Intervista da ilgiornale.it di Roberta Damiata
Dopo una lunga e profonda esperienza nelle terre della Mongolia, arriva dalla penna del giornalista Federico Pistone (foto), "Il piccolo libro della felicità - Le nove lezioni del buddismo mongolo" (Piemme), un piccolo volume dalla grande forza, per ritrovare la serenità partendo dalle piccole cose.
Una terra pura, spirituale e sorprendente come la Mongolia ha molto da insegnare a una civiltà materialista e alla ricerca di nuovi punti di riferimento come la nostra. Tra sciamanismo, buddismo e riti ancestrali, affonda la sua filosofia nella solidarietà, la tolleranza, la rettitudine, con una devozione, dimenticata in Occidente, per tutti gli esseri viventi e per la natura. Forse è questa la vera ricetta della felicità che il giornalista Federico Pistone ha riportato, dopo anni di viaggi e grande conoscenza di luoghi bellissimi immersi in una natura incontaminata ne: Il piccolo libro della felicità- Le nove lezioni del buddismo mongolo (Piemme). Un piccolo volume prezioso, che riporta all'essenza della vita, fatta di piccole cose e di grande rispetto per ogni essere vivente.
Lei è un grande conoscitore della Mongolia, cosa da sempre l’ha affascinato di questo luogo e della sua popolazione?
"È nato tutto venticinque anni fa, quando ho organizzato una spedizione per un reportage tra gli Tsaatan, gli uomini renna, una minuscola etnia a rischio di estinzione che vive nascosta nelle foreste della Mongolia settentrionale. È stata un'esperienza sconvolgente e insieme commovente, che mi ha fatto scoprire una realtà ancestrale, legata intimamente alla spiritualità e al rispetto assoluto per le altre forme di vita, la terra, il cielo, i corsi d'acqua, le rocce e la vegetazione, oltre ad un senso di solidarietà, fondamentale per la sopravvivenza stessa di quel popolo".
Come si è avvicinato alla loro spiritualità?
"Approfondendo la conoscenza della popolazione mongola, attraverso decine di viaggi in tanti anni, ho scoperto il senso mistico che permea ogni azione quotidiana, ben oltre la semplice pratica del buddhismo e dei riti sciamanici. Nei remoti monasteri ma anche all'interno delle gher, le bianche tende dei nomadi che punteggiano le infinite steppe e il deserto, ogni cosa ha un significato e ogni gesto va calibrato secondo una sorta di galateo spirituale. L'asprezza del clima (con picchi di 40 gradi sottozero anche nella capitale Ulaanbaatar, con l'aggravante del vento teso che soffia dalla Siberia), le distanze abissali e la povertà non scalfiscono l'antico orgoglio mongolo, che attinge le sue radici nel dio-condottiero Chinggis Khaan, in un senso di gratitudine verso il mondo che è la cifra stessa di una contagiosa felicità".
Solitamente quando si arriva a scrivere un libro si sono scalate le montagne del proprio dolore e guardando in basso si cerca in qualche modo di aiutare chi sta invece iniziando la salita. Cosa ha spinto lei a farlo?
"Mi sento terribilmente debitore verso il popolo mongolo che mi ha insegnato l'umiltà e la riconoscenza. Noi, intendo gli “occidentali”, apparentemente siamo dei privilegiati per le comodità di cui disponiamo, ma è proprio questa condizione a renderci perennemente insoddisfatti con un'affannosa e patetica ricerca di una felicità che però sta dalla parte opposta: cioè nella semplicità e nella consapevolezza del nostro essere minuscoli elementi di un universo stupefacente. Va dato merito alla casa editrice Piemme, sempre molto sensibile a questi temi, di avere creduto al progetto".
Cosa differenzia il buddismo mongolo dagli altri?
"I precetti del buddismo, che non è una vera e propria religione ma uno stile di vita, sono quelli classici ma in Mongolia si sono sviluppati in maniera profonda già dai tempi degli Unni che importarono gli insegnamenti buddisti dall'India permeando la civiltà di due continenti, all'insegna della tolleranza e del rispetto per il creato. Poi Chinggis Khaan esalterà ulteriormente questa libertà di pensiero e di religione, tollerando la cultura dei territori conquistato in una convivenza di lingue, tradizioni e fedi. Lo stesso Cardinale Giorgio Marengo, che conosco da quando era un umile missionario della Consolata in un villaggio nel deserto del Gobi, è riuscito - come dice lui - a sussurrare la parola di Cristo in un Paese libero dove ha potuto lavorare insieme alle autorità buddiste e alla popolazione portando aiuti concreti e diventando un punto di riferimento di serena collaborazione. In Mongolia, diversamente da altre realtà buddiste, la religione è vissuta con autentica partecipazione, senza fanatismo ma nella più dolce interpretazione".
Cosa sono le nove regole di cui parla e come possono secondo lei aiutare?
"Con l'amica mongola Delgermurun Damdin, coautrice del libro, che ha una straordinaria conoscenza delle pratiche buddiste, abbiamo individuato nove (numero sacro) esercizi da effettuare alla fine della lettura di ogni capitolo per provare, anche dal nostro spicchio di pianeta, a raggiungere o comunque ad avvicinare quelli che sono i presupposti della vita quotidiana mongola. Così sveliamo diverse “arti”, apparentemente futili ma eccezionalmente efficaci, come quella di girare intorno ai sassi, di seguire la luna, di non lasciare impronte, di osservare i pensieri o di sorridere alla morte".
Quanto nell'attuale società c’è bisogno di serenità? Allo stesso modo, iniziare questo percorso può aiutare ad evolvere verso la felicità?
"Il vero problema è che un ultimo angolo di paradiso sulla terra, come la Mongolia, anziché essere preso ad esempio da altre realtà corrotte e materialiste, rischia di finire divorato e risucchiato da interessi e potere che vanno oltre l'individuo".
Qual è il suo concetto di felicità?
"È impossibile da definire per un europeo. Possiamo fingere di avvicinarci o di provare la felicità per un istante, ma è un tentativo disperato. Per quanta meditazione possiamo praticare e per quanto ci si possa sforzare a trovare un equilibrio nella nostra vita, saremo sempre condizionati da un “regolamento di vita” che non permette distrazioni dalla società che ci ospita, spietata e vorace. Sarà banale ma è così".
Anche nelle grandi città dove viviamo, spesso stritolati da tanti problemi si può riuscire a ritrovare la stessa serenità, che ovviamente avviene molto più facilmente in un luogo immerso nella natura?
"Certo. La natura immacolata e il rispetto per ogni forma vivente rende la felicità un traguardo possibile. Per i mongoli è inconcepibile che gli animali vivano nei recinti, in allevamenti intensivi, che vengano macellati in una catena di montaggio senza scrupoli, che gli occidentali si nutrano addirittura di agnelli, vitelli, maialini, vite che non hanno completato il loro ciclo. Lo sanno, loro, che noi per questo, anche per questo, siamo infelici. Non ci invidiano, in fondo ci compatiscono e hanno ragione".
Quanto secondo lei questo piccolo libro può essere di aiuto a chi lo legge?
"Niente, poco, tanto. Dipende da chi lo sfoglia, dalla predisposizione individuale, dalla voglia di essere felici nonostante tutto. Un viaggio in Mongolia, vero o sulle pagine, può aiutare comunque molto".
di Roberta Damiata ilgiornale.it