ULAANBAATAR WEATHER

CENTRO

L’hanno battezzata “centrale”. Questa regione in verità è spostata verso nord est rispetto alla mappa del Paese. Ma l’origine del nome ha un suo perché: con licenza geografica i mongoli considerano la capitale il perfetto baricentro e così il territorio che la circonda diventa “centrale”, appunto Töv in mongolo. Pur essendo una zona molto più sviluppata di altre, ospita solo 100.000 abitanti (in buona parte nomadi a tempo pieno), ovvero un ventesimo della popolazione totale e meno di un decimo di quella concentrata a Ulaanbaatar. Solo nel quieto capoluogo Zuunmod, una quarantina di chilometri a sud est della capitale, vivono 17.000 abitanti. Questo è il territorio più coltivato dell’intera Mongolia, anche se il clima d’inverno non è esattamente generoso: con un’altitudine media di 1.500 metri, le medie a gennaio scendono volentieri sotto i meno 20. Töv si accomoda nel cuore dei monti Khentii, che qui toccano la punta dei 2.800 di quota dell’Asralt Khairkhan uul. Questa regione è un piccolo incanto che potrebbe, paradossalmente, giustificare un viaggio completo: una visita alla capitale e poi un’escursione non superando l’arco di compasso di poche decine di chilometri. Comodo. Ma il bello della Mongolia è anche provare fisicamente la sensazione della distanza, del vuoto, della pace, del grande cielo che ci segue altissimo, del silenzio del vento, attraverso spostamenti interminabili e, in qualche modo, spirituali. A Töv comunque è possibile abbracciare le tradizioni più pure dei nomadi e lasciarsi avvolgere dalla natura primordiale: poetici corsi d’acqua (qui scorrono il Tuul e il Kharaa), invitanti foreste di conifere e una collezione di animali bradi tra cui 250 specie diverse di uccelli oltre al leggendario cavallo Takhi. Tutto questo tesoro è garantito e protetto in cinque riserve naturali. Non è un caso che questa sia anche una delle zone turisticamente più attrezzate con una cinquantina di campi gher, gli accampamenti che accolgono i viaggiatori in confortevoli tende identiche a quelle dei nomadi, spesso con un supporto di bagni e docce. Attraverso Töv passa anche la Millennium road, la strada asfaltata che taglia in orizzontale la Mongolia. Da Ulaanbaatar l’arteria tocca Nalaikh e Bayandelgher prima di sconfinare nel Khentii. Ovviamente, il meglio di questa regione lo si gusta abbandonando la strada principale e gettandosi, con un autista esperto, sulle sofferte piste secondarie, ricche di sorprese sempre a lieto fine. Monastero di Manzushir Otto chilometri a nordest di Zuunmod, a 1.800 metri di altitudine (non dimentichiamo però che la Mongolia è un altopiano), sorge il Manzushir khiid, tempio del Bodhisattva Manzushir, spirito invocato a protezione dell’intelligenza umana. La costruzione del primo edificio risale al 1733 e il complesso visse il periodo più fausto nel corso del XVIII secolo, con l’edificazione del Monastero Centrale, di una ventina di edifici e la creazione di un lago artificiale. Quando nel 1937 fu raso al suolo dal governo filosovietico, era uno dei monasteri più importanti della Mongolia dove un lama poteva raggiungere alti titoli e gradi di conoscenza. Originariamente ospitava 300 monaci, arrivando ad accoglierne fino a 500. Dal 1998 è un’area protetta. È rimasto intatto e si può ammirare un pentolone in bronzo del peso di due tonnellate dove, utilizzando quattro carri di legna, si potevano cuocere contemporaneamente due buoi interi oppure dieci montoni, per soddisfare le esigenze dei monaci. Il museo del monastero espone fotografie dell’edificio originale prima dello scempio, interessanti maschere tsam, una collezione degli impressionanti corni Ganlin, realizzati con tibie umane e moltissimi prodotti artigianali provenienti da Bogd-uul, compreso pellicce e trofei venatori. La suggestione dell’edificio sta soprattutto nel contesto ambientale, tra larici siberiani all’interno dell’area protetta del Bogdkhan uul (2.122 metri), la montagna sacra che chiude a sud Ulaanbaatar e apre verso Zuunmod. Il Manzushir è circondato da rocce di granito dove non è raro incrociare cervi e altri animali selvatici. Salendo di alcune centinaia di metri rispetto al museo si possono ammirare i resti del monastero originale e godere dello spettacolo imponente della vallata. Per entrare nell’area del Manzushir occorre pagare un doppio biglietto d’ingresso, per il Parco nazionale e per il museo. (foto 1) Gachuurt Se siete stanchi di Ulaanbaatar e desiderate silenzio per le vostre orecchie martoriate e aria pulita per i vostri polmoni, dirigetevi a Gachuurt, venti chilometri a est della capitale. Il villaggio è simile a tanti altri, ma è la zona intorno è decisamente unica per la sua bellezza naturalistica. È possibile noleggiare dei cavalli nelle gher della zona e regalarsi così un’eccitante escursione nei dintorni. Le anime contemplative preferiranno i piaceri della pesca (senza esagerare, il patrimonio ittico è ricco ma delicato), quelle più adrenaliniche si dedicheranno a rafting mozzafiato nel Tuul Gol. Khandgait Una trentina di chilometri a nord di Ulaanbaatar si trova Khandgait, zona piacevole e ricca di pascoli, montagne, pinete e fiori selvatici. Khandgait è anche il nome del villaggio che sorge in quest’area, un vero paradiso per l’escursionista, che sarà infatti stuzzicato dalle molte possibilità offerte: trekking, free climbing, pesca, con tanto di pattinaggio su ghiaccio, slitta e sci di fondo d’inverno. Khandgait è meno costosa e inflazionata della più nota Terelj, ma proprio perché meno conosciuta offre strutture meno sofisticate. Parco Nazionale Terelj È il rifugio preferito dei cittadini di Ulaanbaatar, che lo raggiungono facilmente guidando per una sessantina di chilometri (appena un’ora) verso nord est o salendo sul pullman che parte alle tre del pomeriggio (arriva alla meta un’ora e mezzo dopo) e riparte alle otto di sera. Cime di granito mesozoico fanno da pittoresca cornice a un paesaggio in stile alpino che permette di affrontare semplici passeggiate, cavalcate, trekking impegnativi fino a vere e proprie arrampicate. Si può anche esagerare, lanciandosi nel rafting. D’inverno gli sciatori si dedicano al fondo o alle discese dai pendii. Il fiume Terelj è così cristallino che invita a un tuffo: ottima idea, ma occhio alla congestione da freddo. Una roccia a forma di tartaruga gigantesca (melkhii khad) è il simbolo del parco, frequentato anche per il suo piccolo tempio di meditazione e per una gher-museo annessa al Terelj lodge. Questa regione di quasi trecentomila ettari è stata dichiarata parco nazionale nel 1993 con il nome di Gorkhi-Terelj (l’ingresso è a pagamento). (foto 2) Il parco del XIII secolo Da Tsonjin Boldog, 36 km a sudest, si può visitare un insediamento mongolo del XIII secolo, con varie gher e costruzioni che evidenziano sei raggruppamenti sociali: artigiani, messaggeri e guardiani, eruditi amanuensi, pastori, sciamani, Khan e fiduciari. È opera della Genco Tour, una delle più importanti imprese mongole. Un resort di lusso e un campo da golf a 18 buche non così lontani, possono dare la sensazione di una forte dissonanza. Il parco comunque è in progressivo allestimento e, nonostante il prezzo un po’ troppo disinvolto del biglietto (circa 35 euro), può valere una visita. Parco nazionale Khustain nuruu Porta un nome romantico (Khustain nuruu, i rilievi delle betulle) questo parco nazionale di circa 50.000 ettari creato nel 1993 e raggiungibile in circa due ore dalla capitale: tanto ci vuole per coprire i 100 chilometri di strada, molti dei quali su piste sterrate o steppa pura. Il paesaggio è molto bello, con ampie macchie di betulle, ruscelli di acqua potabile e uno scenario sempre suggestivo. Moltissime le specie di piante e uccelli, oltre a cervi, gazzelle, cinghiali, roditori. Ma l’importanza internazionale di questa regione è legata al cavallo Przewalski (takhi in mongolo), l’unico equino selvatico ancora esistente sulla terra (vedi sezione fauna). Alla fine degli anni Sessanta la specie era completamente estinta a causa della caccia indiscriminata. Con un progetto avviato da una fondazione olandese e un’associazione ambientalista mongola nel 1993 sedici takhi, cresciuti in cattività in riserve europee, sono tornati a popolare questa zona. Attualmente (2016) sono censiti più di 250 cavalli Przewalski. All’ingresso del parco (a pagamento solo per gli stranieri) è possibile alloggiare in camere o gher e i gestori si offrono anche di preparare i pasti. (foto 3) Roccia sacra Eej Khad Vicino al villaggio di Khöshigt, 15 chilometri a sud di Zuunmod, sorge il sacro blocco di roccia noto come Eej Khad o Roccia madre. I mongoli vengono spesso qui in pellegrinaggio, per cercare conforto e soluzione ai propri problemi. Nonostante sia un luogo importante per la spiritualità mongola, dove pratiche buddhiste si mescolano ad eredità sciamaniche, è opinabile però quanto ne possa essere attratto e gratificato un visitatore straniero, senza un deciso interesse alla cultura religiosa. L'eremo della creazione (Aglag Büteeliin khiid) Di recente costruzione, situato nella provincia di Bornuur, il monastero Aglag Büteeliin è diventato uno dei luoghi più amati dai mongoli. Provenendo da UB, dopo 92 km in direzione Darkhan, si prende a destra una strada sterrata (che presto sarà asfaltata) per arrivare dopo 7 km al monastero, preceduto da un simbolico passaggio ad arco. Siamo nel territorio di nascita del fondatore Pürevbat, lama e artista buddhista, soprannominato Burkhanch lam, traducibile approssimativamente in “artigiano di Dio”. È un personaggio molto conosciuto in Mongolia e in parte anche all’estero, vincitore nel 2008 del premio Prince Claus, fondatore nel 1993 dell’Istituto mongolo di arte buddhista. Dopo aver parcheggiato, prima del passaggio ad arco, si prosegue a piedi. Ci accolgono le statue di una tartaruga, simbolo della materialità che ci tiene a terra e, a guardia del monastero, la statua di un animale fantastico a 8 zampe, con la testa da uccello Garuda e il corpo da leone. Al primo piano del monastero possiamo contemplare thanka, mandala, costumi e maschere Tsam, dipinti su stoffa, animali fantastici in materiali vari e una roccia naturale con il più conosciuto dei mantra buddhisti: Om mani Padme Hūm. Sulla destra ci appare Nogoon Dari Ekh, che amministra madri, figli e longevità; a sinistra Baldanlkham, a cui rivolgersi per un sostegno nella reincarnazione e a protezione del male e Erleg Nomun Khan, più conosciuto come re Yama, giudice dell’oltretomba; poi statue di santi, libri sacri. Al secondo piano sono esposti il ritratto dell’ultimo re mongolo, l’ottavo Bogd Khan con sua moglie e i ritratti di due maestri di Pürevbat. Ci appare anche la statua di un Savdag, un uomo alato con un’insolita anatomia sessuale. I Savdag, nella mitologia mongola, sono spiriti protettori di un luogo e questi è il Savdag di Garid uul, il monte a ridosso del quale si erige il monastero. Nella sala in fondo c’è “la stanza delle cose strane”, nome assolutamente appropriato, considerate le opere esposte come la pelle di un coccodrillo gigante, lo scheletro di un cavallo unicorno, un cinghiale a sei zanne, un coniglio con le corna, un pesce a cinque teste, tutte opere realizzate con materiali naturali di cui viene indicata anche la provenienza. La parte più avventurosa della visita inizia però da un albero che si trova dietro il monastero, nato da un ramo secco, a cui ci si rivolge per chiedere salute e prosperità. Si percorre poi un sentiero, a tratti impervio, seguendo la direzione di delimitazioni in corda. Le opere d’arte, create utilizzando ciò che la natura offre, si susseguono: organi sessuali che simboleggiano Yin e Yang, le due polarità energetiche della vita; “il grembo della madre”, una roccia attraversata da uno spazio angusto, che si può percorrere gattonando e all’uscita si è come rinati, mondati dai propri peccati; yembuu khad, ovvero una roccia con la forma di un’antica colatura usata come moneta, girandovi tre volte attorno arriverà la ricchezza. Aglag Büteeliin khiid è un monastero particolare dove le offerte come ginepro, riso, vodka e nastri colorati sono vietate, per proteggere la naturale bellezza del luogo. A sud del monastero c’è l’abitazione di Pürevbat, le gher dei lama e dello staff, una piccola trattoria dove è possibile ordinare semplici piatti della cucina mongola e, intorno al monastero, molti animali domestici come galline, oche e cani. Riserva naturale di Gün-Galuut Nel 2003 è stata fondata quest’area naturalistica con l’obiettivo di preservare alcune specie selvatiche, come gli argali, pecore di montagna caratterizzate dalle splendide corna, ma anche uccelli protetti come gru, cigni e aironi. La riserva si estende lungo il fiume Kherlen, è costellata da laghi e montagne ed è facilmente raggiungibile dalla capitale in poco più di due ore. Si percorrono circa 110 chilometri lungo la strada principale per Öndörkhaan, verso il Khentii, per poi piegare a sud per un’altra ventina di chilometri di pista. È possibile godersi la natura in pieno relax, ma anche effettuare escursioni più o meno impegnative, solcare in barca il Kherlen e il lago Ikh-Gün e per i più intrepidi c’è possibilità anche di praticare rafting. (foto 4) Testo di Federico Pistone e Dulamdorj Tserendulam per mongolia.it
Pronunciare il nome di questa regione, Övörkhangai (significa: a sud della catena montuosa dei Khangai) non procura forti emozioni. Quando però si scorge sulla mappa un certo luogo, ecco che un brivido percorre la schiena: Karakorum, in mongolo Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero più grande della storia, è qui. Anzi, era qui. Non è rimasto molto (giusto qualche tartaruga di pietra) della splendida città descritta con dovizia di dettagli nel XIII secolo dagli “inviati speciali” Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruc e Marco Polo. Ma il fascino evocato da questo luogo è davvero unico. Così come sorprendente è l’Erdene Zuu, il monastero costruito nel 1586 sotto Avtai Khan e solo parzialmente danneggiato dalle purghe sovietiche degli anni Trenta. L’Övörkhangai ha meno abitanti della Valle d’Aosta (circa 110.000) su un territorio venti volte più grande. Il capoluogo è Arvaikheer, a quasi duemila metri di quota e 430 km a ovest della capitale: ospita circa un quarto dell’intera popolazione regionale. C’è anche una vivace missione cattolica che ha creato strutture di svago per i bambini, un centro sociale e una piccola biblioteca. È un buon punto di partenza e ristoro per le mete principali, su tutte Kharkhorin, distante un centinaio di chilometri. La regione offre poi ottime escursioni naturalistiche. La strada da Ulaanbaatar è abbastanza agevole, a volte perfino troppo, con nastri asfaltati che tolgono fascino al paesaggio circostante. Karakorum (Kharkhorin), memorie di un impero Siamo nella valle dell’Orkhon, attraversata dalla via della seta e bagnata dai fiumi Orkhon e Kherlen, una regione che è stata in varie epoche luogo elettivo di insediamenti, a cominciare dagli Xiongnu, alias Unni, secondo una convinzione non unanime. Kharkhorin, il nome mongolo, deriverebbe dall’uigurico Har-Horum, pietra lavica nera. Le fondamenta più antiche, uiguriche, risalgono all’VIII secolo. Prima di diventare capitale dell’impero mongolo era dominio dei Khereit, una popolazione che ebbe un ruolo determinante nell’unificazione delle tribù mongole. Oggi una strada dritta e asfaltata la collega comodamente a Ulaanbaatar: 370 chilometri con lavori eternamente in corso. Finché l’arteria non sarà completata, calcolate almeno 6-7 ore. Si può scegliere anche un mezzo pubblico, da prendere alla stazione dei bus, che impiegherà ancora di più. D’estate sono organizzati inoltre voli interni, destinati soprattutto ai turisti. Non è facile immaginare che qui sorgesse la stupefacente capitale dell’impero più vasto di sempre. Per aiutare la fantasia riportiamo in fondo al paragrafo la testimonianza ammirata di chi l’ha vista coi propri occhi nel massimo splendore. Il fascino che evoca Karakorum è davvero unico. Dapprima base militare e fucina d’armi divenne capitale nel 1220 per decisione di Chinggis Khan e completata sotto il figlio Ögöödei e il nipote Mönkh, reclutando artisti e artigiani da ogni angolo del mondo, con una recinzione di pietre e fango e la costruzione, nel 1235-36, di un enorme “palazzo serenissimo” (tümen amgalant ordon) che non mancava indubbiamente di vivacità, con il pavimento verde, il soffitto rosso, numerosi dipinti alle pareti, colonne decorate in oro e, alla base delle colonne e delle scale, tartarughe scolpite nella pietra. In realtà Karakorum non fu una capitale nel senso più proprio del termine, cioè città principale e sede del potere, fu fondamentalmente un centro commerciale, religioso (accoglieva 12 forme di buddhismo, due islamiche e una cristiana) e soprattutto culturale, dove l’istruzione era garantita da molteplici scuole. I Khan però, figli devoti del cielo libero e sempiterno, vi soggiornavano raramente. Fu passaggio obbligato per nomadi, mercanti, filosofi e viaggiatori, fino a quando il nuovo sire Khubilai fratello di Mönkh Khan, decise di spostare a Pechino il centro dell’Impero. Appena oltre le rovine dell’antica capitale, frutto di un progetto mongolo-giapponese, è nato nel 2011 il Museo di Karakorum, non molto grande ma allestito con particolare cura e competenza. Assistiti da spiegazioni in lingua inglese (oppure mongola, volendo) e accompagnati da cartine storiche, quadri, modelli tridimensionali in scala ridotta e reperti archeologici, si passeggia in un arco di tempo che va dalla preistoria al grande impero mongolo. Fa parte del progetto anche la creazione di un “museo aperto”, con scavi archeologici che porteranno alla luce nuove vestigia. Il museo è aperto tutti i giorni dalle 9 alle 18 d’estate, mentre d’inverno è aperto fino alle 17, da lunedì a venerdì. Il costo del biglietto è 5.000 tögrög, che diventano 10.000 se si vogliono fare delle foto e 35.000 per un video. Alla fine del Trecento l’esercito manchu distrusse la città fortificata e, dalle sue rovine, nel 1586 Avtai khan, su consiglio del terzo Dalai Lama, avviò la costruzione del primo grande monastero buddhista della Mongolia: l’Erdene Zuu (cento tesori). Per completarlo ci sono voluti tre secoli, una specie di fabbrica del Duomo nella steppa. Ma alla fine il monastero era uno splendore unico al mondo, edificato senza chiodi, ad incastri. Già nel 1792 ospitava mille monaci, un centinaio di templi ricchi di cimeli religiosi e oltre 300 gher. A fortificare questo gioiello fu eretta una massiccia muraglia (intatta ancora oggi) di 420 metri per lato, interrotta da 108 stupa. Ma questo a nulla servì contro le distruzioni sovietiche degli anni Trenta del Novecento: i lama furono trucidati, i tesori trafugati e i templi buttati giù dalle ruspe. Tutti tranne i tre templi allineati di Gurvan zuu e alcuni edifici. L’Erdene Zuu fu chiuso e dimenticato fino al 1965, quando il governo comunista lo riaprì come museo storico, utilizzando i reperti sopravvissuti a vandalismo e trafugamenti e, in buona parte, quanto i fedeli avevano salvaguardato a proprio rischio e poi restituito, vietando però qualsiasi rito religioso. Dal 1991 il monastero è stato ripristinato e ancora oggi il visitatore è avvolto da una sensazione di spiritualità senza confronti, soprattutto quando riesce ad assistere a una funzione religiosa. Di fronte all’ingresso principale si erge il tempio del Dalai Lama, che ricorda la visita di Altan khan al capo spirituale tibetano nel 1675. All’interno si ammirano dei meravigliosi tankha di quell’epoca e una statua di Zanabazar. Dando le spalle a questo tempio, protetto da tre leoni di pietra, si stagliano tre altri templi. A sinistra il Baruun zuu, tempio occidentale, dedicato al Buddha adulto. Contiene la ruota d’oro dell’eternità, graziose statuette del XVII e XVIII secolo e otto simboli di buon auspicio. Al centro c’è il tempio principale, Buddha zuu, che rappresenta il Buddha bambino. Sotto la severa protezione di figure classiche del lamaismo (Sita Mahakala e Sridevi), si ammira la statua del giovane Buddha; senza volersi addentrare nel labirinto del pantheon lamaista, è interessante rilevare la lontana parentela culturale con l’India. Mahakala (Gombo-gür per i mongoli) è il nome di Shiva nella sua forma distruggitrice e Sridevi, sposa di Visnù, è la dea della bellezza e della fortuna. A destra, il Buddha della medicina (Manal) e a sinistra il Buddha della luce infinita (Amitabha). Altre statue dedicate agli dei della luna e del sole, maschere Tsam e opere di Zanabazar. A destra, il Züün zuu, tempio orientale, con la statua di Buddha adolescente. Alla sua destra la scultura di Tsongkhapa, fondatore dell’ordine dei berretti gialli, che fa capo al Dalai Lama. Alla sinistra, la statua di Janraiseg, Buddha della compassione. Tra il tempio del Dalai Lama e i tre templi del Buddha si trovano le tombe di Avtai khan (1554- 1588) e di suo nonno Tüsheet khan, padre di Zanabazar. Nella parte orientale del cortile, si possono ammirare lo spettacolare stupa d’oro (che in realtà è bianco) costruito nel 1799 per il IV Bogd e, in fondo, il candido tempio tibetano a tre piani, detto Lavrin süm, restaurato negli anni 1969-73 dove ogni mattina vengono svolte le funzioni religiose dai lama. È possibile assistere al rito, ma in perfetto silenzio e senza fotografare o filmare. Nella parte centrale di Erdene Zuu è rimasta l’impronta di una gher a 35 khana (unità reticolate in legno che ne formano il perimetro), alta 15 metri e del diametro di 45 metri, costruita nel 1658 per le riunioni di nobili e Khan. Si chiamava Bat-Ölziit, approssimativamente traducibile in “Fortuna durevole”. Nell’area a sud, una concavità del terreno ci ricorda dove era stato creato un lago artificiale, alimentato dall’Orkhon. Tra lo stupa d’oro e il tempio tibetano si visita un piccolo museo che contiene oggetti d’arte e strumenti musicali tradizionali. Il biglietto d’ingresso costa 3.500 tögrög, che diventano 5.000 se si vogliono fare fotografie negli interni, 10.000 per usare il flash (se possibile, evitare!) e 15.000 per filmare. Normalmente, al momento dell’acquisto del biglietto, viene assegnata una guida, di solito uno studente, che dà le informazioni essenziali in inglese. Alla fine del tour si può lasciare una piccola offerta per il servizio. Dall’abitato di Kharkhorin, una manciata di baracche da cui cominciano a spuntare delle belle case in legno, con un’agevole passeggiata si può raggiungere una collina dove è collocato un gigantesco monumento a tre lati: ognuno ricostruisce le mappe delle grandi conquiste, rispettivamente degli Unni, dei Mongoli e dei Manchu, il tutto circondato da imponenti stendardi tipici delle campagne belliche di Gengis Khan. (foto 1 e foto 2, di Federico Pistone) Dune Elsen Tasarkhai In quest’area confinano tre aimag, Bulgan, Övörkhangai e Töv. Una strada divide le dune in due parti, Mongol Els a sud (da non confondere con le omonime Mongol Els del Gobi Altai, lungo il fiume Zavkhan) e Khögnö Tarniin Els a nord, che prendono il nome dal monte Khögnö Khan e dal fiume Tarna. È un insolito e incantevole luogo di incontro di tre distinte zone geografiche, la foresta, la steppa e il deserto, le cui dune si estendono per 80 km e una larghezza massima di 10 Km. Salici, olmi e cornioli circondano questo deserto bonsai, luogo ideale per chi ha voglia di osservare dei cammelli, senza spingersi fino al Gobi. La stabilità delle dune, dovuta alla vegetazione e alla vicinanza del fiume Tarna, ha cominciato a vacillare a causa dell’eccessivo allevamento e la zona è sotto attento monitoraggio da parte delle autorità. (foto 3, di Federico Pistone) Monastero Shankhiin khiid Poco lontano da Khujirt, venti chilometri prima di Kharkhorin, si incontra il delizioso Shankhiin khiid, uno dei monasteri più antichi e storicamente più importanti della Mongolia, primo luogo di un Concilio buddhista; edificato nel 1647 e restaurato nel 1950, dopo le distruzioni sovietiche del 1937 a cui era sopravvissuto solo il Noyon lama, l’edificio principale. Prima di queste devastazioni il complesso era costituito da 20 edifici che potevano ospitare 1.500 monaci. Qui il primo Bogd Zanabazar trascorse la sua infanzia: si possono ammirare un vestito ed un nomyn barintag (preziosa stoffa di seta che avvolge libri non rilegati) che gli appartenevano, oltre a statuette e opere d’arte di sua creazione. Nel 1990 il monastero è stato riaperto ai fedeli e i mongoli hanno festeggiato l’evento edificando uno stupa. Lavori e progetti di ristrutturazione proseguono tuttora, ispirandosi a una mappa originale del monastero. È possibile ancor oggi assistere a cerimonie lamaiste ogni mattina verso le 9. Fatevi aprire il portone dal guardiano che vi chiederà un’offerta libera da destinare a progetti culturali e umanitari e alla manutenzione del complesso. Per gli amanti di arte buddhista sono qui conservati sette mandala Kalachakra. Oltre allo Shankhiin khiid, un altro monastero merita una visita, anche questo a una ventina di chilometri da Khujirt ma in direzione ovest: è il Tövkhön khiid, della stessa epoca, perso tra le foreste. Qui c’è una caverna dove Zanabazar si ritirava a meditare. (foto 4, di Federico Pistone) Khujirt Anche questo paesino, quieto e divertente, dove gli yak pascolano placidamente, rappresenta un ottimo punto di appoggio per visitare Kharkhorin, che dista poco più di 50 chilometri (di strada piuttosto impegnativa, però). Intorno a Khujirt (pronuncia, hugirt, con una leggera acca aspirata) ci sono attrattive interessanti da visitare. A cominciare dalle sorgenti calde: una fabbrica aperta nel 1941 lungo le rive del fiume si è col tempo specializzata in cure termali ed è molto frequentata dai mongoli. Vanta fanghi utilizzati per cosmesi e nelle affezioni più varie: reumatismi, osteoporosi, traumi ossei, disturbi del sistema nervoso e circolatorio. Le cure sono affiancate da agopuntura, manipolazioni e uno staff medico attento e preparato. Le acque raggiungono i 55° e la composizione “magica” comprende: bicarbonato, carbonato, sodio, idrogeno e il fascino della campagna allo stato puro. Un campo gher è a disposizione nei pressi delle terme. Intorno si possono visitare antiche tombe rettangolari. Gli otto laghi Naiman nuur Siamo fra le province di Bat-Ölzii, nota per i suoi yak, e Uyanga, famosa per la qualità dei legni e la perizia degli artigiani di gher. Sembra che la mano di un gigante abbia frantumato un macigno e ne abbia sparso le briciole dappertutto, in alto, sui dorsali delle montagne ricoperte da foreste di abeti e fin sul fondo delle vallate verdissime. È l’incantevole area di Naiman nuur, gli Otto laghi, un massiccio vecchio di 20.000 anni creato da eruzioni vulcaniche e ora parte della riserva naturale di Khüisiin Naiman nuur. È una preziosa e cospicua riserva di acqua dolce, anch’essa minacciata dai mutamenti climatici e dalle attività antropiche. Arrivati all’estremità della valle del fiume Khökh Davaa, a una quota di 2.200 m, si apre alla vista il lago più grande, lo Shireet, raggiungibile in jeep seguendo un tortuoso percorso sul crinale della montagna. Gli altri laghi si chiamano Döröö (è il più profondo), Khaya, Khuis (il lago ombelico, dalla piccola isola incastonata proprio al suo centro), Bugat, Khaliut, Bayan-Uul e Mukhar (questi ultimi due a volte segnalati come Shanaa e Baga Shanaga, forse da nomenclature popolari), tutti raggiungibili solo a piedi o a cavallo. Le loro acque fredde e trasparenti e il paesaggio incontaminato rendono la zona perfetta per campeggio, lunghe camminate e giornate di pesca; negli anni 1977-78, forse senza l’adeguata lungimiranza, sono state introdotte due nuove specie di pesci, coregonus migratorius e coregonus peled. Nei boschi circostanti, dove predominano larici e pini siberiani, sono censite 39 specie di uccelli, 18 di mammiferi e numerose specie vegetali, alcune delle quali rare e severamente protette. La riserva di Khüisiin Naiman nuur si trova a 70 chilometri a sud ovest dalle cascate di Orkhon e a 115 dalla città di Arvaikheer, capoluogo dell’aimag. Nonostante le recenti migliorie, la strada che percorre la valle è estremamente sconnessa, oltre a una jeep è indispensabile un autista bravo e affidabile, ed è comunque sconsigliato avventurarsi in caso di pioggia. È possibile organizzare passeggiate a cavallo e pernottare presso famiglie locali, oppure affidarsi ai campi gher più vicini. La riserva è costellata da molti vulcani inattivi uno dei quali, Khan Bayan a nord, è venerato dai mongoli perché avrebbe generato i laghi, dividendo un ramo del fiume Tsagaan Azarga con la sua lava. (foto 5, di Saruul) Valle Orkhon Nel 2004 la Valle del fiume Orkhon è stata inclusa dall’Unesco nell’elenco dei siti patrimonio dell’umanità, secondo luogo della Mongolia a godere di tale prestigiosa nomina, dopo il bacino dell’Uvs nuur, proclamato patrimonio universale nel 2003. Fra le motivazioni della scelta di questo sito, l’Unesco scrive: “La Valle dell’Orkhon è un notevole esempio di luogo che illustra diversi passaggi significativi nella storia dell’umanità”. La valle si estende per oltre 1.400 km quadrati, si trova a circa 360 km a est della capitale Ulaanbaatar ed è un paesaggio culturale straordinario che rappresenta oltre due millenni di evoluzione e simbiosi fra le civiltà nomadi, le società dedite alla pastorizia e i loro centri amministrativi e religiosi. Le vaste praterie sono tuttora impiegate per il pascolo del bestiame. La valle dell’Orkhon è un territorio ricco di testimonianze archeologiche importanti, oltre che di bellezze naturalistiche di straordinaria rilevanza che comprendono montagne, foreste, cascate, praterie, sorgenti d’acqua calda e una valle incantata che gli stessi mongoli chiamano “Paradiso degli allevatori di cavalli”. Meritano senz’altro una capatina le cascate di Ulaan Tsutgalan, conosciute anche come Orkhony Khürkhree, 24 m di altezza e 10 m di larghezza. Sono un luogo amatissimo dai mongoli, l’estate per un pic-nic da sogno e l’inverno per arrampicate su ghiaccio. (foto 6, di Bayar Balgantseren) Monastero Tövkhön Immerso nelle montagne del Khangai, in una zona di confine fra Arkhangai e Övörkhangai a 40 Km da Khujirt, sorge il Tövkhön Khiid. Si erige a ridosso del monte Öndör-Ovoot, a un’altitudine di circa 2.000 m, protetto da una parete rocciosa e abbracciato dalle fitte foreste di Shivee. Quando nel 1648 uno Zanabazar adolescente scoprì questo luogo incantevole, un fazzoletto di terra pianeggiante addossato a un muro di roccia e immerso nella natura, decise di farvi costruire un piccolo edificio in pietra. La costruzione fu realizzata nel 1654 e divenne luogo di meditazione e di grande ispirazione; fu in questo luogo che il primo Bogd ideò la scrittura Soyombo, perdurata circa due secoli ad uso dei lama più eruditi e per epigrafi. Il luogo fu abbandonato dopo la morte di Zanabazar e il conflitto fra Khalkh e Oirat del 1688. Restaurato nel Settecento e valorizzato negli anni Novanta, oggi comprende il tempio originale, detto della Creatività, altri tre monasteri, due stupa e un passaggio ad arco. Si raggiunge con una bella camminata di un’ora. Testo di Federico Pistone e Dulamdorj Tserendulam  
C’è l’essenza della Mongolia in questa regione verde di steppa, interrotta da laghi, fiumi pescosi, foreste, vulcani e importanti testimonianze del passato. L’Arkhangai attira i nomadi per l’eccellente latte di cavalla fermentato (airag), per le piogge intense e preziose (oltre 350 millimetri l’anno) e per l’abbondanza di pascoli: solo in questa regione, popolata da circa centomila uomini, si muovono oltre un milione e mezzo tra ovini e bovini. Il nome della regione significa Khangai del nord, con riferimento alla catena montuosa che attraversa queste regioni e culmina con gli oltre 3.500 di quota dell’Angarkhai. I viaggiatori sono attratti soprattutto dal Terkhiin Tsagaan nuur, un lago romantico all’ombra del suggestivo vulcano Khorgo. Cime montuose spesso imbiancate fanno da cornice al piacevole capoluogo Tsetserleg (giardino), quasi ventimila abitanti, 424 chilometri a ovest di Ulaanbaatar. Non è solo un punto d’appoggio per esplorare le bellezze dell’aimag, ma l’occasione per visitare una città con un carattere deciso rispetto ad altre località più anonime. Da non perdere il museo dell’Arkhangai, situato all’interno del monastero Zayan Ghegheenii, edificato nel 1586 e ampliato nel XVII secolo fino a ospitare mille monaci e otto templi: è uno dei pochi edifici sacri antichi risparmiato dal governo filosovietico di Choibalsan. Nel museo si può rivivere una tipica giornata di un nomade mongolo, scandita dall’uso di tutti i suoi accessori tradizionali; in una sala specifica sono invece esposti oggetti del buddhismo lamaista. Dirigendosi verso la collina (monte Bulgan) si incontra un grazioso tempio che sembra incastrato in verticale nella montagna e, sulla parete rocciosa, i dipinti del maestro buddhista Tsong-kha-pha che, incuranti dell’azione erosiva degli elementi, appaiono ancora chiari e vividi, soprattutto dopo la pioggia. La composizione di queste vernici è tuttora sconosciuta. Da qui, nei pressi di una statua in metallo dedicata alla capra, si può ammirare un suggestivo panorama. Öghii nuur (lago Öghii) Sulla strada principale fra Tsetserleg (distante 150 chilometri) e Ulaanbaatar (400 km), a nord di Kharkhorin, si incontra il lago Öghii, semplice e raccolto, 25 kmq, regno di 14 specie di pesci (persici, lucci, ciprinidi e lenok) e numerose specie di uccelli fra cui spiccano oche cignoidi e pellicani: un vero osservatorio privilegiato per il birdwatching, grazie al passaggio (ad aprile) di molte specie migratorie, attirate dal lussureggiante biosistema acquatico. La pesca è vietata dal 1° aprile al 15 giugno, come altrove. Pochi chilometri a sud del lago si ammirano due tra le più preziose steli turche presenti in Mongolia: Bileg Khan e Kultegun. Risalgono all’VIII secolo, hanno una dimensione di circa 3,30 metri d’altezza per 1,30 di ampiezza e riportano iscrizioni in antico turco e cinese, dedicate ai due khan turchi che hanno guidato la Mongolia dal VI all’VIII secolo. Furono scoperte dall’esploratore russo Yadrintsev nel 1889; una loro copia è esposta al Museo nazionale di storia naturale di Ulaanbaatar. Khar Balgas, antica capitale uigura Siamo nel cuore dell’antico impero uiguro e Khar Balgas (una quarantina di chilometri a sud dell’Öghii e altrettanti a nord di Kharkhorin) è quel che resta dell’antica capitale di questa importante etnia di origine turca, che quattro secoli prima dell’avvento di Chinggis Khan ha dominato la Mongolia con saggezza, civiltà e sensibilità artistica dando origine anche all’alfabeto mongolo, ma finendo spazzata dai kirghisi nell’840. Gli uiguri vivono oggi nella regione cinese dello Xinjiang, suddivisi in una cinquantina di gruppi etnici. Come la vicina Kharkhorin, i resti di Khar Balgas evocano profonde emozioni storiche. Costruita sul leggendario fiume Orkhon nel 751, la città era un passaggio obbligato per le carovane e ha conservato un settore delle mura esterne dominate dagli stupa e qualche rovina da scovare nella campagna circostante. Sono state individuate tracce di un sistema di distribuzione idrica che canalizzava verso Khar Balgas le acque di sorgenti lontane diversi chilometri. Sito archeologico e sorgente Tsenkher Nella zona di Tsenkher, circa venti chilometri a sud del capoluogo Tsetserleg, sono stati portati alla luce siti archeologici paleolitici datati fino a 40.000 anni fa. Sempre a Tsenkher ci si può rilassare alle sorgenti calde, una gettata di 10 litri al secondo e una temperatura che arriva a 86°, cosicché molti mongoli ne approfittano per prepararsi un uovo bollito. Delle discutibili condutture a vista, che contrastano bruscamente con la bellezza del luogo, portano l’acqua termale ai tre campi gher circostanti, alimentando bagni, docce e piscine. Dicono sia un’acqua benefica alle affezioni più varie, una sorta di panacea utile in caso di reumatismi, dolori muscolari, dermatiti, diabete, nonché al sistema nervoso e al sistema digestivo. Non è l’unica sorgente intorno a Tsetserleg ma è la più importante. Altre sorgenti che meritano una menzione sono Shivert, Bor tal, Gyalgar e Tsagaan Sum. Riserva Naturale Bulgan uul Le verdi montagne di Bulgan uul che ombreggiano Tsetserleg sono riserva naturale dal 1965 grazie al loro ricco patrimonio di fauna (soprattutto uccelli) e flora, con ampie foreste di larici. Fanno da spartiacque a un ramo del Tamir, coprendo un’area di 1840 ha e sono il punto più a nord (khoimor) di Tsetserleg che, come in una gher, rappresenta il luogo più nobile. In questa località sono state ritrovate incisioni rupestri risalenti all’età del bronzo. Roccia sacra Taikhar Chuluu  Questa roccia granitica (una ventina di chilometri a ovest di Tsetserleg) resta un mistero per i geologi. Piantata nel bel mezzo della steppa, si innalza come un tartufo per 25 metri senza una logica apparente. Una nuda bacheca millenaria con più di 150 scritte, vessate dal tempo e databili dal VII secolo in poi, in turco, uiguro, mongolo, tibetano, manchu e cinese. I mongoli la considerano sacra e misteriosa e vi si recano in pellegrinaggio offrendo doni, pregando e legando sciarpe azzurre (gli khadag). Vi sentirete come di fronte a una cattedrale sciamanica. Secondo una leggenda, la roccia è stata scagliata dal gigante Taikhar per schiacciare un terribile serpente che faceva strage di uomini e animali, da cui il nome della roccia. Fiume Tamir Tre fiumi in uno. Il Tamir ha un carattere selvaggio, le acque sono in eterno movimento e disegnano percorsi sempre diversi, spesso scartando sui lati e formando improvvisati corsi d’acqua. Più che di Tamir bisognerebbe parlare “dei” Tamir, perché appunto sono tre i fiumi battezzati con lo stesso nome: il Tamir, il Tamir settentrionale e il Tamir meridionale, in totale 280 chilometri di acque turbolente. Tutti partono dai monti Khangai, lambiscono Tsetserleg e confluiscono nell’Orkhon. Il particolare ecosistema creato dal fiume offre scenari singolari e suggestivi, con rive acciottolate e pioppi secolari, tanto che ha ispirato moltissime canzoni, è il fiume più cantato dai mongoli, nonché uno dei romanzi storici più famosi Tungalag Tamir (Tamir trasparente) di Ch. Lodoidamba, che ha arricchito la lingua mongola con molti dei suoi personaggi e delle sue espressioni. Fiume Khanui La culla degli Unni. Secondo alcuni studiosi lungo l’ansa del fiume Khanui sarebbe nata la dinastia di Attila. In attesa di responsi più precisi, resta comunque la suggestione di un territorio di bellezza selvaggia, punteggiato da ritrovamenti storici rilevanti. Non lontano dal villaggio di Khairkhan si possono incontrare tombe unne e il monumento uiguro Troyan khan, risalente al IX secolo. Quaranta chilometri a est del fiume sorge il villaggio di Erdenemandal, punto di partenza per visitare le rovine di Khar Khul (risalenti al XVI secolo) e l’antica stele raffigurante cervi di Baruuntsuur. Fiume e canyon Chuluut La lava eruttata dal Khorgo ha creato il letto di basalto del fiume Chuluut, che nasce dai monti Khangai e, dopo 415 chilometri, si innesta nel grande Selenghe prima di attraversare la Siberia ed entrare nel mare Artico. Il Chuluut forma canyon incantevoli che possono essere attraversati a piedi con una o più giornate di trekking moderatamente impegnativo: lungo il percorso si possono scorgere i pesci accarezzati dalla corrente e antiche scritture incise nella roccia. Dal Terkhiin Tsagaan nuur nasce il fiume Suman che, alla confluenza con il Chuluut, forma diverse cascate tra cui la Choidogiin Borghio: un salto di pochi metri che permette però di osservare a occhio nudo il rocambolesco passaggio dei pesci. Vulcano Khorgo e lago Terkhiin Tsagaan Il vulcano Khorgo è uno dei vulcani più giovani della Mongolia e durante la sua ultima eruzione, avvenuta 9.000 anni fa, si sarebbe formato il lago, con un ramo del fiume Terkh. Per salire fin sull’orlo del vulcano, a circa 2.200 metri di quota, si parte dal villaggio di Tariat (c’è anche un piccolo hotel), subito a sud del Terkhiin Tsagaan nuur. Da lì si snoda una piacevole passeggiata di un quarto d’ora su un pavimento di basalto. Giunti in cima si può sbirciare nell’impressionante cono di 200 m di diametro (è estinto, ma mette un po’ i brividi) o liberare lo sguardo verso le valli dell’Arkhangai. È possibile anche scendere in fondo al cratere prestando attenzione a non franarci dentro. Una leggenda locale vuole che da questo vulcano siano nati tutti i venti del mondo. Insieme al lago Terkhiin è dal 1965 un’estensione protetta di 773 Kmq, un’area naturale contrassegnata da spaccature di basalto, pini siberiani, caverne e altri vulcani inattivi. Chi non ha molto tempo a disposizione spesso inserisce nell’itinerario il Terkhiin Tsagaan nuur quasi come un’alternativa all’escursione verso il più remoto Khövsgöl. Ma l’unico elemento in comune è che si tratta di due splendidi laghi. Il Terkhiin Tsagaan nuur è quaranta volte più piccolo dell’Khövsgöl (circa 16 chilometri per 20, contro i 134 per 39 dell’Khövsgöl) è molto meno profondo (dai 4 ai 10 metri, mentre l’Khövsgöl affonda fino ai 263 metri) e ha una vegetazione certamente meno fitta. Ma è il contesto a suggerire la visita di entrambe le mete. Il Terkhiin Tsagaan nuur è poggiato su un letto di lava a circa duemila metri di quota, all’ombra del vulcano Khorgo e chiuso a sud dal fiume Terkh: da qui il nome che significa “il lago bianco del fiume Terkh”. Attenzione a non confonderlo sulla mappa con gli altri innumerevoli Tsagaan nuur sparpagliati ovunque. D’estate non è una follia provare a immergersi nelle acque fresche e cristalline: proverete l’emozione di nuotare insieme a temoli, lenok e lucci, che qui abbondano grazie alla tutela ambientale e al clima che non favorisce la pesca e di conseguenza non fa parte delle abitudini mongole. Tale abbondanza sta correndo dei rischi a causa dell’oca nera pescatrice, un ibrido creato in Cina come strumento di pesca alternativo al cormorano, un esperimento infausto che ha creato problemi in Cina ed ora li sta creando in Mongolia. Si possono incrociare molti animali bradi, come cervi rossi, cervi siberiani, cinghiali, anatre e cormorani giganti. Nella seconda settimana di giugno si celebra il festival dello yak. Suggestivi campi gher crescono a vista d’occhio, alcuni proprio sulla riva, sistemazione ideale per improvvisare agevoli escursioni sulle colline circostanti. Parco Noyonkhangai Questa affascinante area a ovest sud del Terkhiin Tsagaan nuur è parco nazionale dal 1998 ed è molto difficile da raggiungere persino in fuoristrada, soprattutto quando piove e le piste si trasformano in pantano. Pochi sono i viaggiatori che si spingono fin al Noyonkhangai e questa è una garanzia di habitat intatto e di piante e animali rari facilmente avvistabili. A nord est si apre un altro parco naturale, condiviso con l’aimag di Zavkhan: Tarvagatain. Qui nasce il Selenghe, il fiume più lungo della Mongolia, che scorre attraverso valli incontaminate. Testo di Federico Pistone e Dulamdorj Tserendulam