una grande statua del condottiero mongolo attorniato dagli altri Khan Ögödei e Khubilai e dai guerrieri Borchi e Zev. Anche l’aeroporto internazionale di Ulaanbaatar Buyant Ukhaa prende il nome di Chinggis Khan. Intanto si susseguono manifestazioni popolari (Rivoluzione dell’Anemone) per protestare contro la corruzione del governo e i facili appalti concessi a compagnie straniere per lo sfruttamento delle immense miniere mongole. Il premier Elbegdorj è costretto a lasciare l’incarico al comunista Miyegombyn Enkhbold. Il 21 agosto nuova visita del Dalai Lama al monastero di Gandan e ancora minacce cinesi alla Mongolia. In settembre una spedizione archeologica tedesca rinviene in Mongolia la mummia perfettamente conservata di un guerriero scita, completo di armatura, vissuto 2.500 anni fa. In Cina esce “Il totem del lupo”, che diventerà la pubblicazione più venduta dopo il Libretto rosso di Mao: scritto da un dissidente politico, esalta i valori della vita nomade mongola contro la decadenza cinese. Il regista francese Annaux ne girerà anche un film nel 2013, dal titolo “L'ultimo lupo”.
2007 Per la prima volta è eseguito un censimento preciso degli animali uccisi dal freddo: 24 milioni solo nell’inverno 2006/2007. Il presidente Enkhbayar prosegue gli incontri con i Paesi più ricchi del pianeta: a Londra incontra il premier inglese Tony Blair. In luglio si reca in visita ufficiale in Corea del Nord, scatenando la costernazione degli Stati Uniti. Pochi mesi dopo torna la distensione con un banchetto organizzato a Chicago per festeggiare i vent’anni di cooperazione fra Usa e Mongolia. Il 10 luglio l’ex premier Elbegdorj rimane gravemente ferito in un incidente stradale: il Partito democratico, di cui è leader, getta pesanti sospetti sugli oppositori. In estate il campione di sumo Asashoryu è squalificato dalla federazione giapponese per aver disputato una partita di calcio di beneficenza a Ulaanbaatar.
2008 Vengono avviati i lavori per la Tran-Asian Railway, la ferrovia che collegherà la Cina alla Germania, passando dalla Mongolia, e che permetterà alle merci di dimezzare i tempi di trasporto fra Asia ed Europa. Il costo della vita aumenta vertiginosamente: ad aprile raddoppiano i prezzi del pane, del riso, della carne e della benzina, mentre i salari restano immutati e tra i più bassi del mondo. Il 1° luglio, dopo le elezioni che confermano il Partito comunista rivoluzionario (PRPM) alla guida del Paese, una manifestazione organizzata dagli oppositori del Partito Democratico sfocia in un bagno di sangue, con 6 morti e circa ottocento arresti. La pacifica Mongolia è sconvolta da questo avvenimento che però si ricompone presto. Anche perché, poche settimane dopo, gli atleti mongoli conquistano le prime medaglie nella loro storia olimpica e proprio in casa dei “nemici” cinesi: il bilancio è di due ori e due argenti, Ulaanbaatar impazzisce di gioia. In settembre Bayar (PRPM) è confermato premier del Paese. Viene avviato con la Russia un progetto per la costruzione di una centrale nucleare, che resterà solo sulla carta.
2009 In maggio la Mongolia elegge il nuovo presidente della Repubblica. È il democratico Tsakhiagiin Elbegdorj (foto 11), all’opposizione rispetto alla maggioranza parlamentare del PRPM. Papa Benedetto XVI addita la Mongolia come esempio di libertà e tolleranza religiosa. Vengono avviate iniziative sociali e commerciali con l’Italia, anche in vista di Expo 2015 a Milano. A giugno Louis Vuitton annuncia l’apertura del primo negozio di lusso a Ulaanbaatar, a cui seguiranno Armani e altri stilisti. Alla fine di luglio piogge torrenziali devastano il Paese: decine di morti nella capitale e nella regione del Gobi Altai, migliaia gli animali uccisi. In ottobre il Governo dà il via allo sfruttamento di un’immensa miniera di oro e rame nel deserto del Gobi (Oyu Tolgoi), destinata a portare alla Mongolia, oltre che un trauma ambientale, anche una nuova ricchezza. A fine ottobre viene eletto il nuovo premier Batbold Sükhbaatar.
2010 Esplode l’inverno più freddo degli ultimi trent’anni: centinaia di morti fra i nomadi, milioni fra gli animali. Asashoryu, il più grande lottatore della storia del sumo, vince il primo trofeo dell’anno ma a febbraio decide di ritirarsi, esasperato dalle infinite polemiche costruite ad arte dagli “invidiosi” giapponesi, incapaci di accettare che un mongolo domini il loro sport nazionale.
2011 A febbraio la borsa di Ulaanbaatar fa registrare un rialzo senza riscontri nel mondo: +110,55%, conseguenza dello sfruttamento minerario. E secondo Renaissance Capital dal 2013 le dimensioni dell’economia mongola potrebbero addirittura quadruplicare. Una ricchezza che rischia di costare molto in termini ambientali e di “rigetto” economico. In aprile la piazza di Sükhbaatar viene invasa da centinaia di nomadi provenienti da tutto il Paese: vogliono garanzie per il loro futuro.
2012 A gennaio il presidente Elbegdorj annuncia ufficialmente l’abolizione della pena di morte, avvenuta grazie anche all’intercessione della Comunità di Sant’Egidio. A marzo viene aperta l’Ambasciata mongola a Roma. Ad aprile, a due mesi dalle elezioni, viene arrestato l’ex presidente Enkhbayar, leader del partito rivoluzionario. Le accuse: corruzione e frode fiscale. Un lungo sciopero della fame e della sete lo portano a una condizione di salute critica tanto da attirare le attenzioni di Amnesty International e del segretario generale delle Nazioni Unite. Il presidente Elbegdorj rassicura sulla trasparenza della giustizia mongola e sulle cure prestate a Enkhbayar.
2013 La Mongolia viene scelta dall'Onu per ospitare la Giornata dell'Ambiente grazie "ai suoi sforzi verso lo sviluppo di un'economia verde". A giugno 1 milione e 240 mila mongoli (il 66,49% degli aventi diritto) si reca alle urne per le elezioni presidenziali: il democratico Elbegdorj ottiene il 50,23% ed è confermato Presidente della Repubblica. Il film del regista mongolo Byamba Sakhya "Remote control" trionfa al Busan Festival. A novembre un'equipe di archeologi napoletani riviene al largo dell'isola giapponese di Takashima i relitti della flotta di Khubilai Khan, risalente al 1281, affondata da un tifone.
2014 Nasce la Ecobus LLC, prima fabbrica di autoveicoli made in Mongolia: produce autobus ecologici e motori eco-diesel. Diatribe diplomatiche e altri problemi tecnici e politici rallentano drasticamente l'attività mineraria e l'economia mongola ne risente: la valuta perde il 26%. A luglio viene sospeso l'obbligo del visto per i viaggiatori italiani, sarà però reintrodotto dal 1° gennaio 2016 per motivi di sicurezza in occasione dell'Asem, summit Europa-Asia. A novembre si apre una crisi di governo: il premier Altankhuyag viene accusato di avere rallentato lo sviluppo economico del Paese. Al suo posto viene nominato il democratico Saikhanbileg.
2015 Il mongolo Hakuko (foto 12) raccoglie l'eredità di Asashoryu e diventa il lottatore più vincente della storia del sumo. All'Expo Milano primo posto sulla nutrizione al progetto "gruppi di pastori per una gestione sostenibile dei pascoli in Mongolia" realizzato dal Ministero di Industria e Agricoltura mongolo. Il Burkhan Khaldun, la montagna dove sarebbe sepolto Chinggis Khan, diventa Patrimonio dell'Umanità Unesco. A seguito di una campagna per la salvaguardia del tesoro preistorico della Mongolia, l'attore Nicholas Cage restituisce il teschio di dinosauro, trafugato da ignoti dalla Mongolia e battuto all'asta negli Stati Uniti per 230mila dollari.
2016 La Mongolia viene inserita al quinto posto dall'Ethical Destinations Awards, prima tra i Paesi asiatici a condurre una politica “ecosostenibile”. Leonardo Di Caprio trascorre 10 giorni in Mongolia per prepararsi ai tormenti e al freddo glaciale delle riprese del film "Revenant", che vincerà 3 Oscar. Il romano Fabio Lopez accetta la panchina della Nazionale di calcio della Mongolia, mentre il portiere Giacomo Ratto è il primo giocatore italiano a militare nella Premier League mongola. Altri lo seguiranno. Il Parlamento decreta i Monti Tost parco nazionale per proteggere il leopardo delle nevi. A giugno svolta diplomatica storica: il Ministro Paolo Gentiloni, futuro premier, nomina Andrea De Felip primo ambasciatore d'Italia a Ulaanbaatar. La Mongolia va alle elezioni presidenziali: Elbegdorj viene confermato Presidente anche se il suo partito Democratico segna una netta flessione, a vantaggio del Partito Popolare Mongolo (MPP) che ottiene 65 dei 76 seggi del Parlamento. All'Olimpiade di Rio la Mongolia delude con 2 sole medaglie, una d'argento e una di bronzo, e con la clamorosa protesta dei lottatori, privati del podio da una decisione scandalosa, che si spogliano e si inginocchiano davanti ai giudici: "Ci avete rubato la gara, prendetevi anche i vestiti", scatenando l'appoggio e la solidarietà del pubblico del palazzetto e dei social (foto 13). A ottobre l'ambasciatore De Felip celebra la prima unione civile di una coppia italiana all'estero. Il Dalai Lama torna in Mongolia e predica davanti a migliaia di fedeli al monastero di Gandan scatenando, come sempre, l'ira di Pechino.
2017 Il governo mongolo cede ai ricatti cinesi e annuncia che non ospiterà più il Dalai Lama, contraddicendo la propria fede buddhista lamaista. Il Governo annuncia una bancarotta economica. La risposta della popolazione è commovente: cittadini e nomadi donano allo Stato soldi, oro e bestiame per cercare di risollevare l'economia del Paese. Il Time stila una virtuale classifica degli uomini più ricchi di sempre: al comando c'è Chinggis Khan, davanti a Bill Gates. In giugno, a seguito di un progetto umanitario congiunto (a cui collabora anche Aberto Colombo per mongolia.it), una bimba mongola gravemente ustionata viene operata con successo all'ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. In luglio il 54enne democratico Khaltmaa Battulga, uomo d'affari e maestro di arti marziali, è il nuovo Presidente della Mongolia. L'Unione Europea apre una delegazione a Ulaanbaatar. In settembre il Parlamento mongolo rimuove il Primo ministro Erdenebat per “abuso di potere”. Nuovo premier è Ukhnaa Khurelsukh, del Partito popolare, seguace di Putin. Una valanga staccata dall'Otgontenger, il monte più alto della Mongolia (4.021 metri), provoca la morte di 17 alpinisti.
2018 Esce in libreria per Sperling & Kupfer “Il leopardo e lo sciamano” di Federico Pistone, un reportage considerato da Sveva Sagramola “un diario di viaggio che avvince e si legge come un romanzo” che apre scenari e misteri della Mongolia, premiato al concorso di narrativa Sergio Maldini. Il 25 settembre muore il primo vescovo della Mongolia Venceslao Padilla. Il 28 dicembre, sfidando il freddo polare, venticinquemila persone manifestano nella piazza principale di Ulaanbaatar contro la corruzione e i politici. La World Tourism Organization, agenzia delle Nazioni Unite per il turismo, segnala la Mongolia tra le migliori mete del mondo, insieme a Oman e Buthan.
2019 La produzione industriale registra un aumento del 21% grazie alle risorse minerarie che rappresentano l'85% del totale. Con il 95,2% dei voti, il 48enne del Partito popolare Gombojav Zandanshatar viene eletto nuovo presidente del Parlamento. L'Institute for Enomics & Peace indica Mongolia e Filippine come i Paesi più sicuri del continente asiatico. L'esploratrice piemontese Paola Giacomini completa la sua impresa a cavallo dalla Mongolia a Cracovia con la sua “freccia dell'amicizia”.
2020 Parte l'allarme Coronavirus (foto 14). Nonostante la vicinanza con la Cina, dove la pandemia planetaria ha inizio, la Mongolia chiude subito i suoi confini e riesce a contenere le conseguenze del virus come nessun altro Paese al mondo. Il rovescio della medaglia è una crisi economica devastante e l'inibizione dell'ingresso agli stranieri con conseguente danni anche all'industria del turismo. In aprile il missionario piemontese Padre Giorgio Marengo (foto 15) viene nominato nuovo Vescovo della Mongolia, verrà consacrato l'8 agosto nel Santuario della Consolata di Torino, prima del suo ritorno a Ulaanbaatar dove sarà costretto alla quarantena. Un incendio devastante distrugge parzialmente lo State Department Store, riferimento commerciale nel centro di Ulaanbaatar. A giugno il Partito del Popolo stravince le elezioni, conquistando 62 seggi in Parlamento su 76. Vengono segnalati alcuni casi isolati di peste, mentre la Mongolia continua a restare immune dal Covid che però costringe a disputare le competizioni del Naadam "a porte chiuse". A novembre esce in italiano per Tam editore "La leggenda dello sciamano", libro culto in Mongolia di Ayurzana.
2021 In gennaio il premier Ukhnaa si dimette dopo le immagini che immortalano una donna trasportata da una clinica all'altra in vestaglia e pantofole nonostante la temperatura di -25°: “Mi prendo tutta la responsabilità”, ha affermato dimostrando una moralità molto lontana dalla filosofia dei nostri politici. L'11 febbraio si apre l'anno del Toro, ma la Mongolia chiude tutto per il lockdown, nonostante un bilancio straordinario legato al contagio del Covid, con 2 soli morti e un totale di circa duemila contagiati in tutto il periodo della pandemia.
2022 Oltre al dramma del Covid, si aggiunge la guerra in Ucraina da parte della Russia, alleata storica della Mongolia che assume posizioni di prudente neutralità. In agosto il missionario Padre Giorgio Marengo viene nominato Cardinale: è il più giovane dell'intera Chiesa cristiana. Presto diventerà anche Cardinale e sarà lui a ricevere Papa Francesco nella storica visita pastorale tra agosto e settembre 2023 (foto 15)
(testi di Federico Pistone per mongolia.it)
Una fotografia di 80 milioni di anni fa, l’hanno definita. Si sa, sono americani e in qualche modo dovevano spettacolarizzare l’evento. Il Museo di storia naturale di New York ha rilanciato l’interesse planetario per i dinosauri, passione di bimbi e paleontologi, esponendo un gruppo scultoreo di due scheletri avvinghiati in un epico e tragico duello. Da una parte un crudele velociraptor, dall’altra un protoceratops, una specie di muccasauro, mansueto erbivoro che diventa piuttosto nervoso se qualcuno prova ad azzannarlo: prima di finire sbranato è infatti riuscito a sparare con la coda bordate che hanno ferito a morte il predatore. Nel momento catartico della sfida, una frana li ricopre riconsegnandoceli così com’erano, bloccati nello spasmo osseo. La scoperta, straordinaria, avviene nel 1971 nel deserto del Gobi, il più immane scrigno di dinosauri della Terra, grazie alle ottime condizioni di conservazione e all’habitat ideale che ospita per 170 milioni di anni la specie più longeva della storia del mondo (l'homo sapiens esiste da 30 mila anni, una vergogna a confronto). Nel dicembre 2016 una ricerca internazionale delle Nazioni Unite e di Banca Mondiale ha assegnato alla Mongolia il primato mondiale del pianeta per la presenza di scheletri di velociraptor. Nomadi mongoli e cinesi inciampano da secoli nelle ossa e nelle uova di dinosauro, sminuzzandole per ottenere medicine contro ogni male.
Nel 1921 il ricercatore Roy Chapman Andrews, quello che ha ispirato il personaggio di Indiana Jones, parte per la Mongolia convinto di trovare l’alba dell’uomo e invece finisce per scoprire l’altroieri del pianeta: uno sterminato deposito di scheletri e fossili di dinosauri, tra cui un uovo di velociraptor completo di embrione. Da qui l’idea per il film di Spielberg, “Jurassic Park”, basato sull’illusione scientifica di riprodurre per clonazione un bestione antidiluviano. Le spedizioni successive, che proseguono anche oggi sotto la stretta sorveglianza delle autorità mongole, scoperchiano un tesoro impressionante, con migliaia di reperti di ogni epoca e dimensione: da minuscoli roditori, pronipoti delle marmotte che popolano tuttora le steppe mongole, ai mammiferi terrestri più imponenti di sempre (rinoceronti grandi quattro volte un elefante), fino a dinosauri alti 12 metri, lunghi 23 e del peso di 77 mila chili. Nel settembre 2007 la scoperta più sensazionale: i ricercatori del Museo americano di storia naturale, sempre loro, dopo quasi dieci anni di lavoro sui resti fossili del velociraptor mongoliensis rinvenuti nel 1998, concludono che questi dinosauri avevano le piume e sono a tutti gli effetti degli uccelli o, a scelta, gli uccelli che vediamo oggi non sono che dinosauri “modificati” e alleggeriti per il volo. Secondo il capo ricercatore Alan Turner i velociraptor avevano perso la capacità di volare, come oggi gli struzzi, ma altri dinosauri più agili solcavano i cieli del pianeta. Alla stessa conclusione giunge pochi mesi prima una spedizione cinese che, dalle sabbie del Gobi, libera lo scheletro di un uccello-dinosauro risalente a 85 milioni di anni fa. Lo battezzano, con una fantasia da fumetti, gigantoraptor: a 11 anni di vita ha raggiunto i 1.400 chili, e ha il vezzo di “indossare” strisce di piume sotto gli arti superiori. I preziosissimi reperti svelati dal Gobi mongolo popolano le gallerie di tutto il mondo: nel Museo di storia naturale di Ulaanbaatar, quando riuscirete a trovarlo aperto (è in eterna ristrutturazione), è esposta solo qualche briciola di questo patrimonio. Ma c’è l’emozione della macchina del tempo, la magia di poter ammirare questi mostri proprio dove sono vissuti. Le sale del museo di UB, oltre a ossa e uova di dinosauro a profusione, custodiscono due reperti, impressionanti da vedere e di straordinario valore paleontologico: c’è lo scheletro integrale di un tarbosauro alto 12 metri, un tirannosauro asiatico dalla mascella spaventosa, e un più docile ma altrettanto spettacolare saurolophus a becco d’anatra lungo 8 metri. Scoperti nel Gobi a metà degli anni Cinquanta, risalgono al Cretaceo superiore (circa 70 milioni di anni fa) e hanno fornito la prova definitiva che Asia e Nord America nell’antichità erano collegate dalla terraferma: infatti, animali del tutto identici sono stati rinvenuti anche in territorio canadese. La saga dei dinosauri nel deserto del Gobi riserverà sicuramente altri colpi di scena, anche se i misteri più interessanti di queste terre cominciano centinaia di milioni di anni dopo, con l’apparizione di un animale ben più curioso e affascinante: l’uomo.
Il frigorifero della preistoria
Non eravamo presenti personalmente ma diamo per buona l’ipotesi dei paleontologi che fissano a mezzo milione di anni fa, all’alba del Paleolitico, la presenza dell’uomo in Mongolia: tracce di civiltà primitive sono state rinvenute ovunque, dai rilievi dell’Altai al deserto del Gobi, dalle anse dell’Orkhon fino alla regione del Selenghe, a ridosso della Siberia. Ma la scoperta che fa sbattere gli occhi anche ai meno interessati al passato remotissimo risale alla fine di settembre 2007. Il ricercatore svedese Svante Paabo, uno giovane e bravo, dopo minuziosi studi sul campo e in laboratorio, ha deciso che l’uomo di Neandertal, il nostro più vicino progenitore, non si è accontentato di popolare l’Europa come si era sempre pensato, ma ha sconfinato in Asia fino a raggiungere e stanziarsi nelle distese centrasiatiche. Paabo ha analizzato il Dna di un femore di un ominide rinvenuto negli anni Trenta sul confine siberiano della Mongolia e ha riconosciuto le stesse caratteristiche dell’uomo di Neandertal, rimettendo così in discussione il ventaglio delle rotte migratorie della preistoria. Ma che interesse possono suscitare dei reperti da museo per chi si fa un viaggetto in Mongolia e non è un paleontologo praticante? Un grande interesse. È davvero unica l’esperienza di trovarsi di fronte, in un territorio già incantevole e inquietante di suo, meravigliosi dipinti e graffiti paleolitici: come quelli delle grotte di Khoid Tsenkher nell’aimag di Khovd, nell’Altai mongolo, più di mille chilometri a ovest della capitale.
Periodo successivo, Neolitico, diecimila anni fa: da queste steppe parte una migrazione massiccia lungo l’emisfero boreale verso l’Europa e l’America. Per averne le prove stavolta non occorre scavare: basta riconoscere i tratti comuni delle popolazioni mongole con quelle della Yakuzia, della Kamchatka, del circolo polare artico e dei nativi d’America. E l’eredità non si ferma alla genetica: l’etnia Tsaatan, 250 uomini che si nascondono con un migliaio di renne nelle foreste dei monti Sayan, al confine con la Siberia, vivono in tende chiamate urts, del tutto identiche a quelle dei “pellerossa”. Senza contare i riti sciamanici, nati nella Mongolia del Nord ed esercitati con identiche modalità nelle culture nordamericane. Risale all’età del bronzo, circa 3000 avanti Cristo, un altro stupefacente filo conduttore tra le culture asiatiche e quelle europee e americane: i petroglifi, l’incisione sulla pietra. In Mongolia esistono oltre duecento siti e migliaia di disegni, soprattutto nelle regioni occidentali dell’Altai: veri e propri capolavori artistici realizzati con pitture naturali o con la pressione di pietre o oggetti acuminati. Sono rappresentate soprattutto figure umane, stilizzate e bellissime, ma anche animali, astri e altre immagini misteriose, tanto che gli ufologi sono convinti che questi siano dei segni lasciati da creature extraterrestri. Ipotesi fantascientifica suggestiva, ma ancora più seducente la certezza terrestre: i disegni incisi cinquemila anni fa dai nomadi e dai cacciatori delle steppe mongole risultano perfettamente identici a quelli rinvenuti sulle pietre e nelle caverne dell’Arizona e dell’Europa. Gli uomini disegnati al Ciappo delle Conche sul Monte Cucco di Finale Ligure sembrano fotocopie di quelli che si possono ammirare nella regione di Khovd o Bayan-Ölghii.
La Mongolia è il Paese preferito dai ricercatori perché è immenso e riserva sempre sorprese, ma soprattutto ha un clima così freddo e secco che riesce a conservare i reperti come in un asettico frigorifero. Nel 1991 nella Val Senales si grida al miracolo quando salta fuori la mummia di Otzi: un uomo di cinquemila anni fa perfettamente imbalsamato dal gelo e oggi meta di pellegrinaggi al Museo archeologico dell’Alto Adige. Sedici anni dopo, nell’estate del 2007, gli studiosi del Deutsches Archaeologisches Institut fanno una scoperta ancora più impressionante proprio nelle lande mongole: un guerriero scita di 2.500 anni fa mummificato dal freddo ed estratto dalla terra quasi come nuovo, con l’espressione del viso addirittura riconoscibile. Ossa e tessuti sono accompagnati da un corredo di armi e ornamenti nel puro e meraviglioso stile della cultura scita. Nel maggio 2012 scoppia un vero e proprio caso diplomatico tra Mongolia e Stati Uniti: lo scheletro quasi completo di un tirannosauro rinvenuto nel Gobi, e trasportato chissà come a Dallas, viene battuto all’asta per oltre un milione di dollari. Dopo proteste che hanno visto protagonista lo stesso presidente Elbegdorj e indagini condotte da polizia mongola e statunitense, il prezioso reperto è tornato a casa qualche anno dopo. Nel 2014 anche l'attore Nicholas Cage ha una brutta sorpresa: sette anni prima si era aggiudicato un teschio di tarbosauro alla casa d'aste Im Chait Gallery, "scippandolo" al collega Leonardo Di Caprio per 230 mila dollari: poi la notizia dell'importazione illegale e la restituzione alla Mongolia.
Testo di Federico Pistone per mongolia.it
La sua tomba resta un segreto. Se l’è portato con sé e con le centinaia di cavalli e cavalieri uccisi per non rivelare al mondo il luogo della sua sacra sepoltura. Inutili finora gli scavi, inutile il dispiego di satelliti e altre diavolerie tecnologiche importate da Stati Uniti e Giappone. Chinggis Khan (foto 1, la statua che domina il Parlamento della piazza Sukhbaatar a Ulaanbaatar), il più grande conquistatore di tutti i tempi, riposa in pace probabilmente nella collina di Burkhan Kaldun (foto 2), in un luogo del Khentii nel nord della Mongolia, dov’è nato intorno al 1162, incoronato imperatore nel 1206 e morto nel 1227. Ha conquistato il mondo a cavallo e l’unica volta che ne è sceso, per una caduta, è morto (foto 3, un momento del Naadam, rievocazione delle gesta di Gengis Khan). La Storia segreta dei mongoli (foto 4, un'edizione in lingua mongola), scritta da anonimo nel settimo mese dell’anno del Topo 1240, quindi diciassette anni dopo la scomparsa di Chinggis Khan, ci aiuta a capire molti aspetti della vita e della leggenda del grande condottiero, ancora oggi oggetto di vivacissime diatribe storiche. Nasce sulle rive del fiume Onon, alla confluenza con l’Hur, tenendo in mano un grumo di sangue rappreso. Viene battezzato Temüjin perché questo è il nome del capo dei Tartari appena catturato dall’esercito mongolo guidato dal padre Yesükhei. Quando Temüjin ha nove anni viene dato in sposa a Börte, che ha un anno in più. Al ritorno verso l’accampamento, Yesükhei è avvelenato dai Tartari. Temüjin cresce con la sete di vendetta, dimostrando subito uno straordinario coraggio ma anche una saggezza stupefacente. In poco tempo riunisce tutte le popolazioni nomadi e guerriere dell’Asia Centrale. Così nel 1206 viene incoronato Chinggis Khan, che significa “signore degli oceani”. Si circonda dei migliori strateghi della guerra e comincia a espandere come un’immensa onda il proprio dominio prima di morire combattendo. Lascia ai Mongoli un impero quasi senza limiti, dal mar della Cina al Mediterraneo. Come per gli Unni di Attila, la morte del condottiero coincide con il declino di un’epopea. Dopo Chinggis Khan l’impero mongolo raggiungerà dimensioni ancora superiori, ma andrà sfaldandosi fino alla dissoluzione. Bat-Erdene Batbayar, storico mongolo e attivista politico, ha una motivazione che sconfina nella psicologia: “Il nostro è un popolo nomade, guerriero ed equestre. Abbiamo facilità di conquista, ma un’estrema fragilità nel controllare territori immensi e lontani. Il rischio di dissidi e di attacchi di nostalgia era sempre in agguato”.
Insomma, la malinconia avrebbe annientato l’impero dei mongoli. La saggezza, la “democrazia” e la tolleranza di Chinggis Khan sono testimoniate da una scritta risalente al 1219 incisa su una stele dove vengono riportate le parole del condottiero: “Porto gli stessi vestiti e mangio lo stesso cibo dei bovari e degli stallieri. Tratto il mio popolo con dolcezza, come fosse un bambino, e i miei soldati come fossero miei fratelli. I miei progetti sempre passano attraverso la ragione. Ho sempre cura degli uomini e cerco di pensare sempre cos’è bene per loro. In cento battaglie che ho combattuto mi sono sempre schierato alla testa dei miei soldati e non ho mai pensato se c’era qualcuno dietro me. Ho affidato il comando delle truppe a quelli in cui l’intelligenza era pari al coraggio. A chi era attivo e capace ho affidato la cura degli accampamenti. Agli zotici ho messo in mano la frusta e li ho mandati a sorvegliare le bestie”.
Sübedei, il maestro di Rommel
Chinggis Khan ci ha messo il coraggio, la determinazione, la ferocia. Ma senza una strategia eccezionale non avrebbe mai conquistato dal nulla l’impero più vasto del mondo. E a questo ha pensato Sübedei (foto 5), considerato dagli storici il generale più arguto di tutti i tempi. Sübedei, traslitterato anche come Subotai, Subutai o Sabotai, è un pacifico pastore di renne prima che gli uomini di Chinggis Khan lo ingaggino per l’esercito. Quando l’imperatore chiede ai suoi uomini un volontario per guidare una pattuglia in una spedizione proibitiva, Sübedei non esita a farsi avanti. Dimostra subito un grande valore sul campo, ma soprattutto un’illuminata capacità organizzativa che conquista Temüjin.
Promosso generale, Sübedei guida le conquiste mongole prima occupandosi del fronte orientale, poi dirigendosi verso occidente sotto il nuovo imperatore Ögödei. Vince tutte le numerosissime battaglie che affronta, contro eserciti spesso molto più folti. Dopo aver sottomesso i territori russi e annientato la resistenza delle grandi città medioorientali, Sübedei si dirige verso l’Europa conquistando nel 1241 il regno dei Bulgari, Cracovia e l’Ungheria, rendendo quasi patetico il tentativo di resistenza del re Bela IV. I Mongoli incendiano Pest grazie anche all’utilizzo di proiettili di fuoco lanciati con le catapulte. Per gli ungheresi è un massacro: muoiono in quarantamila e i superstiti vengono fatti prigionieri.
Tutta l’Europa è ormai rassegnata all’imminente invasione mongola ma la morte improvvisa del khan Ögödei costringe Sübedei, giunto ormai alle porte di Vienna, a fare ritorno a Karakorum. Muore nel 1245, diciotto anni dopo Chinggis Khan, lasciando in eredità i confini più estesi dell’impero. Sübedei è riuscito a valorizzare le caratteristiche del suo esercito: i Mongoli sono straordinari guerrieri, dotati di coraggio, resistenza fisica e di una formidabile abilità di arcieri. Sono agevolati anche da un arco speciale che permette di scagliare frecce senza perdere il controllo del cavallo. Contrariamente a quanto si possa pensare, i Mongoli sono attrezzati molto bene, con armature leggere ma resistenti, e hanno una disciplina sconosciuta agli eserciti europei. Ma l’arma più efficace dei Mongoli è proprio il cavallo: compatto, veloce, agile, resistente, permette lunghissimi spostamenti delle truppe e incursioni repentine e micidiali. Serve però una strategia su misura e Sübedei la inventa, semplice e geniale. Il grosso dell’esercito a cavallo avanza formando un semicerchio; una sparuta avanguardia galoppa avanti in una sorta di missione suicida. Quando il nemico la avvista, si getta all’assalto convinto che gli avversari siano tutti lì: la pattuglia mongola fa dietrofront attirando gli inseguitori nella trappola. Il semicerchio dell’esercito di Sübedei si chiude e comincia una vera e propria grandinata mortale di frecce. Per preparare la battaglia nei minimi particolari, il generale introduce anche una sorta di “intelligence”, spie che si mescolano ai nemici e, al momento opportuno, galoppano a tutta velocità verso le guarnigioni mongole per informare i vertici militari.
Chinggis Khan adora Sübedei. La Storia segreta dei Mongoli, scritta proprio l’anno prima della morte di Sübedei, riporta una vera e propria dichiarazione d’amore di Chinggis Khan verso il suo luogotenente: “Mi farò topo per rubare il cibo e conservarlo per te. Mi farò corvo per catturare anche una briciola per te. Mi farò feltro per coprirti e avvolgermi con te”. Ma il genio di Sübedei è sopravvissuto ai secoli. Ottocento anni dopo, i più grandi generali della Seconda Guerra Mondiale si ispirano alle sue strategie per mettere a punto alcune delle vittorie cruciali del conflitto. George Patton, ma soprattutto Erwin Rommel, la Volpe del deserto, confesseranno di avere mosso le truppe secondo gli insegnamenti di quel pastore delle renne che conquistò il mondo a nome dei Mongoli.
Una storia segreta tra passione e crudeltà
Fu Chinggis Khan a imporre l’istruzione al popolo dell’impero mongolo. Nel 1204 fa pubblicare, in linguaggio uiguro, il codice delle leggi, chiamate Ikh Zasag, termine che ha quattro significati: ordine, divieto, danno, peccato. Sceglie l’inchiostro azzurro che richiama il sacro cielo, a sottolineare l’origine divina di questi editti. La scrittura però resta solo legata a documenti ufficiali o religiosi. La tradizione scritta è molto scarsa, come per tutte le popolazioni nomadi.
Esiste però un’eccezione straordinaria: La Storia segreta dei Mongoli, scritta nel XIII secolo da una sorta di Omero asiatico, una saga sconcertante per la nostra sensibilità occidentale, ma che permette di affondare lo sguardo in una realtà tanto lontana nel tempo e nello spazio, densa di coraggio e crudeltà, di orgoglio e passione.
Ogni mongolo ha letto la Storia segreta almeno una volta, molti la sanno a memoria, a scuola è studiata con assiduità e ha la stessa valenza che ha per noi la “Divina Commedia”. In calce, l’autore (o forse gli autori) ha voluto ricordare che l’opera è stata scritta sotto il regno di Ögödei, figlio di Chinggis Khan, nel settimo mese dell’anno del Topo (1240).
La Storia segreta, composta nell’antico alfabeto uiguro, va perduta ma a metà dell’Ottocento ne viene miracolosamente rinvenuta una copia trascritta in cinese. Racconta della vita di Chinggis Khan, dalle origini alla morte, attraverso le sue impressionanti gesta. Questo testo, lungo quanto un romanzo, è diventato l’unica vera “sceneggiatura” di mille film, libri, documentari e speculazioni sul grande condottiero e sull’impero mongolo, come la saga editoriale Il figlio della steppa di Conn Iggulden, il romanzo più venduto in Inghilterra nel 2007 o lo spettacolare film Mongol del russo Sergej Bodrov del 2008.
La Storia segreta si apre con nascita e battesimo del più grande conquistatore della storia, partendo dai successi in battaglia del padre: “Proprio mentre Yesükhei sconfigge i Tatari che hanno come capo Temüjin, la moglie Öülün partorisce presso il fiume Onon: allora nasce Chinggis Khan. Stringe in mano un grumo di sangue rappreso. Dicono: è nato mentre veniva catturato il nemico tataro Temüjin, lo chiameremo Temüjin”. Quando ha nove anni, il padre decide di trovargli una moglie dagli zii materni. “Ha dieci anni, uno in più di Temüjin. Si chiama Börte e ha il viso come l’alba e gli occhi di fuoco”. La narrazione passa attraverso il dramma della morte del padre: “Yesükhei ha molta sete e decide di fermarsi a chiedere da bere a un gruppo di Tatari. Ma loro lo riconoscono e di nascosto gli versano del veleno nella coppa. Tre giorni dopo Yesükhei sta male, chiama a sé il fratello Munglig e chiede di portargli Temüjin”.
E qui, ereditato il potere del padre, comincia la vera saga di Chinggis Khan, fitta di battaglie, conquiste, razzie, atrocità, amore, amicizia e tradimenti. Fino all’incoronazione, nel 1206: “Dopo essersi consultati fra di loro, Altan, Qucar, Saca-Beki e tutti gli altri dicono a Temüjin: 'Ti eleviamo a Khan. Inseguiremo il nemico, ti porteremo le vergini e le mogli più belle, tende, palazzi, schiavi e i cavalli migliori. Cacceremo le belve di montagne e te ne faremo dono, senza sventrarle. Per ogni animale che cattureremo, te ne daremo metà, dopo avergli tolto le zampe. Se dovessi mancare a un tuo comando, allontanaci dall’accampamento, dalle nostre donne, tagliaci le teste e buttale in terra'”.
Struggente l’episodio del ferimento di Chinggis Khan, accudito con amorevole cura dal luogotenente Zelme: “Chinggis Khan è ferito all’arteria del collo. Impossibile fermare il sangue. Zelme succhia continuamente il sangue che si rapprende. Quando ha la bocca piena, o sputa il sangue o lo inghiotte”. Infine la morte del condottiero, solo accennata, come se il narratore avesse paura di profanarne la memoria, di scoperchiare la tomba che lo stesso Chinggis Khan ha ordinato rimanesse per sempre segreta. Non dimentichiamo che l’amatissimo imperatore è scomparso da pochi anni e il dolore popolare è ancora incredibilmente vivo. “Prima di presentarsi a Chinggis Khan, Burqan sceglie i doni per il suo imperatore: nove pezzi d’oro, nove d’argento, nove vasi preziosi, nove fanciulle, nove dei migliori cavalli e nove cammelli e, come regalo principale, una tenda d’oro. Durante l’udienza Chinggis Khan si sente male”.
La Storia segreta finisce dove comincia la leggenda e l’orgoglio di un popolo.
Testo di Federico Pistone per mongolia.it
Dov'è la tomba di un dio? Non è mai dove la cerchi.
Il percorso per trovarla è inclinato, insidioso, trascendente.
Zanabazar è un dio, incarnazione del Buddha, primo Bogd Gegen, il santo che risplende, maestro spirituale e politico della Mongolia dal 1638 – quando è una creatura predestinata di appena tre anni che recita a memoria i testi sacri – al 1723, avvelenato dai manciù, che temono il suo potere e la sua presunta immortalità. A quell'epoca nessuno arriva ai novant'anni, e nessuno ci arriva con quella energia.
“Lo scettro fulminante della saggezza”, significato tibetano di Zanabazar, il dio-re, discendente diretto di Gengis Khan, è inventore, matematico, poeta, scrittore, scultore – i suoi bronzi sublimi segnano l'arte di tutta l'Asia – e poi mago, architetto (a dodici anni costruisce il primo monastero, non un modellino, lo splendido Shankhiin khiid) musicista, pittore, astronomo, economista, medico, stilista, ridisegna perfino le kesa, gli abiti dei monaci copricapi compresi. Come linguista iventa l'alfabeto decorativo del Soyombo, che ancora fregia la bandiera mongola. Il biografo coevo Luvsanperenlei garantisce che Zanabazar ha poteri sovrannaturali, compie miracoli e ha il dono dell'ubiquità: come quando si trova a pregare in un tempio sperduto fra le montagne del Tibet e simultaneamente, a migliaia di chilometri di distanza, sta fondando l'accampamento mobile di Urga, destinato a diventare la nuova capitale della Mongolia, Ikh Khuree e, dal 1924, la definitiva Ulaanbaatar, l'eroe rosso. Altri testimoni giurano che, in quello stesso istante, Zanabazar stia tenendo una funzione al monastero Erdene Zuu nell'antica capitale Kharkhorin. Uno e trino.
Quel genio, quel re, quel dio, oggi riposa nell'ascetica intimità di un monastero sperduto al nord della Mongolia.
La chiamano «la tomba di Zanabazar», un edificio di legno incastrato nel complesso sacro dell'Amarbayasgalant, fra il tempio di Sakyamuni e la “gher gialla dell'ospitalità” dove campeggiano libri antichissimi, una collezione di sutra del Seicento e sculture liturgiche del maestro: al centro, a bucare un pavimento rabberciato alla meglio, il forno originale – tre lastroni incrociati di pietra grezza – utilizzato da Zanabazar per forgiarle.
Ma le sue spoglie non sono lì.
La vera tomba è la collina Baruunburen, letteralmente “l'ovest assoluto”, che sovrasta il monastero. Morfologia alla mano, quella però è già una montagna perché si parte da una base di ottocento metri di altitudine a cui bisogna aggiungerne altri duecento del rilievo.
Il nostro viaggio inclinato, insidioso, trascendente ci porta esattamente lì. Nel cuore sacro e gentile della Mongolia, fino al sepolcro del dio-re.
Il soffio celeste delle preghiere e delle opere di Zanabazar spira ovunque, negli antichi graffiti rupestri, tra le tombe unne, nelle tende bianche dei pastori, nei monasteri seminati tra l'Altai e il deserto del Gobi, nella scuola di dottrina buddhista del Chojin Lama, nella cittadella della fede di Gandan e nei musei della capitale: il più affascinante, quello di Belle Arti, in diciassette sale racchiude ventimila capolavori, e porta fieramente il suo nome.
La leggenda accartoccia la cronaca e si fonde alla fede, incondizionata. Nel 1655, al diciassettenne dio-re giunge notizia della morte del Panchen Lama, maestro del tempio tibetano di Tashi Lhunpo, fondato nel Quattrocento dal primo Dalai Lama.
Zanabazar spicca un volo di sette giorni, come un angelo-uccello, raggiunge il monastero, si accuccia sul corpo senza vita del religioso e officia un rito con il mandala, il disco sacro del buddhismo, fino a resuscitarlo. Insieme trascorrono giorni a passeggiare, pregare e chiacchierare, come due vecchi amici.
Le doti sovrannaturali del ragazzino attirano presto l'attenzione dell'imperatore cinese Kang Xi che lo convoca a corte per trasformarlo nel compagno preferito di filosofia e pellegrinaggi consentendogli di svolgere la sua attività artistica nelle condizioni migliori.
La grazia divina della sua anima viene così trasmessa alle sue sculture eterne, con quelle forme di eleganza e raffinatezza ultraterrena, a rappresentare il Buddha e gli altri abitanti del pantheon in uno stile che non ha precedenti e che non ha eredi. Tra le sue mani l'argento e il bronzo si trasformano per magia in oggetti divini, con quei volti distesi dallo sguardo infinito e benevolente, le mani sospese in gesti di eleganza taumaturgica, le pose in equilibrio dinamico e insieme definitivo.
In Mongolia lo considerano ancora oggi una combinazione miracolosa tra Michelangelo e Papa Giulio II, genio e religione alla massima potenza. Qualcuno preferisce definirlo il Leonardo da Vinci delle steppe. Il concetto è chiaro.
L'immagine è mossa.
Tutto quanto si muove dentro l'antico fuoristrada sovietico che rimbalza da ore sulle zolle della Mongolia settentrionale, non lontano dalle prime propaggini della Siberia, dentro regioni buriate dove è nato lo sciamanesimo primitivo.
Siamo partiti dalla capitale Ulaanbaatar di mattino presto e in poche ore abbiamo percorso i trecentosessanta chilometri fino a Darkhan attraverso un rettifilo d'asfalto che ha accorciato ogni distanza ma ha tolto anche ogni affascinante imprevisto. Abbandonata finalmente la millennium road si scarta tra vallate, boschi e mandrie barcollando a passo d'uomo senza un orizzonte apparente. Solo qualche gher, le bianche tende circolari, appollaiata sul percorso.
Attraversiamo piste invisibili fidandoci solo di qualche pastore – basta un cenno con il mento per indicare la direzione, lo sanno che stiamo andando lì – e dei riferimenti orografici come quel fiume improvviso, l'Orkhon, sulle cui rive, ottocento anni fa e settecento chilometri più a est, Gengis Khan generò l'impero più esteso che la storia racconti. E anche il più prezioso con quella pax mongolica che ha permesso il più importante incontro e scambio di civiltà mai (e mai più) avvenuto, tra Oriente e Occidente.
Da lassù proprio lui, il Condottiero, ci sta guardando e proteggendo, mi garantisce Baltan il driver mentre affronta un'altra palude travestita da tappeto d'erba smeraldo.
Sostiamo a un ovoo, l'altare di pietre e rami congiunzione tra l'uomo e il tengher, quel cielo talmente alto e lustro che sembra appartenere a un altro pianeta.
Svettano ovunque in Mongolia questi templi selvatici, soprattutto sulle alture, comunque dove la geomanzia dello sciamanesimo prima e del buddhismo poi, in una difficile convivenza religiosa, ha individuato l'energia mistica più potente.
Giriamo attorno all'ovoo tre volte, in senso orario, gettando la nostra brava offerta. Niente di prezioso, basta un segno. Baltan toglie dal portafoglio una banconota da cento tugrug e la getta fra le altre offerte, matite, sciarpe colorate, teschi, bottiglie e vecchie fotografie tenute ferme dalle rocce. Raccolgo un sassolino bianco e al terzo giro lo lancio agli dèi sperando apprezzino almeno il gesto.
Un'ultima sosta prima dello strappo finale.
Bat Erdene, quarantenne nomade dalla pelle coriacea e dal pastrano impolverato, ci accoglie nella sua gher offrendoci sorrisi e una ciotola di tè, una per tutti da passare, tagliato con latte di yak. Si scusa per non avere più airag, il latte di cavalla fermentato, da millenni nutrimento ufficiale della popolazione mongola. In compenso, la figlia Muren – che sbircia da un angolo dietro le sue fessure di occhi – raduna su un vassoio tocchi di formaggio sbriciolato: latte di cammella, assicura, come una garanzia di eccellenza a chilometro zero. La madre e i tre fratelli sono fuori ad accudire cavalli e capre, il patrimonio di famiglia. Nell'ultimo inverno lo zud, il fenomeno di congelamento del terreno che ghiaccia ogni possibilità di nutrimento, ha decimato gli armenti e ucciso anche due nonni di Muren.
Il sole comincia a flettere e dobbiamo ripartire sull'ideale direttrice che Bat Erdene ci ha indicato allungando il braccio dopo averci offerto un ultimo sorso di vodka mongola e una sniffata di tabacco dal palmo della mano.
Uno strappo sull'ultima collina e poi appare, improvviso, uno stupefacente miraggio.
Davanti a noi, nel verde scuro della pianura, una grande macchia rossa si compone lentamente fino ad assumere le nitide sembianze di una fortezza. Una fortezza della fede. Un monastero. Uno dei più straordinari, sofferti e misteriosi dell'intero continente.
Lo hanno chiamato Amarbayasgalant, scioglilingua generato dal nome dei due bambini, Amar (quiete) e Bayasgalant (gioia) che nella primavera del 1727 stanno giocando su questo terreno proprio mentre cominciano i lavori del tempio. Non un luogo a caso, ma un punto indicato da Zanabazar, morto da quattro anni, come centro dell'energia mistica di tutto l'universo, un poderoso shambala. Quasi come un risarcimento per l'uccisione del dio-re, è stato il nuovo imperatore dei nemici manciù, Enkh Amgalan Khan, a concedere questo prezioso dono al popolo mongolo. Il corpo imbalsamato di Zanabazar viene adagiato dentro un reliquiario incastonato di gioielli e traslato da Pechino in uno stupa d'argento massiccio edificato all'interno dell'Amarbayasgalant, l'ultima casa del Santo.
In pochi anni il monastero diventa un quartier generale della fede buddhista, nonostante l'isolamento geografico. Seimila monaci popolano la cittadella, ornandola dei tesori più preziosi, oggetti sacri, arazzi, monili, antichi libri di preghiera e centinaia di mirabili sculture realizzate da Zanabazar e dei suoi allievi.
Un luogo di pace e di gioia, come da battesimo. Almeno per due secoli. Poi l'apocalisse.
La brutalità delle purghe sovietiche, imposte da Stalin e messe in pratica dal fantoccio Choibalsan negli anni Trenta del Novecento, devasta in pochi mesi l'intero patrimonio sacro della Mongolia: templi rasi al suolo, monaci e sciamani sterminati.
I soldati dell'Armata Rossa raggiungono l'Amarbayasgalant: un cavaliere è riuscito a precedere la colonna di carri armati e ad avvisare la comunità del monastero. I monaci non si muovono, quello è il loro posto nel mondo, fino alla morte.
Non scappano al loro destino. Lasciarono anche tutti i tesori dove sono. Si preoccupano soltanto di Zanabazar: le sue spoglie non devonoo finire nelle mani sacrileghe dei Russi.
I soldati arrivano ed eseguono gli ordini, almeno quasi tutti: radunano i monaci uno vicino all'altro e li uccidono, utilizzando una pallottola per ogni due uomini, per risparmiare.
Saccheggiano i tesori preziosi, fondono sul posto il bronzo e l'argento dei templi e degli oggetti sacri poi schierano i cingolati per radere a suolo il monastero.
A questo punto Zanabazar compie il suo miracolo postumo.
Il comandante della pattuglia ordina ai suoi uomini di interrompere il bombardamento. La storia non ci rivela il motivo di quella decisione, ma ci consente di abbracciare ancora oggi la tranquilla quiete di questo luogo.
Il cielo sta già virando al viola, quando spegniamo il fuoristrada a distanza di rispetto dal monastero e montiamo la tenda in un punto qualunque di quel prato senza confine.
Baltan è distrutto dalla fatica – guidare sulle piste mongole richiede una forza mostruosa – ma ha ancora non so dove l'energia di praticarmi un massaggio, che lui definisce miracoloso ma che io trovo solo dolorosissimo, prima di vedermi addormentare come un bambino durante la ninnananna.
Il mattino dopo abbiamo un appuntamento. Anzi due. Con il maestro dei monaci e con il dio-re.
Un bambino dalla tunica rossa sporca come la faccia ci aspetta davanti al portone, di fronte ai cerchi magici impressi a calce sul terreno, una sorta di percorso per lo Tsam, arcaica danza di maschere divine e demoniache mescolate in un'orgiastica celebrazione, ripresa solo nel settembre 2002 dopo la proibizione durata sessantacinque anni.
Il ragazzino tiene in mano un grumo di ferraglia arrugginita: sono le chiavi dei templi. Chiediamo di Tulga, il monaco responsabile del monastero con il quale abbiamo appuntamento. Il bambino appoggia per terra il pesante mazzo di chiavi, si fruga nella kesa e tira fuori un vecchio cellulare. Dice due parole e poi lo ripone.
Come un maggiordomo che conduce l'ospite nel salotto buono in attesa del padrone di casa, ci spalanca la porta del sontuoso tempio principale, il Tsogchin Dugan.
La meraviglia dell'esterno, un'architettura cinese di pareti candide sormontate da tegole rosse arricchite da intarsi sacri e animali simbolici, è solo l'annuncio di quello che ci aspetta all'interno. Imponenti colonne ricoperte di khadak e thangka, le sciarpe e gli arazzi sacri che rappresentano ogni dettaglio più recondito del Buddhismo, drappi variopinti calano dal soffitto di legno, tappeti e teche di preghiera, mille statuette del Buddha e, sullo sfondo, il monumento a grandezza naturale di Rinpoche Gurdava, il santo che nel 1992 ha dato nuova luce al monastero.
In alto, in altissimo, a dominare la scena, c'è lui, Zanabazar, rappresentato su una sorta di sindone multicolore in una delle pose classiche delle sue sculture: morbidezza, serenità, eleganza, sacralità.
Un rumore improvviso ci fa sobbalzare riportandoci su questa terra. È il portone sbattuto dietro le spalle da Tulga, un uomo piccolo, viso dolce e cranio rasato. Lo collego subito all'immagine di Zanabazar, chissà forse è la sua reincarnazione. Qui tutto può essere.
Un sorriso e un inchino, nessuna parola fra di noi. Ci invita solo a seguirlo fuori.
Sul piccolo terrazzo del monastero due monaci bambini spuntano tra due cervi d'oro e soffiano dentro le conchiglie sacre, le shanka, facendole muggire con potenza. «Serve per svegliare l'ignoranza dell'anima e richiamare i fedeli alla funzione», mi sussurra Baltan come un interprete buddhista.
Entriamo nel tempio Sakyamuni. L'effetto è quello di una macchina del tempo. E dello spazio. Zanabazar deve aspettare. Prima c'è la preghiera.
I fedeli, donne, uomini, anziani e bambini, spuntano quasi per magia e si accomodano allegri e silenziosi sulle panche che formano il periplo attorno ai banchi della preghiera dove sono posizionati i monaci bambini: sembrano allievi svogliati di una scuola sopra le nuvole. Sono tutti giovanissimi, rasati, sporchi e dalle facce furbette. Ognuno tira fuori un massiccio libretto di preghiere tibetane e, al suono del gong, si comincia.
Probabilmente non sanno nemmeno che cosa stiano leggendo, sono litanie infinite e impronunciabili, mantra imparati a memoria e interrotti solo da colpi dell'antico tamburo decorato da simboli tibetani.
La cerimonia prosegue per diverse ore, ipnotica ed emozionante. Alla fine, uno dei baby monaci passa fra i fedeli distribuendo sacchetti di sopravvivenza pieni di pane dolce, yogurt secco, biscotti e resina di pino da bruciare come incenso. Prima di uscire dal tempio, i devoti lasciano una piccola offerta di denaro sotto le statuette dei Buddha.
I monaci possono finalmente tornare a essere bambini: scherzano fra di loro, rubano i dolcetti lasciati sulle panche, si spingono, tirano pugni e calci. Salta fuori una palla e comincia una partita di pallavolo fra i templi del monastero, a cui si aggiunge anche il driver massaggiatore Baltan.
Nel tempio restiamo solo noi. La profondità di campo sovrappone per un attimo il volto sullo sfondo della statua di Zanabazar con quello vivo e vicino di Tulga, che ha cominciato a sciorinare una preghiera in tibetano, solo per me.
Sa che sono lì per Zanabazar e questa è una poesia-invocazione del santo.
Cancella le tenebre dell'ignoranza,
illumina la saggezza primordiale.
Proteggici con la tua compassione
dall'oscurità della corruzione
e dai nostri peccati umani.
Smorza le fiamme della sofferenza
e alimenta le meraviglie di questa vita.
Diffondi il sole degli insegnamenti,
della pace, della felicità, della fortuna.
Liberaci da ogni arida tentazione
e rendici uomini umili e saggi.
Nel suo inglese schematico e quindi comprensibile, Tulga traduce la preghiera, mi accompagna a visitare l'intero complesso dell'Amarbayasgalant, mi offre del pane e della vodka tirata fuori da un anfratto del saio e finalmente annuncia che è arrivato il momento.
Mi porterà fino ai resti del dio-re.
Dovremo però stare in silenzio per tutto il percorso, è necessario per non disturbare l'anima di Zanabazar.
La quiete del tramonto sarà il nostro appuntamento.
Mancano ancora alcune ore, ma ci avviamo. Due piccoli uomini procedono obliqui verso la montagna che domina il monastero.
Alzo gli occhi e, alla fine di un'ascesa lunga 108 gradini – numero primario del Buddhismo – interrotta da tre piazzole con altrettante ruote della preghiera, raggiungiamo l'incombente statua del maestro Tsongkhapa, un'altra figura del Buddhismo, fiancheggiata da quella di due allievi.
Ci fermiamo sulla sommità. Ai nostri piedi il meraviglioso quadrato del monastero. Tulga però guarda altrove, verso ovest, dove il monte Baruunburen raggiunge la massima altezza.
Una preghiera sottovoce, un sorriso e si riparte.
Tagliamo in diagonale sul pendio fino a trovarci sul fianco meridionale della montagna.
Di fronte a noi un'altra salita, questa volta definitiva.
In vetta ci aspetta lo “Stupa dell'occhio”, detto Jarun Hashor, copia di quello nepalese: un periplo di ruote della preghiera – 108, non si scappa – ci accompagna mentre gli occhi del Buddha ci fissano da qualsiasi prospettiva.
Quello sguardo serve ai fedeli per spazzare via i peccati.
Ovunque campeggiano i simboli sacri del Soyombo, vergati da Zanabazar.
Il tramonto appoggia il cielo nero sul monastero della tranquilla gioia.
Il dio-re è puntuale all'appuntamento.
È sotto di noi.
È la montagna.
Javsandamba Gombodojin Eshidorj Zanabazar
nato nel 1635 a Yesönzüil (Övørkhangai, Mongolia)
morto a Pechino nel 1723
sepolto nella montagna Baruunburen, accanto al monastero di Amarbayasgalant (Selenghe, Mongolia)
Testo di Federico Pistone per il libro "Qui giace un poeta" (edizioni Jimenez, 2019)
La foto 1 è una statua di Zanabazar realizzata nel XVII secolo da uno dei suoi allievi. le altre foto sono di federico Pistone e si riferiscono al nmonastero di Amarbayasgalant
I mongoli hanno smesso di fare la guerra e sono diventato pastori gentili, con le loro gher di feltro sempre spalancate al primo cavaliere di passaggio o allo straniero in cerca di fugaci emozioni dell'anima. Quelli che otto secoli fa erano i feroci padroni dell'impero più vasto del mondo guidati da Gengis Khan e dalle sue orde oggi si sentono privilegiati abitanti di un territorio di pace e serenità: un occhio del ciclone, intorno al quale tutto può succedere senza scalfire nulla. Almeno per ora.
L'abbraccio geopolitico di due dei Paesi più potenti del pianeta, Cina e Russia, per ora ha permesso alla Mongolia di preservare in un equilibrio stupefacente il suo coccio spirituale, legato ai riti sciamanici, al buddhismo, alla natura più incontaminata, alle tradizioni millenarie che ancora non cedono alle tentazioni di una capitale, Ulaanbaatar, che guarda a Occidente ma sempre con un po' di sospetto: chi parte, per studio, per lavoro, per cantare arie liriche nei teatri europei, poi in Mongolia ci torna. Nonostante tutto: la povertà, sempre dignitosa (anche il fenomeno dei bambini di strada nella capitale è ormai sparito), il clima impossibile per molti mesi dell'anno, la corruzione politica che porta gli elettori a variazioni continue delle istituzioni e del Parlamento senza che cambi mai nulla. Ma la democrazia c'è, la pace anche, l'orgoglio più di tutto. La guerra in Ucraina ha creato qualche imbarazzo nelle autorità di Ub, come viene affettuosamente chiamata la capitale che raccoglie un milione e mezzo di abitanti, metà dell'intera popolazione del Paese, grande sei volte l'Italia. Quando si è trattato di votare pro o contro Putin, la Mongolia si è prudentemente astenuta perché il legame con la Russia è molto forte e sentito ancora oggi, nonostante le atrocità compiute sotto Stalin, con tutti i monasteri rasi al suolo e i monaci giustiziati. Ma è stato grazie alla Russia imperiale prima e all'Unione Sovietica poi se la Mongolia si è liberata dal terribile giogo dei Manciù, protratto dal Seicento fino al primo Novecento. Dal 1993 la Mongolia ha indetto le prime elezioni autonome alternando al potere il Partito Rivoluzionare e quello Democratico in un'altalena che da un lato consente il costante controllo popolare sul potere dall'altro disorienta sulla diversa gestione dello sfruttamento degli immani giacimenti di rame e oro nel deserto del Gobi, vera cartina di tornasole dell'economia mongola altrimenti affidata alla pastorizia e al cashmere. Alcuni governi hanno affidato a multinazionali l'estrazione delle materie prime, altri hanno bloccato i lavori per lo sfruttamento eccessivo delle terre e il prosciugamento dei già scarsi corsi d'acqua.
La Mongolia resta costantemente in bilico fra gli estremi: caldo e freddo (da -60 a +50); guerra e pace (il più spaventoso scenario bellico nel passato e l'oasi di pace che è oggi); povertà e ricchezza, con definizione a turno di “l'emirato delle steppe” o Paese da carestia con un Pil che vale il 117° posto nel pianeta, popolato da rustici allevatori ma con un'alfabetizzazione al 98,5% e con una partecipazione alle tornate di voto da far impallidire gli elettori europei: le urne vengono piazzate in mezzo al nulla della steppa o del deserto e spesso occorrono giorni e notti a cavallo perché intere famiglie nomadi inseriscano la preferenza nell'urna. Niente scheda elettorale, basta un timbro sulla mano indelebile per due giorni. Più una preghiera allo sciamano per far vincere la propria lista.
Certo, i giovani della capitale sono sempre più attratti dalle lusinghe occidentali e hanno ormai invaso le corsie dei social. Poi però li vedi salire a frotte, in religioso silenzio, verso la collina dove campeggia Gandan, il più grande monastero della capitale meta spesso del Dalai Lama per l'ira dei Cinesi che sono arrivati perfino a minacciare una guerra armata alla Mongolia. Ma la Russia è sempre in sentinella.
Federico Pistone (Corriere della Sera)