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MICHELE GALGANI

La Mongolia è una serie di cilindri che girano, ognuno con una preghiera dentro che si diffonde nell’aria, e tutte le parole che le compongono salutano, avvolgono, inebriano e talvolta stordiscono chi le incontra. Hai come la sensazione, talvolta, di udirle queste preghiere, di udirne anche solo una mezza frase, e ti rinfranchi per il senso di pace che ti da. Altre volte vedi una parola passare e non sai da dove viene né dove va, ma sai di aver incontrato un piccolo filamento di una magica rete che ti avvolge e di cui fai parte dal momento che sbarchi dall’aereo e che si chiama, comunemente, Mongolia.

La Mongolia è, anzi sono, tanti, tanti animali che la posseggono, la brucano, la passeggiano in modo pacifico e apparentemente scontato. La Mongolia sono tanti tantissimi cavalli, sono capre e pecore, sono yak e aquile, sono formiche e scoiattoli, sono corvi e cani, lupi e marmotte. La Mongolia sono anche persone, ma al di fuori delle città, dove non ci sono recinti, tutti questi si confondono e si distinguono senza disarmonie, senza il bisogno di accordi scritti per vivere insieme quell’immenso territorio che al contempo li divora e li ospita.

La Mongolia è un bambino che cammina in mezzo al nulla. Sembra che non sappia da dove viene né dove va. Sembra deciso nel passo ma incerto nella meta. Sembra che stia bene nel verde in cui si trova, sembra parte di quel che gli accade, sembra un po’ solo, e chi osserva teme, giudica, prova a intuire se ce la farà ad andare in un posto sicuro, magari piacevole, senza sapere che quel posto lo ha già trovato.

 

La Mongolia è un uomo col suo cavallo, una relazione piena, intensa, fatta di gesti e poche parole, che ispira grande serenità, quasi invidia, per come si svolge senza interruzioni, senza discussioni, senza il timore che la relazione stessa finisca male o s’interrompa bruscamente. E’ un ponte, fra due esseri viventi, di cui si vedono le sembianze ma non i pilastri, di cui si ammira la solidità ma non se ne capisce la fatica e forse per questo ci fa sentire al sicuro.

La Mongolia è l’interrogativo sereno di chi prova a giocare con poco e si diverte con ancora meno.

 

La Mongolia è un padre chinato accanto al proprio figlio, non lo abbraccia, lo rispetta, lo affianca e lo custodisce mentre prova a guardare lontano.

La Mongolia è colore che rischiara il grigiore degli edifici russi, è il sorriso che spalanca il cuore di chi lo riceve, è la speranza di tanti bambini che vivono con semplicità e dignità le difficoltà, pur non sapendo se queste scompariranno, se gli adulti avranno di meglio da offrirgli, se potranno sorridere e giocare almeno fino a sera. La Mongolia è qualcuno che cerca di aiutarli, è molti che rischiano di dimenticarli.

La Mongolia è un posto dove alcune cose sembrano più preziose del solito. I sassi la ricoprono, eppure disposti in un certo modo divengono sacri. L’acqua, in molte zone, è una rarità. Quando appare disegna strade che sembrano percorsi di vita.

 

La Mongolia è un intreccio di strade, solchi, canali e vallate, scie e creste, che insieme disegnano un immenso reticolato di forme. Ogni direzione sembra sensata, ma sono poche quelle giuste. Solo i mongoli sembrano sapere quali sono. E se non lo sanno tentano. E se sbagliano riprovano. E’ normale, inutile arrabbiarsi.

 

La Mongolia è il cuore pulsante dell’Asia. Un cuore lento e silenzioso, che un tempo ha risuonato così forte che in tutto il mondo, o quasi, se ne sentivano i battiti, le vibrazioni vitali. La Mongolia un tempo era buona parte del mondo conosciuto. Oggi il mondo non conosce la Mongolia, mentre lei si affaccia e bussa timidamente alla porta delle nazioni.

 

La Mongolia è la capacità di muoversi con calma nella campagna e la terribile e sfacciata frenesia dei movimenti cittadini. Vecchi e nuovi mezzi si sfidano, come in una gara in cui i cavalli, per una volta, stanno a guardare.

La Mongolia è il paesaggio che ti stupisce. Quando non te lo aspetti, sei avvolto nei ricordi o distratto dai sobbalzi del tuo mezzo di trasporto, ti richiama a sé con maestosità e semplicità, attraverso il letto di un fiume, lo sguardo di uno yak, una corsa di cavalli, il volo di un’aquila, un canyon.

 

La Mongolia è il cratere di un vulcano spento che si gode il meritato riposo.

 

La Mongolia è acqua che si scioglie per pochi mesi all’anno e si lascia toccare come liquido che bagna, e non come strada che unisce, sponde lontane dello stesso lago.

 

La Mongolia è terra di motociclette che rendono meno lento, ma non sempre più agile, il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, da una gher a una casa, da una tenda all’altra, dal bestiame al mercato.

 

 

La Mongolia è tradizione che ti osserva ma non si impone, che si lascia guardare e talvolta annientare, è il colore di molte vesti che per molti secoli hanno reso importanti ed egualmente differenti i tanti gruppi etnici.


 

La Mongolia è un padre, una madre e un figlio su una motocicletta lenta e rumorosa che timidamente attraversa un ponte. La Mongolia è l’orgoglio con cui posano per farsi fotografare.

 

La Mongolia è un bambino che invece di giocare vende erba cipollina al mercato.

 

 

La Mongolia è un monaco buddista che prega perché non vengano più i russi a sterminare quelli come lui, perché possa continuare a pregare come indicano i libri sacri, e perché Buddha, che è di casa da tempo, possa continuare a vivere nei bellissimi templi rimasti in piedi e nelle anime dei mongoli che amano vivere pacificamente.

 

La Mongolia è un Ovòo in pietra o in legno, piccolo o grande, colorato, a volte coloratissimo, che sta lì, a ricordare agli uomini che passano, quanto tutto ciò che lo circonda sia speciale, sacro, da rispettare e onorare, in modo semplice ma deciso, come solo un cumulo di pietre può fare, e diffuso, costante, come di fatto accade in tutto questo paese.

La Mongolia è un incontro con le lande sterminate dell’animo umano: belle, immense da non vederne la fine, difficili da percorrere, affascinanti da visitare, impossibili da non amare, bisognose di persone che le vogliano rispettare.

 

Questo è quel pezzettino di Mongolia che sono riuscito a raccontare, è un pezzettino di quel che ho visto, di quel che mi è successo, e tutto questo sarà sempre e solo un pezzettino di quell’immensità di cose ed emozioni che è la Mongolia.

Anche le persone che incontri andandoci o con le quali fai il viaggio sono la Mongolia in quel momento. Io ne ho incontrate di meravigliose, mi sento fortunato di aver conosciuto questo paese anche attraverso i loro occhi.

La Mongolia è una serie di cilindri che girano, ognuno con una preghiera dentro che si diffonde nell’aria, e tutte le parole che le compongono salutano, avvolgono, inebriano e talvolta stordiscono chi le incontra. Hai come la sensazione, talvolta, di udirle queste preghiere, di udirne anche solo una mezza frase, e ti rinfranchi per il senso di pace che ti da. Altre volte vedi una parola passare e non sai da dove viene né dove va, ma sai di aver incontrato un piccolo filamento di una magica rete che ti avvolge e di cui fai parte dal momento che sbarchi dall’aereo e che si chiama, comunemente, Mongolia.

La Mongolia è, anzi sono, tanti, tanti animali che la posseggono, la brucano, la passeggiano in modo pacifico e apparentemente scontato. La Mongolia sono tanti tantissimi cavalli, sono capre e pecore, sono yak e aquile, sono formiche e scoiattoli, sono corvi e cani, lupi e marmotte. La Mongolia sono anche persone, ma al di fuori delle città, dove non ci sono recinti, tutti questi si confondono e si distinguono senza disarmonie, senza il bisogno di accordi scritti per vivere insieme quell’immenso territorio che al contempo li divora e li ospita.

La Mongolia è un bambino che cammina in mezzo al nulla. Sembra che non sappia da dove viene né dove va. Sembra deciso nel passo ma incerto nella meta. Sembra che stia bene nel verde in cui si trova, sembra parte di quel che gli accade, sembra un po’ solo, e chi osserva teme, giudica, prova a intuire se ce la farà ad andare in un posto sicuro, magari piacevole, senza sapere che quel posto lo ha già trovato.

 

La Mongolia è un uomo col suo cavallo, una relazione piena, intensa, fatta di gesti e poche parole, che ispira grande serenità, quasi invidia, per come si svolge senza interruzioni, senza discussioni, senza il timore che la relazione stessa finisca male o s’interrompa bruscamente. E’ un ponte, fra due esseri viventi, di cui si vedono le sembianze ma non i pilastri, di cui si ammira la solidità ma non se ne capisce la fatica e forse per questo ci fa sentire al sicuro.

La Mongolia è l’interrogativo sereno di chi prova a giocare con poco e si diverte con ancora meno.

 

La Mongolia è un padre chinato accanto al proprio figlio, non lo abbraccia, lo rispetta, lo affianca e lo custodisce mentre prova a guardare lontano.

La Mongolia è colore che rischiara il grigiore degli edifici russi, è il sorriso che spalanca il cuore di chi lo riceve, è la speranza di tanti bambini che vivono con semplicità e dignità le difficoltà, pur non sapendo se queste scompariranno, se gli adulti avranno di meglio da offrirgli, se potranno sorridere e giocare almeno fino a sera. La Mongolia è qualcuno che cerca di aiutarli, è molti che rischiano di dimenticarli.

La Mongolia è un posto dove alcune cose sembrano più preziose del solito. I sassi la ricoprono, eppure disposti in un certo modo divengono sacri. L’acqua, in molte zone, è una rarità. Quando appare disegna strade che sembrano percorsi di vita.

 

La Mongolia è un intreccio di strade, solchi, canali e vallate, scie e creste, che insieme disegnano un immenso reticolato di forme. Ogni direzione sembra sensata, ma sono poche quelle giuste. Solo i mongoli sembrano sapere quali sono. E se non lo sanno tentano. E se sbagliano riprovano. E’ normale, inutile arrabbiarsi.

 

La Mongolia è il cuore pulsante dell’Asia. Un cuore lento e silenzioso, che un tempo ha risuonato così forte che in tutto il mondo, o quasi, se ne sentivano i battiti, le vibrazioni vitali. La Mongolia un tempo era buona parte del mondo conosciuto. Oggi il mondo non conosce la Mongolia, mentre lei si affaccia e bussa timidamente alla porta delle nazioni.

 

La Mongolia è la capacità di muoversi con calma nella campagna e la terribile e sfacciata frenesia dei movimenti cittadini. Vecchi e nuovi mezzi si sfidano, come in una gara in cui i cavalli, per una volta, stanno a guardare.

La Mongolia è il paesaggio che ti stupisce. Quando non te lo aspetti, sei avvolto nei ricordi o distratto dai sobbalzi del tuo mezzo di trasporto, ti richiama a sé con maestosità e semplicità, attraverso il letto di un fiume, lo sguardo di uno yak, una corsa di cavalli, il volo di un’aquila, un canyon.

 

La Mongolia è il cratere di un vulcano spento che si gode il meritato riposo.

 

La Mongolia è acqua che si scioglie per pochi mesi all’anno e si lascia toccare come liquido che bagna, e non come strada che unisce, sponde lontane dello stesso lago.

 

La Mongolia è terra di motociclette che rendono meno lento, ma non sempre più agile, il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, da una gher a una casa, da una tenda all’altra, dal bestiame al mercato.

 

 

La Mongolia è tradizione che ti osserva ma non si impone, che si lascia guardare e talvolta annientare, è il colore di molte vesti che per molti secoli hanno reso importanti ed egualmente differenti i tanti gruppi etnici.


 

La Mongolia è un padre, una madre e un figlio su una motocicletta lenta e rumorosa che timidamente attraversa un ponte. La Mongolia è l’orgoglio con cui posano per farsi fotografare.

 

La Mongolia è un bambino che invece di giocare vende erba cipollina al mercato.

 

 

La Mongolia è un monaco buddista che prega perché non vengano più i russi a sterminare quelli come lui, perché possa continuare a pregare come indicano i libri sacri, e perché Buddha, che è di casa da tempo, possa continuare a vivere nei bellissimi templi rimasti in piedi e nelle anime dei mongoli che amano vivere pacificamente.

 

La Mongolia è un Ovòo in pietra o in legno, piccolo o grande, colorato, a volte coloratissimo, che sta lì, a ricordare agli uomini che passano, quanto tutto ciò che lo circonda sia speciale, sacro, da rispettare e onorare, in modo semplice ma deciso, come solo un cumulo di pietre può fare, e diffuso, costante, come di fatto accade in tutto questo paese.

La Mongolia è un incontro con le lande sterminate dell’animo umano: belle, immense da non vederne la fine, difficili da percorrere, affascinanti da visitare, impossibili da non amare, bisognose di persone che le vogliano rispettare.

 

Questo è quel pezzettino di Mongolia che sono riuscito a raccontare, è un pezzettino di quel che ho visto, di quel che mi è successo, e tutto questo sarà sempre e solo un pezzettino di quell’immensità di cose ed emozioni che è la Mongolia.

Anche le persone che incontri andandoci o con le quali fai il viaggio sono la Mongolia in quel momento. Io ne ho incontrate di meravigliose, mi sento fortunato di aver conosciuto questo paese anche attraverso i loro occhi.