Una delle regioni più suggestive e meno visitate della Mongolia, a circa 1120 chilometri da Ulaanbaatar. Chi è diretto al vicino Altai generalmente utilizza i voli interni saltando lo Zavkhan, mentre chi opta per l’itinerario settentrionale del Khövsgöl lambisce solo i confini di questa regione dai contrasti estremi: si passa da immani distese desertiche a vallate verdissime, in un contesto ambientale di pace e di ossessione insieme, con la cicatrice del terremoto del 23 luglio 1905 che attraversa la fascia settentrionale.
Lo Zavkhan è davvero un mosaico di tutto quello che si può incontrare in Mongolia ed è quindi consigliabile per chi ama l’eremitaggio e l’avventura. La regione offre infatti un’area di foreste e laghi in technicolor. Verde profondo, bianco delle cime innevate (qui si spinge infatti il fianco occidentale del Khangai nuruu) turchese e blu cobalto di fiumi (Ider, Tes, Khün e il più lungo, Zavkhan) e laghi (tra cui spicca con i suoi 200 kmq il Telmen), fiumi e laghi che si contano a centinaia e fanno di questa regione la più ricca di risorse idriche della Mongolia. A "disturbarvi", solo gli animali selvatici: cervi, stambecchi, antilopi, nibbi, aquile, pellicani, linci e cinghiali (questi ultimi però solitamente non amano incontrare i turisti).
Ma c’è spazio anche per una Mongolia dalla bellezza più aspra e sdegnosa di emozioni facili. In questo aimag trovate infatti la duna di sabbia più grande dello stato (Mongol Els, Bor Khyar) puro splendore minerale. E i grandi deserti cosparsi di laghi salati dei confini occidentale e meridionale, là dove la pioggia è evento raro e si concede davvero col contagocce. Prosperano in modo particolare in questa regione gli allevamenti dei “5 becchi”, cammelli compresi, e non manca una folta rappresentanza di yak. Qui, dove le temperature possono variare da –53 a +38, si trova la città più fredda della Mongolia e tra le più fredde del mondo, Tosontsenghel (con picchi storici vicini ai 60 sottozero).
Scarse le strutture ricettive, ricchissime le suggestioni. A partire dal capoluogo Uliastai, leggendario avanposto evocato da Ossendovski in Bestie, uomini e dei nel 1922. Oggi è un’isolata cittadina di ventimila persone, raggiungibile però con due ore di aereo dalla capitale (distante un migliaio di chilometri). Contrariamente a quasi tutti gli altri capoluoghi, che hanno l’aeroporto appena fuori città, questo si trova a ben 35 chilometri (più vicino ad Aldarkhaan), a suggellare ulteriormente una sorta di clausura dal mondo esterno.
Tre chilometri a nord est di Uliastai si possono ancora intravedere i resti della fortezza che i manchu eressero nel Settecento per arginare gli assalti dei ribelli mongoli provenienti dalle regioni circostanti. Questa fortificazione venne definitivamente abbandonata nel 1921 con la sconfitta dei cinesi. In città due musei valgono una veloce visita: quello di storia, che ospita una collezione assai variegata (ossa di mammuth, strumenti di tortura manchu, statue religiose, una maschera di corallo indossata nelle danze tsam) e quello delle celebrità che comprende anche statue di personaggi ancora vivi, come l’ex presidente della repubblica Bagabandi. Una ventina di monaci si raccolgono ogni mattina alle 10 nel moderno monastero di Tögs Buyant Javkhlant: un’occasione per assistere in pace alle funzioni lamaiste. Vicino al monastero sorge una collina (Javkhlant tolgoi) sulla cui sommità svetta un padiglione con nove stupa da cui si ammira un attraente panorama che spazia fino ai resti della guarnigione manchu.
Dune Bor khyar (Bor khyar els)
Semi incorniciate dal fiume Hünghiin, a 450 m s.l.m., le dune di Bor khyar attraversano quattro province da Urgamal fino a Yaruu per 180 km, coprendo un’area totale di circa 1500 kmq. La sabbia, nei tratti in cui è raggiunta dalle infiltrazioni del fiume Hünghiin o altre vene, è umida e compatta.
È un vero peccato che queste zone, pressoché sconosciute ai viaggiatori, siano remote e difficili da raggiungere, perché offrono un susseguirsi di paesaggi incantevoli, dipinti di sabbia, sprazzi di verde e sorprendenti specchi d’acqua. Si tenga conto comunque del grande sviluppo a cui si sta assistendo in Mongolia sia del turismo interno che della rete stradale e che gli itinerari più impervi si vanno mano a mano facendo sempre più percorribili. A 30 km da Santmargats si incontra Bayan nuur, un trasparente lago d’acqua dolce poi, nel territorio di Erdenekhairkhan, a 110 Km da Uliastai, appare un altro specchio d’acqua dolce, Ulaagchny Khar Nuur, un habitat dove prosperano flora e fauna, in particolare numerose specie di uccelli che nidificano nelle tre isole del lago.
La bellezza della natura, incastonata fra le dune del deserto a nord e le montagne a sud, ha valso al lago il soprannome di “perla del Khangai”. Nella parte sud di Bor khyar els appare come dal nulla e inaspettatamente un fiume, Mukhart gol, ornato da un bosco di salici e variegato con i colori di piante selvatiche quali cumino, genziana, rose selvatiche, ribes. È una vera e propria oasi. Completa lo scenario un boschetto di olivelli spinosi, piantato dai nomadi. Ad Ulaagchny Khar nuur anche la possibilità di una gita in barca.
Sorgente Bayanzürkh rashaan
A nord della regione, proprio sulla linea del terremoto, si è creata Bayanzürkh rashaan, una sorgente molto ricca di calcio, sodio, magnesio, utilizzata dai mongoli per curare disturbi digestivi e del fegato.
Laghi Oigon, Kholboo, Telmen nuur
Sono i tre grandi laghi raccolti nelle vallate del Khangai, a nord della regione, proprio sotto la faglia sismica. Il Telmen nuur è il più grande (198 kmq, quasi come il nostro lago Maggiore), l’Oigon nuur (65) e il Kholboo nuur (50). Le rive sono spoglie e l’atmosfera è sempre molto misteriosa. O desolante, a seconda dei punti di vista.
Tosontsenghel
Cento chilometri a nordest di Uliastai, Tosontsenghel è la seconda città dell’aimag e importante centro di raccordo per le comunicazioni fra il centro e le regioni orientali. Dispone anche di un aeroporto dove spesso fanno scalo i voli diretti all’Altai. D’inverno è la località tra le più fredde della Mongolia e del mondo. Ottimo punto di appoggio per gite nei meravigliosi paraggi.
Passo Zagastain davaa
A 2.500 metri di quota, 50 chilometri a nord di Uliastai, si attraversa lo Zagastain davaa, maestoso “passo del pesce” che offre panorami incantevoli. Sulla sommità si trova un ovoo formato gigante.
Riserva Naturale Otgontengher
Otgontengher si può tradurre, con generosa approssimazione, in “cielo minore”, gentile e fantasiosa oronimia che vuole indicare il punto più basso da cui si arriverebbe a sfiorare il cielo. È meglio conosciuto come Bogd Ochirvani, versione mongola di Vajrapani o Vagrapani, uno dei cinque Dhyanibodhisattvas. La divinità è rappresentata con un’imponente statua che si erige nella circostante vallata. È la montagna più elevata della catena del Khangai e la seconda della Mongolia. Fa litigare un po’ tutti. I geologi, che non si mettono d’accordo sulla sua effettiva altitudine: chi la classifica sopra, chi sotto i quattromila di quota (le misurazioni più attendibili attestano un’altezza di 4.021 metri). I mongoli, che la ritengono sacra e guardano in cagnesco e a ragione i turisti che vogliono scalarla, considerato che la montagna è fra le più venerate del paese, celebrata ogni quattro anni con una cerimonia a cui intervengono le più importanti autorità dello Stato. E i turisti stessi, che negli ultimi anni si trovano la strada sbarrata da cartelli di divieto di escursione. Il monte, la cui sommità è eternamente ricoperta di neve, dal 1992 fa parte di un’area strettamente protetta di 955 kmq a una sessantina di chilometri da Uliastai. L’area è costellata da otto laghi, correlati e identificati con gli otto simboli del buddhismo. È il regno dei cervi rossi e dell’ibex siberiano, oltre che di una flora particolarmente ricca con piante rare e protette, come la leggendaria saussurea involucrata (Vansemberüü) da cui si ricavano distillati farmaceutici, la Adonis mongolica, una sorta di margheritona gialla e cinque varietà di Ginepro, importante essenza della liturgia buddhista e a tal fine i nomadi la raccolgono ma solo dopo aver invocato Ochirvani. Venti chilometri a sud della montagna, sgorgano trenta sorgenti che raggiungono anche la temperatura di 50 gradi. La zona è molto frequentata dai mongoli che trovano quasi miracolose queste terme, scoperte nel 1912 e ricche di solfato, bicarbonato e soda. C’è anche una struttura destinata ai visitatori che possono alloggiare e godersi bagni salutari per una quarantina di dollari al giorno. (foto 1, dipinto di Tsogbayar Chuluunbaatar)
Il nome dell’aimag, ma soprattutto la sua notorietà, derivano dal lago Khövsgöl, una delle mete irrinunciabili del turismo in Mongolia. La regione è caratterizzata da una natura spettacolare che esplode nella zona più a nord al confine siberiano con scenari incantevoli di laghi, foreste e montagne.
Qui vivono molte minoranze, tra cui quella degli Tsaatan, i duecentocinquanta Uomini renna che riescono a sopravvivere nella taiga dei monti Sayan. D’estate la regione diventa un eden di verde fiorito, interrotto solo dai corsi d’acqua cristallini, ingrossati dai brevi ma violenti acquazzoni. Un ambiente che molti paragonano a quello svizzero.
D’inverno le temperature precipitano (a gennaio la media è di 24 sottozero) e il paesaggio si congela, in preparazione del nuovo risveglio, atteso da 120 mila nomadi (Khalkh, Buriati, Darkhad, Khotgoid e Tsaatan) e da due milioni di animali, soprattutto pecore e yak. In questa regione i sovietici avevano installato già dagli anni Trenta una manciata di fabbriche (alcune ancora in attività) legate soprattutto al legno, al pesce e all’abbigliamento. Lo scopo non era solo quello di sfruttare le risorse del territorio, ma anche di togliere dallo stato di nomadismo le popolazioni della taiga, offrire un lavoro e un’abitazione stabile, catalogarle e riscuotere le tasse. Solo gli Tsaatan sono riusciti a sfuggire a questo miraggio, mantenendo a caro prezzo la loro condizione di nomadismo estremo. Da Mörön, il capoluogo dell’aimag, transitano molti viaggiatori destinati al lago Khövsgöl, cento chilometri a nord.
Mörön (che si pronuncia con le o molto chiuse, significato: fiume o laguna) ha un aeroporto molto dinamico e affollato, distante 5 chilometri dal centro città. Da Ulaanbaatar ci vogliono circa due ore di volo mentre in fuoristrada bisogna calcolare almeno 1 giorno di viaggio. Fino a Mörön si viaggia su strada asfaltata: è una cittadina polverosa di 35.000 abitanti molto amichevoli, soprattutto i giovani, sempre disponibili a scambiare due parole in inglese con gli stranieri.
Qualcuno segnala negli ultimi tempi episodi di aggressioni e furti: evidentemente il crescente turismo di passaggio per il lago ha portato questo accenno di delinquenza. Qui c’è poco ma tutto: alberghetti, guesthouse, ristorantini, una banca, un ufficio postale, perfino una sauna. Ma soprattutto c’è un mercato gigantesco e fornitissimo, un chilometro e mezzo a nord ovest del centro.
A cinquecento metri dalla piazza principale, che qui chiamano pomposamente “Town square” ma che è poco più di uno slargo, verso l’aeroporto, si può visitare il monastero Danzandarjaa, ricostruito nel 1990: oggi ospita una trentina di monaci. Alle porte della città è nato il nuovissimo e sontuoso Palazzo dei lottatori, vero vanto della gente del posto.
Parco nazionale Khövsgöl nuur
Qui lo chiamano “il mare” per la sua limpidezza ed estensione (134 chilometri per 39) e anche per la profondità, che raggiunge i 262 metri. Il Khövsgöl nuur si pone come un immenso divisorio fra due aree orograficamente ben distinte: a ovest le montagne, dominate da Mönkh Saridag (3.493 m), svettano oltre i 2.500 m, con pareti a strapiombo; a est i rilievi si fanno più dolci, le cime si arrotondano e l’altitudine oscilla fra i 1.700 e i 2.100 m. Il 2 per cento delle acque dolci del pianeta sono contenute nel lago Khövsgöl, pompato da novantasei fiumi immissari e con un solo emissario, l’Eghiin gol (fiume Eg). L’Eghiin gol va poi a confluire nel Selenghe che a sua volta, percorsi un migliaio di chilometri, va a riversarsi nel Baikal. Khövsgöl e Baikal, oggi lontani duecento chilometri, anticamente erano collegati e, secondo alcuni ricercatori, tuttora esisterebbe un canale sotterraneo che unisce i due grandi laghi.
La bellezza del Khövsgöl deriva anche dal contesto, una corona di montagne ricoperte di foreste di larici e betulle. Insieme al Gobi e a Karakorum, il Khövsgöl è la maggiore attrattiva mongola sia per gli abitanti di UB che per i forestieri, che qui possono passeggiare, arrampicarsi, cavalcare, nuotare, remare, pescare o semplicemente bearsi degli stupefacenti scenari dove convivono armoniosamente nomadi, yak e animali selvatici. Nel lago dimorano quattro isole che possono essere raggiunte in barca per trascorrere una splendida giornata, immersi nella natura. Nelle acque trasparenti nuotano salmoni, storioni, trote. Il grande afflusso di visitatori, sempre più numeroso, comincia a destare qualche preoccupazione, tenuto conto della grande importanza come riserve d’acqua dolce del Khövsgöl e del Baikal, non solo per l’Asia ma per tutto il pianeta. Il lago è ghiacciato per buona parte dell’anno (con uno spessore di quasi un metro e mezzo) e si scongela solo nel mese di giugno. D’inverno il Khövsgöl diventa un incredibile corridoio stradale per auto e camion: ogni anno però si registrano decine di incidenti con automezzi inghiottiti dal ghiaccio che cede sotto il peso del traffico. I campi gher stanno spuntando come funghi intorno al lago, dalla propaggine meridionale di Khatgal salendo verso la sponda occidentale. Dall’inizio del Novecento un traghetto a vapore fa la spola tra Khatgal e Khankh, all’estremità settentrionale, pochi chilometri dal confine russo.
È possibile anche campeggiare liberamente lungo le rive del lago, con l’accortezza di mantenere una certa distanza dalle gher dei nomadi per non occupare il loro territorio virtuale. Attenzione, d’estate, alle zanzare e ai tafani, meglio premunirsi. Dal 1992 l’area del Khövsgöl è diventata parco naturale per proteggere l’ambiente: la vegetazione (adonis sibirica, saxifraga hirculus, valeriana officinalis e saussurea involucrata) e la fauna (in particolare leopardo delle nevi, renna, ibex siberiano, castoro, alce, cervo rosso, lupo, orso bruno, lince, cinghiale, cicogna nera, falco pescatore e chiurlo, picchio blu, gru, anatre, cigni). Khatgal era un avamposto manchu nel XVIII secolo, trasformato in città di frontiera e sede di varie industrie nel periodo sovietico e oggi porta d’accesso alle escursioni per il Khövsgöl.
Ci sono vari alberghi, dal più confortevole (il Blue Pearl, circa 30 euro a notte) ai più avventurosi. Numerose anche le agenzie che offrono tour più o meno eco-sostenibili, in jeep, a cavallo, in kayak, in barca, a piedi. La cittadina è punto di partenza per una passeggiata che attraverso due sentieri (uno di dieci chilometri lungo la riva, l’altro un po’ più lungo) conduce a piedi al lago. Sempre a Khatgal si assiste al mesto rito degli Tsaatan (o darkhad che fingono di essere tsaatan) disposti a farsi fotografare in cambio di denaro. Generalmente i viaggiatori si muovono verso il versante occidentale del lago, punto privilegiato per ammirare scorci indimenticabili del Khövsgöl, a Jankhai e Toilogt fino alle sorgenti di Khar-Us. A questo punto la strada diventa quasi impraticabile, se non in sella a uno degli indomiti cavalli mongoli. All’altezza di Jigheliin Am, a metà sponda, parte la pista che raggiunge dopo quaranta chilometri Renchinlkhumbe (vivace villaggio con un campo gher) e dopo ottanta Tsagaan nuur. La sponda orientale è poco frequentata e il motivo c’è: la strada è impervia, distante dal lago e non molto panoramica. Però può essere un’alternativa selvatica all’affollata sponda opposta.
Khoridol Saridag e Darkhadyn Khotgor
Queste due meraviglie disegnate dal tempo si susseguono a ovest del lago Khövsgöl. Prima la catena di Khoridol Saridag, fra Ulaan-uul e Renchinlkhumbe, un gigantesco séparé fatto di montagne coperte da neve perenne che svettano a oltre tremila di quota e custodiscono ecosistemi unici al mondo, tenuti sotto osservazione dai ricercatori internazionali. La loro biodiversità permette la vita di specie endemiche della fauna e della flora. Area protetta dal 1997, ha fra i suoi Guinness anche la cascata più alta della Mongolia, Arsai khürkhree (70 m). A sud di Khoridol Saridag, sulla via fra Khatgal e Ulaan-uul, in cima al passo collinoso di Öliin Khalzan, appaiono i “13 ovoo di Darkhad” a forma di urts, ovvero come una tenda Tsaatan. Il 13 è un numero sacro per l’etnia Darkhad e rappresenta dieci direzioni e tre tempi. Il luogo è stato scelto perché in possesso di grande energia. Fra le province di Tsagaan nuur, Renchinlkhümbe e Ulaan-uul, si distende per 150 km, in un rettangolo irregolare, la depressione di Darkhad (Darkhadyn Khotgor). È a soli cinquanta chilometri a ovest del Khövsgöl ed era un lago altrettanto immenso prima di prosciugarsi e formare la depressione attuale. Oggi l’area, protetta da una catena montuosa, è arricchita da 24 sorgenti termali e centinaia di piccoli laghi e fiumi che garantiscono un’imponente produzione ittica, fra cui il gigantesco taimen, il salmone siberiano, minacciato dalla pesca indiscriminata.
Ancora più sfortunato e perseguitato del taimen, ignaro colpevole di avere carni prelibate e proprietà curative, è il Coregonus pidschan, comunemente denominato Pesce bianco di Darkhad, i cui ultimi esemplari vivono probabilmente solo in quest’area. Entrambe le specie sono a grave rischio d’estinzione. Da qui nasce la sorgente del Selenghe. La taiga del Khövsgöl è rappresentata per il 70% in questa depressione, con i suoi larici siberiani che, nella zona del fiume Kharuu (Kharuuny gol), arrivano a 45 m. Ancora in quest’area possiamo incontrare l’alce, il mammifero più imponente della Mongolia, e le renne bianche, anche loro minacciate sia dal deterioramento genetico, dovuto alla povertà dei necessari incroci, sia alla diminuzione di un lichene, loro alimento fondamentale, che cresce solo in queste zone. Molte le associazioni che si stanno attivando in loro difesa. Amarus in fundo, segnaliamo una funesta presenza di zanzare.
Tsagaan nuur e gli Uomini renna
È molto sottile, quasi indecifrabile, il fascino di questo villaggio fuori dal mondo. Tsagaan nuur, “lago bianco”, prende il nome del vasto specchio d’acqua che costeggia questo strano paese fatto di baracche di legno sparpagliate nella steppa, a ridosso della foresta. È l’ultimo villaggio raggiungibile con i fuoristrada prima di avventurarsi, a cavallo, nella taiga popolata dagli Tsaatan.
È tra le sei zone più proibitive e inospitali del pianeta secondo uno studio universitario americano. Siamo nella propaggine settentrionale della Mongolia, al confine con la Repubblica di Tuva. Nascosti nelle foreste dei monti Sayan, duecentotrenta “uomini renna” sopravvivono da secoli alle minacce più terribili pur di mantenere intatte le antiche radici. Il governo sovietico degli anni 30 ha provato a stanarli, prima, inutilmente, con le armi poi con l’illusione di un lavoro e di una vita sedentaria nel villaggio di Tsagaan nuur, costruito dal nulla proprio con questo obiettivo.
Ma loro non si sono lasciati blandire e hanno continuato a seguire i sentieri invisibili degli antenati, a stretto contatto con un migliaio di renne, che forniscono loro tutto quello che è necessario per sopravvivere, dal latte alla carne, dalle pelli ai riferimenti spirituali (la renna è animale sacro). Per questo i mongoli, un po’ sdegnosamente, li chiamano Tsaatan, “uomini renna”, a sottolineare la loro “selvaticità”. Qui la temperatura scende fino a sessanta sottozero e i lupi minacciano costantemente gli accampamenti, formati da una serie di tende coniche (urts), proprio come quelle degli indiani d’America. Anche usi, costumi e tratti somatici rimandano ai nativi americani e agli inuit, a testimoniare la grande migrazione avvenuta nell’antichità lungo il corridoio boreale. Gli Tsaatan sono di origine turco-altaica e parlano un dialetto che richiama vagamente la lingua turca. Sono molto legati ai riti sciamanici e, anche quando lo sciamano muore, continuano a chiedere riti presso le sue spoglie nascoste nella taiga. Ma il vero rischio di estinzione per gli Tsaatan è cominciato dopo il 1990, quando la Repubblica di Tuva, divenuta autonoma, ha chiuso i confini e gli “uomini renna”, abituati a lunghe migrazioni con le mandrie, sono rimasti imprigionati nei territori mongoli: questa situazione ha portato a una vera e propria crisi spirituale, poiché venivano interrotti i loro sacri sentieri, ma anche a una gravissima minaccia sanitaria.
La riduzione dei loro spostamenti ha costretto le renne a entrare in contatto con escrementi delle greggi e la conseguente epidemia di brucellosi, che ha decimato gli animali e messo a rischio la vita degli stessi uomini. Alcune spedizioni di antropologi e studiosi italiani, fra cui David Bellatalla e Dino De Toffol, hanno permesso a questa meravigliosa etnia di sopravvivere. Ora c’è un’altra minaccia davvero pericolosa: il turismo. Sono sempre di più i viaggiatori stranieri che inseriscono nel loro programma una “visitina” agli Tsaatan. Soprattutto le nuove generazioni di Uomini renna cominciano a mettere in discussione le proprie origini e le antichissime tradizioni. Con i dollari offerti dai turisti possono comprare vodka a volontà nei piccoli empori di Tsagaan nuur, con poca voglia di ritornare agli accampamenti sulle montagne. Una sfida anche alla commovente convinzione di Gombo, il “re” degli Tsaatan, la cui storia poetica e drammatica è raccontata nel libro Uomini renna (Federico Pistone, Edt).
“Dice di avere cinquantatré anni ma il viso graffiato dal gelo e gli occhi velati dalla congiuntivite gli consegnano un fiero aspetto di ottantenne. Quando smonta da cavallo, Gombo è un mezzo uomo che si trascina a compasso sulle gambe arcuate, come un soldatino staccato dal supporto equestre. Appena si rimette in sella, torna a essere un animale mitologico, perfetto… “Il mio popolo”, racconta Gombo, “sa come affrontare il freddo e gli animali della foresta. Parla agli alberi e alle montagne, sa anche leggere e scrivere. Conosce il mondo senza aver mai abbandonato la taiga. I miei figli e i miei nipoti continueranno a studiare, così potranno scegliere il loro destino. Nessuno è obbligato a restare qui, per questo nessuno se ne andrà”. Nella foto 4 di Federico Pistone, i bambini Tsaatan sulle loro renne
Grotta Dayan Deerkhi (Dayan Deerkhiin agui)
Secondo la leggenda Dayan Deerkhi era uno sciamano così potente da riuscire impunemente a rapire una figlia di Chinggis Khan. Invano il grande condottiero lo avrebbe inseguito fino a questa grotta dove lo sciamano nascose la principessa e si trasformò in una Khün chuluu, una statua-uomo. A tale prodigio Chinggis Khan riconobbe la grandezza, l’autorità e la santità dello sciamano e da allora questa grotta, una delle più grandi della Mongolia, è meta di pellegrinaggio di monaci e fedeli, così come le rovine di un antico monastero situate vicino al fiume Üür. È una caverna situata a 35 chilometri da Tsagaan-Üür, in una zona popolata da una numerosa comunità buriata. La grotta, sacra a buddhisti e a sciamani, è scavata in una montagna calcarea risalente all’era Mesozoica (Nomkhon Uul, Monte Docile). All’interno, a cui si può accedere da tre ingressi, in un’area di circa 450 metri quadri, vi sono acque termali, diverse stanze e un passaggio chiamato “la vulva materna”: attraversandolo si è come rinati, assolti dai propri peccati ed è questo uno dei motivi principali del pellegrinaggio. Dayan Deerkhi agui è circondata da una natura incantevole e dal 2006 è un’area a protezione speciale in quanto luogo sacro.
Olon golyn belchir (confluenza di più fiumi)
È un canto della natura, un angolo superstite di paradiso terrestre dove i fiumi Ider, Bugsei, Delgher Mörön e Chuluut confluiscono e danno origine al Selenghe.
L'Olon golyn belchir è situata 30 km a sud di Tömörbulag e 110 km da Mörön, ovvero due ore di viaggio. Il campo turistico di Tavan gol, in grado di ospitare 40-50 persone, offre un’ampia gamma di attività ricreative: kayak, gite in barca, passeggiate a cavallo, mountain bike, trekking, itinerari personalizzati e, inaspettatamente, per i più curiosi e fantasiosi, la possibilità di osservare il cielo notturno con un telescopio Celestron e ascoltare lezioni di astronomia.
Nella zona, con una breve passeggiata, si incontrano una trentina di “pietre cervo”, megaliti dell’età del bronzo legati a culti sciamanici (raffiguranti principalmente animali con le corna) e una formazione di centinaia di massi ricchi di antiche incisioni rupestri.
Regione verde, verdissima, dalla steppa prima arida e poi salendo sempre più rigogliosa fino alle sontuose foreste che annunciano la Siberia. È un territorio molto ondulato con un’altitudine che oscilla dai 900 ai 2000 metri. E i due grandi fiumi, l’Orkhon e il Selenghe (il più lungo della Mongolia), si rincorrono prima di incontrarsi proprio sul confine russo. Il Bulgan, raggiungibile in una giornata da Ulaanbaatar (il confine è a soli 150 chilometri) e tappa obbligata per chi va o torna dal Khövsgöl via terra, ha molte risorse economiche, fra le regioni mongole è classificata al quinto posto per l’allevamento e al terzo per l’agricoltura: si coltiva il grano e altri prodotti della terra, si raccolgono frutti e bacche utilizzati soprattutto dall’industria farmaceutica, si utilizza la generosa disponibilità di legname. Ma la vera ricchezza sono le miniere d’oro, di rame, di carbone e di molibdeno. Il suo fascino invece è dovuto alla mancanza di attrattive di particolare rinomanza cosicché, non essendo in genere molto considerato per un itinerario di viaggio, conserva una sua bellezza immacolata e genuina, altrove sempre più rara. Di rinomato, ma solo per i mongoli, c’è l’airag di Saikhan, considerato il migliore della Mongolia (insieme all’airag di Khotont, nell’Arkhangai). L’aimag è popolato soprattutto dai Buriati, legati a filo doppio allo sciamanismo e poco propensi all’utilizzo delle gher, sostituite da costruzioni stabili in legno. La città di Bulgan, poco più di diecimila abitanti, ha tutto quello che serve per una gradevole sosta: semplici sistemazioni in alberghetti, guanz e ristorantini cinesi, internet café, una banca, un ufficio postale, un mercato ricco di sorprese, oltre al solito museo dell’aimag (con una mostra sull’astronauta mongolo Gürragchaa) e a un museo etnografico.
Tre chilometri a sud ovest di Bulgan si trova il monastero Dashchoin Khorlon, oggi occupato da una trentina di monaci, sulle rovine dell’antico Banghiin Khüree, raso al suolo dal governo di Choibalsan che dispose anche l’esecuzione con un colpo alla nuca di un migliaio di monaci. Intorno a Bulgan si osservano reperti antichi di estremo interesse come lo Züün Türüünii Khün chuluu, una roccia con antiche incisioni commemorative (sei chilometri a nord) e le Seeriin Adigyn Bugan Khöshöö (venti chilometri a sud est di Bulgan), “pietre cervo”, realizzate circa 2.500 anni fa. Per gli appassionati di questo genere d’imperdibile arte d’antan, 75 chilometri più a sud c’è il sito di Tsakhiurt, istituito e protetto dal 1971, con splendide steli antiche. (foto 1, di Bayar Balgantseren)
Riserva Naturale Uran togoo
Uran togoo è un vulcano inattivo nel sum di Khutag-Öndör, lungo la strada asfaltata che unisce UB a Mörön, un’ottantina di chilometri a ovest di Bulgan. L’abbondanza di rettili nell’area fa presumere un’attività geotermica a sostegno di un terreno elettivo. La riserva è stata istituita nel 1965 per salvaguardare piante e animali della steppa e della taiga. Il vulcano, la cui bocca ha un diametro di 500-600 metri, è coperto da un manto di larici, pioppi e betulle e, in fondo al suo cono, un minuscolo laghetto è stazione estiva di passaggio della Casarca ferruginea, un’anatra migratoria dal nobile aspetto.
A 12 km da Uran togoo si incontrano altri tre vulcani inattivi, Tulga, Togoo e Jalavch. Per chi va o arriva dal lago Khövsgöl questa è un’ottima zona per una sosta o anche per il pernottamento, senza necessariamente spingersi fino a Bulgan. All’ombra dei vulcani, c’è un piacevolissimo campo gher, chiamato Unit (dal nome della località) che propone una quindicina di gher, frequentate anche da vip e personaggi politici locali.
Riserva di Khögnö Tarna
I due nomi indicano rispettivamente un monte e un fiume. Il Khögnö Tarna è un territorio di 84.390 ha che attraversa i sum di Gurvanbulag, Rashaant e Bürd (quest’ultimo dell’Övörkhangai) divenuto area protetta nel 1997 al fine di salvaguardare le risorse naturali e incrementare il turismo. Una scelta e una strategia volte a bilanciare e a controllare l’attività, a volte indiscriminata, degli allevatori nomadi e degli addetti all’agricoltura. In questa riserva naturalistica hanno così trovato un sicuro rifugio centinaia di specie animali e vegetali, molte delle quali rare e particolari. Essenze tipiche della taiga e della steppa si ritrovano accomunate in quest’area, in una scenografia ideale per un film di fantasy: montagne granitiche, ai cui piedi si incontrano la foresta, la steppa e le dune, abbracciate dal nastro verde-azzurro del fiume Tarna. In realtà è proprio qui che si è girato uno dei film più celebri della Mongolia “La saggia regina Mandukhai”. Ai piedi del Khögnö Khan, ricco di sorgenti, larici e betulle si accompagnano insolitamente a un bosco di pini siberiani mentre, lungo il fiume Tarna, si fanno compagnia salici e padi (ciliegi degli uccelli). In alternativa a un sano vagabondare si possono visitare due templi denominati “l’anziano” e “il giovane” (Övgönii khiid e Erdene khambyn khiid).
Siti archeologici
Nell’aimag di Bulgan importanti siti ci aiutano ad arricchire quel poco che sappiamo dell’antica storia e civiltà della Mongolia. A 14 Km da Khutag-Öndör, nella valle del Selenghe, vi sono i resti della città uigurica Bai Balik (per i nomadi Bii Bulag) costruita da Re Moyunchur (come descritto sulla stele di Mogoit Shine Us, nel Saikhan Sum). La città era difesa da un muro di cinta alto 4 metri e profondo 2, difesa che non fu sufficiente ad evitare la distruzione da parte dei Kirghisi dello Yenisei nell’840 d.C. Caduto l’impero uigurico della Mongolia, il regno successivo più importante fu quello dei Khitan o Qitai, probabilmente una popolazione mista mongola, turca e tungusa. Il termine Qitai divenne così comune da indicare in seguito anche i cinesi e la Cina. Scritti Khitan su laterizi sono stati trovati fra le rovine di Khar Bukh, a 12 km da Dashinchilen; moltissimi reperti dell’impero Khitan anche nel sito di Chin Tolgoi, a 16 km da Dashinchilen. Infine di notevole interesse archeologico la collina di Shiveet-Ulaan, a 25 km da Bayan-Agt, risalente al tardo periodo Turuk, dove spiccano 9 pietre-uomo, 4 leoni e 4 montoni di pietra.
La regione dell'Orkhon comprende due sum, Jargalant e Bayan-Öndör, più la città di Erdenet. Istituito nel 1994, questo aimag circondato dal Bulgan eredita il nome dal fiume che, paradossalmente, non tocca nemmeno il suo territorio ma lo lambisce soltanto. La regione converge sul capoluogo Erdenet, città costruita dai sovietici nel 1974 e particolarmente amata dai mongoli che la descrivono come un gioiellino. Ha quasi ottantamila abitanti e ormai ha superato Darkhan come seconda città mongola per popolazione. Il fulcro economico e sociale della zona è l’immensa miniera di rame e molibdeno, una delle più grandi del mondo: funziona 24 ore al giorno tutto l’anno, offre lavoro a circa ottomila operai, produce circa il 40 per cento delle esportazioni totali del Paese e richiede la metà dell’elettricità consumata in tutta la Mongolia, che è il terzo paese al mondo per produzione di rame.
La miniera si trova a nord della città ed è visitabile con un permesso, che può essere rilasciato anche all’ingresso. In alternativa, il museo dell’aimag propone un plastico della miniera. Erdenet è anche un importante centro industriale e commerciale, con attività che vanno dalla produzione di tappeti all’industria alimentare. È collegata a Ulaanbaatar da una comoda strada asfaltata (371 chilometri) e dalla ferrovia internazionale, una decina d’ore dalla capitale, peccato che la stazione sia lontanissima dal centro (circa dieci chilometri a est); è in ogni caso un importantissimo crocevia a 180 km da Darkhan e a 60 da Bulgan, ben collegata con Russia e Cina.
In città risiedono ancora molti russi, rimasti dopo l’uscita di scena del comunismo e anche la vita quotidiana ne risente. Sono disseminati ovunque i retaggi dell’Unione Sovietica, come il monumento all’amicizia comunista, il murale di Marx e immagini di Lenin, tutte lungo il vialone principale, Sükhbaatar Gudamj, dove si concentrano le attività principali. Tra queste, il palazzo della cultura che offre concerti tradizionali, film internazionali, esposizioni d’arte e un attrezzato centro sportivo con piscina, palestra e sauna. Anche gli alberghi principali e i ristoranti affiancano questa arteria. Sulla collina a nord della città svetta il piccolo monastero di Gandan Shadurviin, realizzato subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Nel 2004, quasi a ribadire l’affrancamento dal comunismo anti-lamaista, sono state costruite immense ruote di preghiera, ognuna delle quali contiene cento milioni di salmi arrotolati. Non mancano in quest’area importanti siti archeologici: Zereglee, 25 km a sud-est di Erdenet, un excursus storico frammentato con ritrovamenti dell’età del bronzo, del ferro, del periodo Turuk e di epoche più recenti dal XII al XV secolo; e Airghiin khüükhnii gozgor, a 7 km da Jargalant, con numerosissimi reperti dell’era Xian-Bei.
C’è almeno un motivo, molto valido, per fare di questa regione la tappa obbligata di un viaggio in Mongolia: il monastero di Amarbayasgalant, gioiello religioso, storico, architettonico e naturalistico, uno dei tre più importanti centri religiosi insieme a Gandan ed Erdene zuu. Basta percorrere un centinaio di chilometri a nord di Ulaanbaatar per entrare nel Selenghe, dominato da un paesaggio di bellezza pura e incontaminata, boschivo per il 42%, spezzato da fiumi leggendari come l’Orkhon e il Selenghe e dalle miniere d’oro e di carbone che stanno offrendo nuove opportunità di crescita economica a tutto il Paese. Non bisogna dimenticare che la Mongolia ha meno di tre milioni di abitanti e l’andamento economico avverte sbalzi con estrema facilità e rapidità. Il Selenghe produce il 40 per cento del grano di tutta la Mongolia e perfino un ottimo miele. Capoluogo è Sükhbaatar, 311 chilometri (di cui 260 asfaltati) da Ulaanbaatar, già in vista del confine russo. Siamo nel sum di Baruunbüren, sulla sponda del fiume Iven, sotto lo sguardo impassibile del monte Büren Khan. È una tranquilla cittadina di 20mila abitanti battezzata col nome del padre della nuova Mongolia, a cui è dedicata anche una regione orientale e il monumento al centro della piazza principale della capitale: Sükhbaatar, ministro della guerra durante la rivoluzione contro i cinesi nel 1921. Non c’è aeroporto, ma qui scorre la strada asfaltata sull’asse Ulaanbaatar-Darkhan, retaggio del dominio sovietico, e passa la ferrovia internazionale che proprio a Sükhbaatar si ferma alcune ore per ragioni tecniche e burocratiche. In città si trova qualche alberghetto di fortuna e un paio di ristoranti russi e cinesi. Il luogo più vicino e suggestivo per un’escursione è Tujiin Nars, un’area di 800 Kmq fra i sum di Shaamar e Altanbulag, un territorio piatto e boschivo, con colline basse, forse l’unica zona della Mongolia in cui ci si imbatte in strade asfaltate alberate. Va menzionato inoltre Soronzon Khad (Rocce magnetiche), nel sum di Khüder, per quanto piuttosto fuori mano. È una formazione rocciosa con un forte campo magnetico, un luogo ritenuto sacro dai mongoli e utilizzato nella medicina popolare: sdraiandosi sulle rocce, facendo bagni di terra o bevendo l’acqua del fiume Tömörtei si curerebbero reumatismi, schiena, affezioni agli arti, ai reni e finanche cardiopatie. Può essere infine un buon campo di esercitazioni per gli amanti della fotografia.
Monastero di Amarbayasgalant
Bellezza e saggezza si erano unite per dar vita al monastero di Amarbayasgalant (tranquillità e gioia, in lingua mongola), dono dell’imperatore manchu Enkh Amgalan Khan alla più grande autorità spirituale del Paese, Öndör Gegheen Zanabazar. Narra una leggenda che Amar e Bayasgalant fossero due bambini, un maschietto e una femminuccia, trovati a giocare nel luogo prima che fosse scelto per la costruzione, secondo la complessa geomanzia buddhista. I lavori avevano avuto inizio nell’anno del cavallo rosso (1726) e, dopo gran dispendio di leghe d’argento (circa 4.000 chili del prezioso metallo), si erano conclusi nell’anno del drago rosso (1736). Il monastero era frequentato da più di 6.000 lama e accoglieva la sapienza profonda dell’insegnamento di Zanabazar. Ma anche la ricchezza dei più fulgidi arredi sacri, reliquie, sutra, tankha e manufatti d’arte buddhista. Negli anni Trenta del Novecento, il ciclone sovietico travolse e distrusse senza pietà alcuna questo immenso patrimonio artistico. Ancor meno ebbe a cuore la sorte dei monaci, che furono tutti trucidati. Cinquant’anni di abbandono, rovine e oscurità passarono dolorosamente, fino a che la caduta del regime permise al popolo e al nuovo governo di onorare le proprie antiche tradizioni. E darsi a un restauro amoroso del monastero, che oggi è tornato a vivere e ospita una sessantina di monaci. Il momento più gioioso e commovente della nuova storia del monastero è stato probabilmente quello del settembre 2002, quando la cerimonia solenne dello Tsam è stata nuovamente danzata nel cortile dell’Amarbayasgalant dopo un’assenza dolorosa di ben 65 anni. Si conservano qui importantissimi sutra in mongolo del 1602, un’opera colossale di 113 volumi di Ganjuur (insegnamenti del Buddha) e 126 volumi di Danjuur (interpretazioni dei discepoli) di cui si sta curando una versione in cirillico-mongolo moderno. Il monastero appare a sorpresa dietro le vallate, all’ombra della catena montuosa dei Bürengiin nuruu e trasmette una suggestione senza confronti. Lo stile è puramente cinese, di colore prevalentemente rosso, con un perimetro di circa 150 per 200 metri. L’entrata principale è a sud, come le gher dei nomadi. C’è da pagare un biglietto di circa 3 euro, che raddoppia se si vogliono fare fotografie (tenete conto che questo è un monastero che ha bisogno costantemente di restauri e di opere di mantenimento). È molto piacevole passeggiare all’interno di questo cortile costellato da templi e riferimenti sacri, con timidi monaci bambini che pregano o che giocano a palla. Gli edifici sacri principali sono situati nella fascia longitudinale centrale, dalla porta d’ingresso fino al tempio, collocato sul fondo. Nelle zone laterali si susseguono edifici in rovina e, in fondo, le strutture che ospitano i monaci. Appena entrati sarete accolti dalla torre della campana a destra e dalla torre del tamburo a sinistra. Subito davanti a voi il tempio della divinità protettrice. Se non sono già aperti, dovete chiedere ai monaci le chiavi, per poter ammirare gli oggetti sacri e i tankha. Potete poi lasciare un’ulteriore offerta per la comunità.
Preceduto da due padiglioni, ecco il Tsogchin Dugan, il tempio principale a due piani. Splendido all’esterno, una volta entrati offre una spiritualità infinita con un arredo sacro imponente e nello stesso tempo semplice e assoluto. Nella sala principale vi sentirete osservati da Rinpoche Gurdava, anzi dalla statua a grandezza naturale del lama che nel 1992 fu l’artefice del restauro di questo monastero. Si possono anche ammirare altri 7 templi minori, accanto a due tombe eccellenti: quella del quarto Bogd Khan e di Zanabazar. Sul terreno di fronte al monastero vedrete impresse in gesso delle strane figure concentriche. È qui che durante l’anno si celebrano le antiche danze Tsam, una delle più grandi suggestioni della tradizione buddhista. (foto 1 e 2, di Federico Pistone)
Dulaankhaan
Sembra l’officina del dio Marte. A cinquanta chilometri da Darkhan, appena discosto dalla strada principale da Darkhan, sorge il villaggio di Dulaankhaan, che ospita una storica fabbrica di archi e frecce della Mongolia. Sono rimasti solo in una decina gli artigiani che sanno ancora plasmare le armi come ai tempi di Chinggis Khan. Per gli stranieri è un’occasione per acquistare arco e frecce a prezzi molto convenienti (meno di duecento dollari), considerata la cura e il tempo, circa quattro mesi, che occorrono per realizzarli. Importante però è avere la ricevuta originale e l’autorizzazione per l’esportazione.
Testo di Federico Pistone e Dulamdorj Tserendulam
Dal 1994 enclave autonoma nella regione del Selenghe, l’aimag di Darkhan-Uul è tutto concentrato nel capoluogo Darkhan che contende a Erdenet il secondo posto nella classifica delle città più popolose della Mongolia (intorno ai 75.000 abitanti). Strada asfaltata da Ulaanbaatar, tappa della ferrovia internazionale, palazzoni moderni, fabbriche: Darkhan è stata inventata dai sovietici negli anni Sessanta e poi abbandonata al suo destino dopo il 1990. Oggi è un grande agglomerato anonimo, diviso fra zona “residenziale” (costituita da “città vecchia” a nord e “città nuova” a sud con abitazioni, alberghi, ristoranti, scuole e uffici) e zona industriale, legata soprattutto ad attività tessili, agricole ed estrattive. Una miniera di carbone è ancora attiva nella valle di Sharyn, a una sessantina di chilometri da Darkhan. Per chi si ferma in città, due sono le visite obbligatorie: il monastero Kharaaghyn, nella zona vecchia, un civettuolo edificio in legno popolato da monaci molto disponibili, e il consueto museo dell’aimag nella città nuova, con interessanti reperti archeologici, religiosi e tradizionali.