La Mongolia, democrazia asiatica in posizione strategica tra le due potenze Cina e Russia, ha un nuovo primo ministro. Si chiama Ukhnaagiin Khurelsukh, 49 anni, ex ufficiale dell’esercito, laureato in giurisprudenza, in politica dal 2000. Un tipo sportivo, che ama andare in motocicletta (è presidente del club Harley Davidson mongolo) e a cavallo. Sul suo sito Facebook, Khurelsukh ha caricato foto che lo ritraggono in sella, a torso nudo, fucile da caccia a tracolla, e altre con giubbotto «bomber» di pelle nera, mentre stringe il manubrio di una potente motocicletta: immagini che sembrano ispirate da quelle «machiste» di Vladimir Putin diffuse dalla propaganda russa. Sua eccellenza Ukhnaagiin Khurelsukh d’altra parte discende dalla stirpe di Gengis Khan, che con il suo esercito di nomadi a cavallo conquistò un impero. Il premier è noto ai suoi simpatizzanti come «Pugno», per un destro con il quale anni fa mandò al tappeto un avversario nel Grande Hural, il Parlamento di Ulan Bator. Khurelsukh, che è stato votato all’unanimità dai deputati, è il 30° primo ministro della Mongolia: dal 1990, con la fine del regime comunista, il Paese ha abbracciato la democrazia, ma il sistema politico è sempre stato turbolento, minato da una corruzione endemica. I governi durano in media un anno e mezzo e nessun primo ministro ha mai terminato il mandato quadriennale. Il predecessore di Khurelsukh, il premier numero 29 Jargaltulga Erdenebat, è stato destituito con voto di sfiducia a settembre, con la solita accusa di corruzione e incompetenza. Entrambi vengono dal Partito popolare, che ha la maggioranza assoluta in Parlamento. Ora tocca al «Pugno», che dovrà coabitare con il presidente della Repubblica, Khaltmaagiin Battulga, esponente del partito d’opposizione. È un uomo forte, dal punto di vista fisico, anche Battulga, che in passato è stato campione mondiale di sambo, arte marziale di origine russa sviluppata cent’anni fa come metodo di lotta corpo a corpo per l’addestramento dei soldati dell’Armata Rossa. Il primo colloquio tra i due peraltro è andato piuttosto bene: premier e presidente si sono detti d’accordo sulla necessità di lavorare insieme per far uscire il Paese di tre milioni di abitanti dalla crisi economica e finanziaria. Khurelsukh dovrà fare i conti, letteralmente, con il debito accumulato dal suo Paese, costretto a ricorrere a un prestito d’emergenza di 5,5 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale. La crisi economica della Mongolia, che nel 2011 era cresciuta del 17% e ha rischiato la bancarotta, è dovuta in gran parte al crollo dei prezzi di carbone, rame e ferro di cui il suo sottosuolo è ricchissimo e al rallentamento della Cina, grande vicino e sbocco delle esportazioni. Si sono rarefatti anche gli investimenti stranieri. A marzo, per far fronte alla scadenza di una tranche di bond da 580 milioni di dollari collocati sul mercato internazionale, con le casse dello Stato quasi vuote, si erano mobilitati i cittadini, donando soldi in contanti, gioielli, oro, bestiame, anche i cavalli della loro straordinaria cultura nomade. Il default è stato evitato e nell’ultimo semestre la crescita è ripresa al ritmo del 5,8%. Cavallo e pugno del premier a parte, la Mongolia è una democrazia. Può giocare un ruolo diplomatico importante. Ha buoni rapporti con Mosca, Pechino, Seul e anche Pyongyang: e sul suo territorio si sono svolti incontri sulla questione nordcoreana. Per darle un riconoscimento l’Unione europea ha appena deciso di aprire un’ambasciata a Ulan Bator, affidandola al diplomatico italiano Marco Ferri. (di Guido Santevecchi - corrispondente del Corriere della Sera)