I veloci cambiamenti politici e sociali avvenuti in Mongolia dopo la fine del regime comunista e ancor più i rapidi cambiamenti climatici che hanno colpito la steppa hanno avuto un fortissimo impatto su una delle ultime culture nomadi rimanenti del mondo. Ma quello che preoccupa più di tutto gli ultimi pastori nomadi mongoli è la siccità, gli inverni sempre più rigidi e il sovra pascolo che minacciano i mezzi di sussistenza tradizionali e spingono più giovani verso la capitale Ulaanbaatar, sempre più sovraffollata e inquinamenta e dove aumentano criminalità e malattie mentali. Jugder Samdan, un pastore nomade ultrasettantenne che ancora resiste col suo gregge di un centinaio di capre e pecore nella vasta prateria semi-arida della provincia di Arkhangai, nella Mongolia centrale, ha detto alla Thomson Reuters Foundation: «Tutti si trasferiscono in città, Lì ci sono troppe persone». Ormai solo circa un quarto dei 3 milioni di mongoli sono nomadi che percorrono questo Paese stretto tra Cina e Russia e grande 4 volte la Germania, ma la globalizzazone e i cambiamenti climatici stanno cambiando velocemente la loro vita e, dal 2001, ogni anno circa 68.000 pastori si sono trasferiti in città. Secondo il vice sindaco di Ulan Bator, Batbayasgalan Jantsan, nei grandi quartieri “informali” allestiti per accogliere i migranti interni mancano spesso l’acqua e l’energia elettrica. Secondo l’Ufficio nazionale di statistica mongolo, negli ultimi 10 anni la popolazione della capitale mongola è quasi raddoppiata, raggiungendo gli 1,4 milioni di persone – quasi la metà di tutta la popolazione della Mongolia – con circa il 55% della popolazione della città, 750.000 persone, che vive in quartiri di yurte, le tradizionali abitazioni mongole. Intervistato dalla Thomson Reuters Foundation, il vicesindaco Jantsan ha fatto notare che questi insediamenti informali sono grandi ormai quasi quanto un’intera provincia. E in nomadi urbanizzati vivono in una città avvolta in un denso smog durante i lunghi mesi invernali, sopportando un inquinamento atmosferico altissimo. Dato che le temperature invernali possono scendere ben sotto i meno 30 gradi centigradi, gli ex pastori per stare al caldo bruciano carbone e questo fa innalzare i livelli di inquinamento fino a 14 in più rispetto ai limiti di salubrità dell’Organizzazione mondiale della aanità (Oms). Ed è proprio l’Oms a dire che ogni anno l’inquinamento atmosferico causa oltre 4.000 morti in Mongolia e che questo è diventato un grosso problema per la nazione asiatica e per popolazioni che fino a pochi anni fa non capivano nemmeno di cosa fosse l’inquinamento atmosferico da carbone, che da novembre e aprile rappresenta ormai l’80% dell’inquinamento atmosferico a Ulan Bator. Jantsan non ha dubbi: «E’ una minaccia per la sicurezza nazionale». Bazarragchaa Altantsetseg, uno specialista di utilizzo del suolo della società di consulenza fondiaria Vector Maps, ricorda che le yurte erano state progettate per una vita nomade e che solo dopo la rivoluzione sovietica del 1921 (la Mongolia è stata il secondo Paese comunista del mondo) hanno cominciato a prevalere le case stabili. Il comunismo era riuscito a mantenere un certo equilibrio: lo Stato possedeva le mandrie e i pascoli del Paese e i pastori venivano pagati per lavorare nelle fattorie collettive. I capi di bestiame erano stati mantenuti in circa 25 milioni, in linea con le valutazioni di capacità di sfruttamento della terra. Un equilibrio che è stato paradossalmente sconvolto dal 1990, quando il Partito del Popolo Mongolo (Il Partito comunista) accettò che la Momgolia diventasse una democrazia parlamentare e con la privatizzazione che ne seguì, che, secondo la Fao, provocò un aumento del bestiame fino a 56 milioni di capi. Lo stesso Altantsetseg riconosce che «Dal 1990 tutto era caos … tutti volevano avere la terra … e gli animali», Alcuni pastori si sono adattati con entusiasmo al nuovo sistema post-sovietico e Samadan spiega; «Le condizioni sono giuste per tutti: rispetto al regime precedente puoi lavorare duro per avere una vita migliore, puoi far crescere la tua mandria e comprare una macchina». Ma il drammatico aumento del bestiame ha causato problemi di sovra sfruttamento dei pascoli esacerbati dalla desertificazione e la figlia di Samdan, Altantsetseg Jugdur, di circa trent’anni, ricorda: «Quando ero un bambino non si vedevano gli animali nell’erba alta, ora guarda quello che abbiamo: solo polvere e terra».I pastori mongoli hanno visto con i loro occhi avanzare il cambiamento climatico e mangiarsi il loro effimero benessere “capitalista” ma le loro storie sono confermate da un rapporto del ministero dell’ambiente del Giappone del 2014 nel quale si afferma che tra il 1940 e il 2008 la temperatura media annuale della Mongolia è aumentata del 2,14% e con un clima più secco che ha portato a più tempeste di polvere. E mentre le temperature annuali aumentavano, dai primi anni ’90 si sono fatti sempre più frequente e intense le ondate di freddo estremo e neve, i dzud, come chiamano i mongoli gli inverni micidiali che arrivano dopo una siccità estiva. «Se c’è erba sotto la neve, allora gli animali sopravviveranno, quando non c’è erba sotto la neve, allora è Dzud», riasume Altangerel Dolgor. L’inverno appena passato in Mongolia ha sterminato più di 700.000 capi di bestiame indeboliti dalla siccità del 2017, la moria più grande dal 2011. La steppa intorno a Tuvshruulekh è ancora disseminata di cadaveri di animali congelati su cui banchettano branchi di cani randagi e stormi di avvoltoi. Samdan dice di leggere i segni dei cambiamenti climatici intorno a lui: nella steppa sono comparse per la prima volta le lucertole, mentre stanno scomparendo alcune piante stanno scomparendo, comprese quelle utilizzate nelle medicine tradizionali. Ma, passata l’euforia post-comunista, ora sono soprattutto i cambiamenti sociali a preoccupare i pastori. Bayarmaa Vanchindorj, vicedirettore del Centro di salute mentale della Mongolia ha detto alla Thomson Reuters Foundation che «C’è stato un numero crescente di casi di dipendenza, depressione, tratta e abuso sessuale dei bambini». Dopo lo dopo lo stupro di un ragazzo che ha fatto molto scalpore, a marzo migliaia di mongoli hanno protestato di fronte al parlamento a Ulan Bator per chiedere maggiori che venga fatto di più per prevenire gli abusi sui minori. Vanchindorj sottolinea che si tratta di qualcosa di completamente nuovo e al quale la popolazione non è preparata: «I mongoli per molti secoli hanno vagabondato in spazi illimitati di loro spontanea volontà, quindi penso che l’urbanizzazione abbia preso il sopravvento sulle menti delle persone». Per esempio, Narantuya Nijir ha perso tutto il suo bestiame in un dzud del 2010 e ora vive in una yurta nel cortile di quello che è diventato il suo padrone di casa, nell’estrema periferia Ulan Bator, dove la città incontra il pascolo aperto, e ammette: «È piuttosto difficile vivere nel cortile di qualcun altro, anche se non ci fanno pressione, ci preoccupiamo molto». La società mongola sta cambiando rapidamente: il figlio di Samdan, Chudur, vive con la sua giovane famiglia a Ulan Bator e si è adattato bene alla vita in città, dove si è costruito una casa e ha messu su una piccola attività commerciale. il vecchio Samdan ammette che «La pastorizia è una vita dura», ma le sue preghiere che i giovani rimangano nella steppa sono destinate a rimanere inascoltate. Suo nipote di 16 anni, Tsendmandakh Altantsetseg, che non sa niente del comunismo e della “vecchia” Mongolia, non ha una visione romantica della vita nomade tradizionale: «La natura sta cambiando, le praterie si stanno trasformando in deserti, fiumi e torrenti stanno scomparendo. Ho intenzione di andare all’università in città, dopo la laurea seguirò la mia professione, lavorerò in città e mi costruirò una vita lì». I mongoli sembrano voltare le spalle non solo al loro passato ma anche alle loro sterminate praterie. Ma quale potrà essere il destino di un piccolo popolo che si ammassa in una città inquinatissima e si dimentica della sua terribile e magnifica natura che lo ha plasmato? (fonte greenreport.it)