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2. Gobi, il prezioso frigorifero della preistoria

Una fotografia di 80 milioni di anni fa, l’hanno definita. Si sa, sono americani e in qualche modo dovevano spettacolarizzare l’evento. Il Museo di storia naturale di New York ha rilanciato l’interesse planetario per i dinosauri, passione di bimbi e paleontologi, esponendo un gruppo scultoreo di due scheletri avvinghiati in un epico e tragico duello. Da una parte un crudele velociraptor, dall’altra un protoceratops, una specie di muccasauro, mansueto erbivoro che diventa piuttosto nervoso se qualcuno prova ad azzannarlo: prima di finire sbranato è infatti riuscito a sparare con la coda bordate che hanno ferito a morte il predatore. Nel momento catartico della sfida, una frana li ricopre riconsegnandoceli così com’erano, bloccati nello spasmo osseo. La scoperta, straordinaria, avviene nel 1971 nel deserto del Gobi, il più immane scrigno di dinosauri della Terra, grazie alle ottime condizioni di conservazione e all’habitat ideale che ospita per 170 milioni di anni la specie più longeva della storia del mondo (l'homo sapiens esiste da 30 mila anni, una vergogna a confronto). Nel dicembre 2016 una ricerca internazionale delle Nazioni Unite e di Banca Mondiale ha assegnato alla Mongolia il primato mondiale del pianeta per la presenza di scheletri di velociraptor. Nomadi mongoli e cinesi inciampano da secoli nelle ossa e nelle uova di dinosauro, sminuzzandole per ottenere medicine contro ogni male.
Nel 1921 il ricercatore Roy Chapman Andrews, quello che ha ispirato il personaggio di Indiana Jones, parte per la Mongolia convinto di trovare l’alba dell’uomo e invece finisce per scoprire l’altroieri del pianeta: uno sterminato deposito di scheletri e fossili di dinosauri, tra cui un uovo di velociraptor completo di embrione. Da qui l’idea per il film di Spielberg, “Jurassic Park”, basato sull’illusione scientifica di riprodurre per clonazione un bestione antidiluviano. Le spedizioni successive, che proseguono anche oggi sotto la stretta sorveglianza delle autorità mongole, scoperchiano un tesoro impressionante, con migliaia di reperti di ogni epoca e dimensione: da minuscoli roditori, pronipoti delle marmotte che popolano tuttora le steppe mongole, ai mammiferi terrestri più imponenti di sempre (rinoceronti grandi quattro volte un elefante), fino a dinosauri alti 12 metri, lunghi 23 e del peso di 77 mila chili. Nel settembre 2007 la scoperta più sensazionale: i ricercatori del Museo americano di storia naturale, sempre loro, dopo quasi dieci anni di lavoro sui resti fossili del velociraptor mongoliensis rinvenuti nel 1998, concludono che questi dinosauri avevano le piume e sono a tutti gli effetti degli uccelli o, a scelta, gli uccelli che vediamo oggi non sono che dinosauri “modificati” e alleggeriti per il volo. Secondo il capo ricercatore Alan Turner i velociraptor avevano perso la capacità di volare, come oggi gli struzzi, ma altri dinosauri più agili solcavano i cieli del pianeta. Alla stessa conclusione giunge pochi mesi prima una spedizione cinese che, dalle sabbie del Gobi, libera lo scheletro di un uccello-dinosauro risalente a 85 milioni di anni fa. Lo battezzano, con una fantasia da fumetti, gigantoraptor: a 11 anni di vita ha raggiunto i 1.400 chili, e ha il vezzo di “indossare” strisce di piume sotto gli arti superiori. I preziosissimi reperti svelati dal Gobi mongolo popolano le gallerie di tutto il mondo: nel Museo di storia naturale di Ulaanbaatar, quando riuscirete a trovarlo aperto (è in eterna ristrutturazione), è esposta solo qualche briciola di questo patrimonio. Ma c’è l’emozione della macchina del tempo, la magia di poter ammirare questi mostri proprio dove sono vissuti. Le sale del museo di UB, oltre a ossa e uova di dinosauro a profusione, custodiscono due reperti, impressionanti da vedere e di straordinario valore paleontologico: c’è lo scheletro integrale di un tarbosauro alto 12 metri, un tirannosauro asiatico dalla mascella spaventosa, e un più docile ma altrettanto spettacolare saurolophus a becco d’anatra lungo 8 metri. Scoperti nel Gobi a metà degli anni Cinquanta, risalgono al Cretaceo superiore (circa 70 milioni di anni fa) e hanno fornito la prova definitiva che Asia e Nord America nell’antichità erano collegate dalla terraferma: infatti, animali del tutto identici sono stati rinvenuti anche in territorio canadese. La saga dei dinosauri nel deserto del Gobi riserverà sicuramente altri colpi di scena, anche se i misteri più interessanti di queste terre cominciano centinaia di milioni di anni dopo, con l’apparizione di un animale ben più curioso e affascinante: l’uomo.

Il frigorifero della preistoria
Non eravamo presenti personalmente ma diamo per buona l’ipotesi dei paleontologi che fissano a mezzo milione di anni fa, all’alba del Paleolitico, la presenza dell’uomo in Mongolia: tracce di civiltà primitive sono state rinvenute ovunque, dai rilievi dell’Altai al deserto del Gobi, dalle anse dell’Orkhon fino alla regione del Selenghe, a ridosso della Siberia. Ma la scoperta che fa sbattere gli occhi anche ai meno interessati al passato remotissimo risale alla fine di settembre 2007. Il ricercatore svedese Svante Paabo, uno giovane e bravo, dopo minuziosi studi sul campo e in laboratorio, ha deciso che l’uomo di Neandertal, il nostro più vicino progenitore, non si è accontentato di popolare l’Europa come si era sempre pensato, ma ha sconfinato in Asia fino a raggiungere e stanziarsi nelle distese centrasiatiche. Paabo ha analizzato il Dna di un femore di un ominide rinvenuto negli anni Trenta sul confine siberiano della Mongolia e ha riconosciuto le stesse caratteristiche dell’uomo di Neandertal, rimettendo così in discussione il ventaglio delle rotte migratorie della preistoria. Ma che interesse possono suscitare dei reperti da museo per chi si fa un viaggetto in Mongolia e non è un paleontologo praticante? Un grande interesse. È davvero unica l’esperienza di trovarsi di fronte, in un territorio già incantevole e inquietante di suo, meravigliosi dipinti e graffiti paleolitici: come quelli delle grotte di Khoid Tsenkher nell’aimag di Khovd, nell’Altai mongolo, più di mille chilometri a ovest della capitale.
Periodo successivo, Neolitico, diecimila anni fa: da queste steppe parte una migrazione massiccia lungo l’emisfero boreale verso l’Europa e l’America. Per averne le prove stavolta non occorre scavare: basta riconoscere i tratti comuni delle popolazioni mongole con quelle della Yakuzia, della Kamchatka, del circolo polare artico e dei nativi d’America. E l’eredità non si ferma alla genetica: l’etnia Tsaatan, 250 uomini che si nascondono con un migliaio di renne nelle foreste dei monti Sayan, al confine con la Siberia, vivono in tende chiamate urts, del tutto identiche a quelle dei “pellerossa”. Senza contare i riti sciamanici, nati nella Mongolia del Nord ed esercitati con identiche modalità nelle culture nordamericane. Risale all’età del bronzo, circa 3000 avanti Cristo, un altro stupefacente filo conduttore tra le culture asiatiche e quelle europee e americane: i petroglifi, l’incisione sulla pietra. In Mongolia esistono oltre duecento siti e migliaia di disegni, soprattutto nelle regioni occidentali dell’Altai: veri e propri capolavori artistici realizzati con pitture naturali o con la pressione di pietre o oggetti acuminati. Sono rappresentate soprattutto figure umane, stilizzate e bellissime, ma anche animali, astri e altre immagini misteriose, tanto che gli ufologi sono convinti che questi siano dei segni lasciati da creature extraterrestri. Ipotesi fantascientifica suggestiva, ma ancora più seducente la certezza terrestre: i disegni incisi cinquemila anni fa dai nomadi e dai cacciatori delle steppe mongole risultano perfettamente identici a quelli rinvenuti sulle pietre e nelle caverne dell’Arizona e dell’Europa. Gli uomini disegnati al Ciappo delle Conche sul Monte Cucco di Finale Ligure sembrano fotocopie di quelli che si possono ammirare nella regione di Khovd o Bayan-Ölghii.
La Mongolia è il Paese preferito dai ricercatori perché è immenso e riserva sempre sorprese, ma soprattutto ha un clima così freddo e secco che riesce a conservare i reperti come in un asettico frigorifero. Nel 1991 nella Val Senales si grida al miracolo quando salta fuori la mummia di Otzi: un uomo di cinquemila anni fa perfettamente imbalsamato dal gelo e oggi meta di pellegrinaggi al Museo archeologico dell’Alto Adige. Sedici anni dopo, nell’estate del 2007, gli studiosi del Deutsches Archaeologisches Institut fanno una scoperta ancora più impressionante proprio nelle lande mongole: un guerriero scita di 2.500 anni fa mummificato dal freddo ed estratto dalla terra quasi come nuovo, con l’espressione del viso addirittura riconoscibile. Ossa e tessuti sono accompagnati da un corredo di armi e ornamenti nel puro e meraviglioso stile della cultura scita. Nel maggio 2012 scoppia un vero e proprio caso diplomatico tra Mongolia e Stati Uniti: lo scheletro quasi completo di un tirannosauro rinvenuto nel Gobi, e trasportato chissà come a Dallas, viene battuto all’asta per oltre un milione di dollari. Dopo proteste che hanno visto protagonista lo stesso presidente Elbegdorj e indagini condotte da polizia mongola e statunitense, il prezioso reperto è tornato a casa qualche anno dopo. Nel 2014 anche l'attore Nicholas Cage ha una brutta sorpresa: sette anni prima si era aggiudicato un teschio di tarbosauro alla casa d'aste Im Chait Gallery, "scippandolo" al collega Leonardo Di Caprio per 230 mila dollari: poi la notizia dell'importazione illegale e la restituzione alla Mongolia.

Testo di Federico Pistone per mongolia.it