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3. Gengis Khan, il nomade che conquistò il mondo

La sua tomba resta un segreto. Se l’è portato con sé e con le centinaia di cavalli e cavalieri uccisi per non rivelare al mondo il luogo della sua sacra sepoltura. Inutili finora gli scavi, inutile il dispiego di satelliti e altre diavolerie tecnologiche importate da Stati Uniti e Giappone. Chinggis Khan (foto 1, la statua che domina il Parlamento della piazza Sukhbaatar a Ulaanbaatar), il più grande conquistatore di tutti i tempi, riposa in pace probabilmente nella collina di Burkhan Kaldun (foto 2), in un luogo del Khentii nel nord della Mongolia, dov’è nato intorno al 1162, incoronato imperatore nel 1206 e morto nel 1227. Ha conquistato il mondo a cavallo e l’unica volta che ne è sceso, per una caduta, è morto (foto 3, un momento del Naadam, rievocazione delle gesta di Gengis Khan). La Storia segreta dei mongoli (foto 4, un'edizione in lingua mongola), scritta da anonimo nel settimo mese dell’anno del Topo 1240, quindi diciassette anni dopo la scomparsa di Chinggis Khan, ci aiuta a capire molti aspetti della vita e della leggenda del grande condottiero, ancora oggi oggetto di vivacissime diatribe storiche. Nasce sulle rive del fiume Onon, alla confluenza con l’Hur, tenendo in mano un grumo di sangue rappreso. Viene battezzato Temüjin perché questo è il nome del capo dei Tartari appena catturato dall’esercito mongolo guidato dal padre Yesükhei. Quando Temüjin ha nove anni viene dato in sposa a Börte, che ha un anno in più. Al ritorno verso l’accampamento, Yesükhei è avvelenato dai Tartari. Temüjin cresce con la sete di vendetta, dimostrando subito uno straordinario coraggio ma anche una saggezza stupefacente. In poco tempo riunisce tutte le popolazioni nomadi e guerriere dell’Asia Centrale. Così nel 1206 viene incoronato Chinggis Khan, che significa “signore degli oceani”. Si circonda dei migliori strateghi della guerra e comincia a espandere come un’immensa onda il proprio dominio prima di morire combattendo. Lascia ai Mongoli un impero quasi senza limiti, dal mar della Cina al Mediterraneo. Come per gli Unni di Attila, la morte del condottiero coincide con il declino di un’epopea. Dopo Chinggis Khan l’impero mongolo raggiungerà dimensioni ancora superiori, ma andrà sfaldandosi fino alla dissoluzione. Bat-Erdene Batbayar, storico mongolo e attivista politico, ha una motivazione che sconfina nella psicologia: “Il nostro è un popolo nomade, guerriero ed equestre. Abbiamo facilità di conquista, ma un’estrema fragilità nel controllare territori immensi e lontani. Il rischio di dissidi e di attacchi di nostalgia era sempre in agguato”.
Insomma, la malinconia avrebbe annientato l’impero dei mongoli. La saggezza, la “democrazia” e la tolleranza di Chinggis Khan sono testimoniate da una scritta risalente al 1219 incisa su una stele dove vengono riportate le parole del condottiero: “Porto gli stessi vestiti e mangio lo stesso cibo dei bovari e degli stallieri. Tratto il mio popolo con dolcezza, come fosse un bambino, e i miei soldati come fossero miei fratelli. I miei progetti sempre passano attraverso la ragione. Ho sempre cura degli uomini e cerco di pensare sempre cos’è bene per loro. In cento battaglie che ho combattuto mi sono sempre schierato alla testa dei miei soldati e non ho mai pensato se c’era qualcuno dietro me. Ho affidato il comando delle truppe a quelli in cui l’intelligenza era pari al coraggio. A chi era attivo e capace ho affidato la cura degli accampamenti. Agli zotici ho messo in mano la frusta e li ho mandati a sorvegliare le bestie”.

Sübedei, il maestro di Rommel
Chinggis Khan ci ha messo il coraggio, la determinazione, la ferocia. Ma senza una strategia eccezionale non avrebbe mai conquistato dal nulla l’impero più vasto del mondo. E a questo ha pensato Sübedei (foto 5), considerato dagli storici il generale più arguto di tutti i tempi. Sübedei, traslitterato anche come Subotai, Subutai o Sabotai, è un pacifico pastore di renne prima che gli uomini di Chinggis Khan lo ingaggino per l’esercito. Quando l’imperatore chiede ai suoi uomini un volontario per guidare una pattuglia in una spedizione proibitiva, Sübedei non esita a farsi avanti. Dimostra subito un grande valore sul campo, ma soprattutto un’illuminata capacità organizzativa che conquista Temüjin.
Promosso generale, Sübedei guida le conquiste mongole prima occupandosi del fronte orientale, poi dirigendosi verso occidente sotto il nuovo imperatore Ögödei. Vince tutte le numerosissime battaglie che affronta, contro eserciti spesso molto più folti. Dopo aver sottomesso i territori russi e annientato la resistenza delle grandi città medioorientali, Sübedei si dirige verso l’Europa conquistando nel 1241 il regno dei Bulgari, Cracovia e l’Ungheria, rendendo quasi patetico il tentativo di resistenza del re Bela IV. I Mongoli incendiano Pest grazie anche all’utilizzo di proiettili di fuoco lanciati con le catapulte. Per gli ungheresi è un massacro: muoiono in quarantamila e i superstiti vengono fatti prigionieri.
Tutta l’Europa è ormai rassegnata all’imminente invasione mongola ma la morte improvvisa del khan Ögödei costringe Sübedei, giunto ormai alle porte di Vienna, a fare ritorno a Karakorum. Muore nel 1245, diciotto anni dopo Chinggis Khan, lasciando in eredità i confini più estesi dell’impero. Sübedei è riuscito a valorizzare le caratteristiche del suo esercito: i Mongoli sono straordinari guerrieri, dotati di coraggio, resistenza fisica e di una formidabile abilità di arcieri. Sono agevolati anche da un arco speciale che permette di scagliare frecce senza perdere il controllo del cavallo. Contrariamente a quanto si possa pensare, i Mongoli sono attrezzati molto bene, con armature leggere ma resistenti, e hanno una disciplina sconosciuta agli eserciti europei. Ma l’arma più efficace dei Mongoli è proprio il cavallo: compatto, veloce, agile, resistente, permette lunghissimi spostamenti delle truppe e incursioni repentine e micidiali. Serve però una strategia su misura e Sübedei la inventa, semplice e geniale. Il grosso dell’esercito a cavallo avanza formando un semicerchio; una sparuta avanguardia galoppa avanti in una sorta di missione suicida. Quando il nemico la avvista, si getta all’assalto convinto che gli avversari siano tutti lì: la pattuglia mongola fa dietrofront attirando gli inseguitori nella trappola. Il semicerchio dell’esercito di Sübedei si chiude e comincia una vera e propria grandinata mortale di frecce. Per preparare la battaglia nei minimi particolari, il generale introduce anche una sorta di “intelligence”, spie che si mescolano ai nemici e, al momento opportuno, galoppano a tutta velocità verso le guarnigioni mongole per informare i vertici militari.
Chinggis Khan adora Sübedei. La Storia segreta dei Mongoli, scritta proprio l’anno prima della morte di Sübedei, riporta una vera e propria dichiarazione d’amore di Chinggis Khan verso il suo luogotenente: “Mi farò topo per rubare il cibo e conservarlo per te. Mi farò corvo per catturare anche una briciola per te. Mi farò feltro per coprirti e avvolgermi con te”. Ma il genio di Sübedei è sopravvissuto ai secoli. Ottocento anni dopo, i più grandi generali della Seconda Guerra Mondiale si ispirano alle sue strategie per mettere a punto alcune delle vittorie cruciali del conflitto. George Patton, ma soprattutto Erwin Rommel, la Volpe del deserto, confesseranno di avere mosso le truppe secondo gli insegnamenti di quel pastore delle renne che conquistò il mondo a nome dei Mongoli.

Una storia segreta tra passione e crudeltà
Fu Chinggis Khan a imporre l’istruzione al popolo dell’impero mongolo. Nel 1204 fa pubblicare, in linguaggio uiguro, il codice delle leggi, chiamate Ikh Zasag, termine che ha quattro significati: ordine, divieto, danno, peccato. Sceglie l’inchiostro azzurro che richiama il sacro cielo, a sottolineare l’origine divina di questi editti. La scrittura però resta solo legata a documenti ufficiali o religiosi. La tradizione scritta è molto scarsa, come per tutte le popolazioni nomadi.
Esiste però un’eccezione straordinaria: La Storia segreta dei Mongoli, scritta nel XIII secolo da una sorta di Omero asiatico, una saga sconcertante per la nostra sensibilità occidentale, ma che permette di affondare lo sguardo in una realtà tanto lontana nel tempo e nello spazio, densa di coraggio e crudeltà, di orgoglio e passione.
Ogni mongolo ha letto la Storia segreta almeno una volta, molti la sanno a memoria, a scuola è studiata con assiduità e ha la stessa valenza che ha per noi la “Divina Commedia”. In calce, l’autore (o forse gli autori) ha voluto ricordare che l’opera è stata scritta sotto il regno di Ögödei, figlio di Chinggis Khan, nel settimo mese dell’anno del Topo (1240).
La Storia segreta, composta nell’antico alfabeto uiguro, va perduta ma a metà dell’Ottocento ne viene miracolosamente rinvenuta una copia trascritta in cinese. Racconta della vita di Chinggis Khan, dalle origini alla morte, attraverso le sue impressionanti gesta. Questo testo, lungo quanto un romanzo, è diventato l’unica vera “sceneggiatura” di mille film, libri, documentari e speculazioni sul grande condottiero e sull’impero mongolo, come la saga editoriale Il figlio della steppa di Conn Iggulden, il romanzo più venduto in Inghilterra nel 2007 o lo spettacolare film Mongol del russo Sergej Bodrov del 2008.
La Storia segreta si apre con nascita e battesimo del più grande conquistatore della storia, partendo dai successi in battaglia del padre: “Proprio mentre Yesükhei sconfigge i Tatari che hanno come capo Temüjin, la moglie Öülün partorisce presso il fiume Onon: allora nasce Chinggis Khan. Stringe in mano un grumo di sangue rappreso. Dicono: è nato mentre veniva catturato il nemico tataro Temüjin, lo chiameremo Temüjin”. Quando ha nove anni, il padre decide di trovargli una moglie dagli zii materni. “Ha dieci anni, uno in più di Temüjin. Si chiama Börte e ha il viso come l’alba e gli occhi di fuoco”. La narrazione passa attraverso il dramma della morte del padre: “Yesükhei ha molta sete e decide di fermarsi a chiedere da bere a un gruppo di Tatari. Ma loro lo riconoscono e di nascosto gli versano del veleno nella coppa. Tre giorni dopo Yesükhei sta male, chiama a sé il fratello Munglig e chiede di portargli Temüjin”.
E qui, ereditato il potere del padre, comincia la vera saga di Chinggis Khan, fitta di battaglie, conquiste, razzie, atrocità, amore, amicizia e tradimenti. Fino all’incoronazione, nel 1206: “Dopo essersi consultati fra di loro, Altan, Qucar, Saca-Beki e tutti gli altri dicono a Temüjin: 'Ti eleviamo a Khan. Inseguiremo il nemico, ti porteremo le vergini e le mogli più belle, tende, palazzi, schiavi e i cavalli migliori. Cacceremo le belve di montagne e te ne faremo dono, senza sventrarle. Per ogni animale che cattureremo, te ne daremo metà, dopo avergli tolto le zampe. Se dovessi mancare a un tuo comando, allontanaci dall’accampamento, dalle nostre donne, tagliaci le teste e buttale in terra'”.
Struggente l’episodio del ferimento di Chinggis Khan, accudito con amorevole cura dal luogotenente Zelme: “Chinggis Khan è ferito all’arteria del collo. Impossibile fermare il sangue. Zelme succhia continuamente il sangue che si rapprende. Quando ha la bocca piena, o sputa il sangue o lo inghiotte”. Infine la morte del condottiero, solo accennata, come se il narratore avesse paura di profanarne la memoria, di scoperchiare la tomba che lo stesso Chinggis Khan ha ordinato rimanesse per sempre segreta. Non dimentichiamo che l’amatissimo imperatore è scomparso da pochi anni e il dolore popolare è ancora incredibilmente vivo. “Prima di presentarsi a Chinggis Khan, Burqan sceglie i doni per il suo imperatore: nove pezzi d’oro, nove d’argento, nove vasi preziosi, nove fanciulle, nove dei migliori cavalli e nove cammelli e, come regalo principale, una tenda d’oro. Durante l’udienza Chinggis Khan si sente male”.
La Storia segreta finisce dove comincia la leggenda e l’orgoglio di un popolo.

Testo di Federico Pistone per mongolia.it