C’è almeno un motivo, molto valido, per fare di questa regione la tappa obbligata di un viaggio in Mongolia: il monastero di Amarbayasgalant, gioiello religioso, storico, architettonico e naturalistico, uno dei tre più importanti centri religiosi insieme a Gandan ed Erdene zuu. Basta percorrere un centinaio di chilometri a nord di Ulaanbaatar per entrare nel Selenghe, dominato da un paesaggio di bellezza pura e incontaminata, boschivo per il 42%, spezzato da fiumi leggendari come l’Orkhon e il Selenghe e dalle miniere d’oro e di carbone che stanno offrendo nuove opportunità di crescita economica a tutto il Paese. Non bisogna dimenticare che la Mongolia ha meno di tre milioni di abitanti e l’andamento economico avverte sbalzi con estrema facilità e rapidità. Il Selenghe produce il 40 per cento del grano di tutta la Mongolia e perfino un ottimo miele. Capoluogo è Sükhbaatar, 311 chilometri (di cui 260 asfaltati) da Ulaanbaatar, già in vista del confine russo. Siamo nel sum di Baruunbüren, sulla sponda del fiume Iven, sotto lo sguardo impassibile del monte Büren Khan. È una tranquilla cittadina di 20mila abitanti battezzata col nome del padre della nuova Mongolia, a cui è dedicata anche una regione orientale e il monumento al centro della piazza principale della capitale: Sükhbaatar, ministro della guerra durante la rivoluzione contro i cinesi nel 1921. Non c’è aeroporto, ma qui scorre la strada asfaltata sull’asse Ulaanbaatar-Darkhan, retaggio del dominio sovietico, e passa la ferrovia internazionale che proprio a Sükhbaatar si ferma alcune ore per ragioni tecniche e burocratiche. In città si trova qualche alberghetto di fortuna e un paio di ristoranti russi e cinesi. Il luogo più vicino e suggestivo per un’escursione è Tujiin Nars, un’area di 800 Kmq fra i sum di Shaamar e Altanbulag, un territorio piatto e boschivo, con colline basse, forse l’unica zona della Mongolia in cui ci si imbatte in strade asfaltate alberate. Va menzionato inoltre Soronzon Khad (Rocce magnetiche), nel sum di Khüder, per quanto piuttosto fuori mano. È una formazione rocciosa con un forte campo magnetico, un luogo ritenuto sacro dai mongoli e utilizzato nella medicina popolare: sdraiandosi sulle rocce, facendo bagni di terra o bevendo l’acqua del fiume Tömörtei si curerebbero reumatismi, schiena, affezioni agli arti, ai reni e finanche cardiopatie. Può essere infine un buon campo di esercitazioni per gli amanti della fotografia.
Monastero di Amarbayasgalant
Bellezza e saggezza si erano unite per dar vita al monastero di Amarbayasgalant (tranquillità e gioia, in lingua mongola), dono dell’imperatore manchu Enkh Amgalan Khan alla più grande autorità spirituale del Paese, Öndör Gegheen Zanabazar. Narra una leggenda che Amar e Bayasgalant fossero due bambini, un maschietto e una femminuccia, trovati a giocare nel luogo prima che fosse scelto per la costruzione, secondo la complessa geomanzia buddhista. I lavori avevano avuto inizio nell’anno del cavallo rosso (1726) e, dopo gran dispendio di leghe d’argento (circa 4.000 chili del prezioso metallo), si erano conclusi nell’anno del drago rosso (1736). Il monastero era frequentato da più di 6.000 lama e accoglieva la sapienza profonda dell’insegnamento di Zanabazar. Ma anche la ricchezza dei più fulgidi arredi sacri, reliquie, sutra, tankha e manufatti d’arte buddhista. Negli anni Trenta del Novecento, il ciclone sovietico travolse e distrusse senza pietà alcuna questo immenso patrimonio artistico. Ancor meno ebbe a cuore la sorte dei monaci, che furono tutti trucidati. Cinquant’anni di abbandono, rovine e oscurità passarono dolorosamente, fino a che la caduta del regime permise al popolo e al nuovo governo di onorare le proprie antiche tradizioni. E darsi a un restauro amoroso del monastero, che oggi è tornato a vivere e ospita una sessantina di monaci. Il momento più gioioso e commovente della nuova storia del monastero è stato probabilmente quello del settembre 2002, quando la cerimonia solenne dello Tsam è stata nuovamente danzata nel cortile dell’Amarbayasgalant dopo un’assenza dolorosa di ben 65 anni. Si conservano qui importantissimi sutra in mongolo del 1602, un’opera colossale di 113 volumi di Ganjuur (insegnamenti del Buddha) e 126 volumi di Danjuur (interpretazioni dei discepoli) di cui si sta curando una versione in cirillico-mongolo moderno. Il monastero appare a sorpresa dietro le vallate, all’ombra della catena montuosa dei Bürengiin nuruu e trasmette una suggestione senza confronti. Lo stile è puramente cinese, di colore prevalentemente rosso, con un perimetro di circa 150 per 200 metri. L’entrata principale è a sud, come le gher dei nomadi. C’è da pagare un biglietto di circa 3 euro, che raddoppia se si vogliono fare fotografie (tenete conto che questo è un monastero che ha bisogno costantemente di restauri e di opere di mantenimento). È molto piacevole passeggiare all’interno di questo cortile costellato da templi e riferimenti sacri, con timidi monaci bambini che pregano o che giocano a palla. Gli edifici sacri principali sono situati nella fascia longitudinale centrale, dalla porta d’ingresso fino al tempio, collocato sul fondo. Nelle zone laterali si susseguono edifici in rovina e, in fondo, le strutture che ospitano i monaci. Appena entrati sarete accolti dalla torre della campana a destra e dalla torre del tamburo a sinistra. Subito davanti a voi il tempio della divinità protettrice. Se non sono già aperti, dovete chiedere ai monaci le chiavi, per poter ammirare gli oggetti sacri e i tankha. Potete poi lasciare un’ulteriore offerta per la comunità.
Preceduto da due padiglioni, ecco il Tsogchin Dugan, il tempio principale a due piani. Splendido all’esterno, una volta entrati offre una spiritualità infinita con un arredo sacro imponente e nello stesso tempo semplice e assoluto. Nella sala principale vi sentirete osservati da Rinpoche Gurdava, anzi dalla statua a grandezza naturale del lama che nel 1992 fu l’artefice del restauro di questo monastero. Si possono anche ammirare altri 7 templi minori, accanto a due tombe eccellenti: quella del quarto Bogd Khan e di Zanabazar. Sul terreno di fronte al monastero vedrete impresse in gesso delle strane figure concentriche. È qui che durante l’anno si celebrano le antiche danze Tsam, una delle più grandi suggestioni della tradizione buddhista. (foto 1 e 2, di Federico Pistone)
Dulaankhaan
Sembra l’officina del dio Marte. A cinquanta chilometri da Darkhan, appena discosto dalla strada principale da Darkhan, sorge il villaggio di Dulaankhaan, che ospita una storica fabbrica di archi e frecce della Mongolia. Sono rimasti solo in una decina gli artigiani che sanno ancora plasmare le armi come ai tempi di Chinggis Khan. Per gli stranieri è un’occasione per acquistare arco e frecce a prezzi molto convenienti (meno di duecento dollari), considerata la cura e il tempo, circa quattro mesi, che occorrono per realizzarli. Importante però è avere la ricevuta originale e l’autorizzazione per l’esportazione.
Testo di Federico Pistone e Dulamdorj Tserendulam